Breviario di un liberista eretico
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Breviario di un liberista eretico

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«Ancora non vedo niente di meglio che la continuazione del sistema della proprietà privata per mantenere quelle condizioni che rendon possibile la conservazione delle libertà politiche, che per me sono un aspetto essenziale della civiltà moderna [...] E non son disposto a consentire ad alcuna restrizione di esso, se non riesco a vederne chiaro il vantaggio sociale. L'ideale della società ordinata come i formicai delle termiti non mi soddisfa affatto». Questo era Ernesto Rossi. Questo il suo pensiero: praticità e ragione al servizio della libertà. Il Breviario ne vuole essere un'introduzione. Per non dimenticare un grande della politica, certo; ma molto più per guardare con occhio realmente nuovo, realmente diverso, eretico appunto, all'Italia. Alle sue miserie e alle sue opportunità.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849839890
Argomento
Business

Introduzione

GLI ERETICI, SI SA, DANNO FASTIDIO. La storia dei fanatismi religiosi, e non, sta lì a ricordarcelo ove mai ce ne fosse bisogno. L’eretico non è solo colui che non risponde a una certa idealità. È peggio. Come suggerisce l’etimologia del termine, è qualcuno che propone un’altra idealità. Dividendo, separando, sconvolgendo al livello del pensiero (il più pericoloso e dirompente) uno schema per affermarne un altro. Il più infame dei rompiscatole: quello che insinua il dubbio.
Ernesto Rossi era un eretico. Come, al pari di lui, lo sono stati tutti coloro che, in cinque secoli e forse più di mentalità «diplomatica» italiana, di cultura della dipendenza, della certezza, del parassitismo, hanno proclamato il verbo indigesto del rischio, dell’autonomia del pensiero e dell’azione, della crescita individuale, anche fallimentare, purché libera.
Liberale. Nel senso proprio, non in quello salottiero e incolore delle autodefinizioni di tanti politici di ieri e di oggi. Di più. Liberista: per buona parte dell’Italia di sempre, praticamente il diavolo in persona. Persuaso che la crescita morale dell’individuo passi anche e soprattutto per la possibilità di disporre pienamente della propria vita, anche economica. Senza troppe illusioni sulla «perfetta armonia» dei regimi individualistici e capitalistici in particolare. Ma nella pratica consapevolezza che, come scrive in apertura di Abolire la miseria,
una volta che la società fosse organizzata in modo da assicurare allo stato il monopolio completo di tutti gli strumenti di produzione, spetterebbe alla classe governante di determinarne l’impiego secondo piani generali, e ciò implica che essa dovrebbe stabilire la quantità e la qualità dei beni che i consumatori potrebbero trovare sul mercato, quanti e quali giovani andrebbero addestrati, e come andrebbero addestrati nelle varie professioni, chi dovrebbe compiere i diversi lavori, come, quando, in che modo e con quali compensi. Al singolo resterebbero ben poche opportunità di foggiare il proprio destino secondo le sue forze ed i suoi desideri. Penserebbe altri a prendere per lui le decisioni più importanti della sua vita. […] Lo stato diventerebbe il Leviatano biblico: il mostro che inghiottiva gli uomini senza nemmeno accorgersene1.
Ernesto Rossi? Ma come? Non si trattava del sostenitore delle nazionalizzazioni, della penna feroce del defunto «Il Mondo» di Pannunzio, incubo della Confindustria e dell’imprenditoria italiana (o meglio, all’italiana)? Dirigente del Partito d’Azione, allievo di Gaetano Salvemini, difensore dell’Eni, implacabile a denunciare le miserie e la miseria del libero mercato?
Tutto vero. E allora?
In realtà la contraddizione è solo apparente. Rossi come tutti i liberisti crede nella vitalità del mercato, nel dinamismo degli interessi contrapposti, nello stimolo che viene dal bisogno insoddisfatto. E come tutti (e sottolineo tutti) i liberisti, sa che il sistema capitalistico non sempre è all’altezza di questi parametri. Al seguito di Adam Smith, Léon Walras, Luigi Einaudi e insieme con Friedrich August von Hayek e Milton Friedman (questi ultimi praticamente due cavalieri dell’Apocalisse per le anime pie dell’organicismo di marca nostrana).
Tutti convinti che il mercato, macchina imperfetta di uomini imperfetti, sia cedevole in più di un punto. Tutti convinti che lo Stato sia legittimato a intervenire dove il libero gioco delle forze sociali non sia poi tanto libero. Monopoli, oligopoli, rendite di posizione o di successione, diseguaglianze nelle opportunità di nascita e così via discorrendo. Certo le sensibilità sono diverse e soprattutto le soluzioni al problema divergono. Ma l’impianto generale è lo stesso. Tanto che perfino quando si discute di «miseria», dove una certa pietas di matrice cristiano-socialista sembra animare il discorso rossiano, anche lì, alla fine, sono la vitalità del meccanismo sociale e la sua difesa che contano.
Se scostamenti vi sono da questo impianto, da questo «stampo», sono da addebitarsi alla complessità di una vicenda di pensiero ricchissima. Né è da dimenticare il pragmatismo salveminiano, di cui Rossi, per frequentazione ideale e personale, è intriso. Quel «fai ciò che devi, accada ciò che può» che porta a sperimentare, tentare, intraprendere mille idee per setacciarne una sola, ma buona.
Ognuno di noi faccia la sua parte sinceramente – scriveva dal confino alla moglie Ada – lasciando al Burattinaio la responsabilità della commedia generale. Per mio conto non mi sono mai preoccupato di sembrare straniero nel mio paese, o «superato» rispetto ai miei contemporanei. Non ho bisogno di trovare negli avvenimenti delle prove della bontà delle mie convinzioni. Mi basta la mia coscienza ed il debole lume della mia ragione. Il successo o l’insuccesso niente possono aggiungere o togliere alla mia scala di valori: possono solo illuminarmi per una scelta più adeguata dei mezzi rispetto ai fini. Ed è per questo che, comunque vadano le cose, spero che non perderò mai la mia serenità d’animo2.
Curiosamente profetico. Tutto fuorché il successo ha arriso alle sue idee. Raro caso di efficienza italiota, la damnatio memoriae che lo ha colpito ha lavorato così bene che nei giorni dei torbidi dell’Ilva, del mercantilismo strisciante, del corporativismo alla carica, nessuno, neanche per vano sfoggio di cultura, assai caro alle nostre élites, lo ha recuperato da qualche pagina sparsa di internet o affini.
Eccezion fatta per quei pochi, ostinati, cocciuti innamorati delle sue idee o semplicemente della Verità, che continuano a tributargli il giusto merito, Ernesto Rossi è morto e sepolto alla coscienza nazionale.
Ma d’altro canto, quale meraviglia? Le sue pagine sul problema Welfare sono alla pari per lucidità di analisi con quelle di Gramsci sul fordismo? Certamente. Ma infinitamente più pericolose per il sistema-Paese, perché fanno le pulci a un modello morente di assistenzialismo parassitario. I suoi contributi sul Vaticano surclassano senza tema di confronto le volgarissime cialtronerie di tanto anticlericalismo contemporaneo? Sicuro. Ma sono molto più irritanti per le nostre coscienze addormentate, considerando che in una certa Chiesa si specchia buona parte dell’Italia. E così via, a piacere del lettore.
Eppure è possibile che questo andazzo cambi. Il momento che stiamo vivendo, la storia (con un’espressione che a Rossi sicuramente non sarebbe piaciuta) sembra si sia incaricata di rievocarne lo spettro. Suo e di tutti i liberali eretici che lo hanno preceduto. Ancora una volta il Paese è con la pistola puntata alla testa. Ancora una volta la modernità gli ha fatto il vuoto intorno e minaccia di abbattere tutto se non la si lascerà entrare. Possiamo arroccarci e attendere l’inevitabile o affrontarne la sfida. Se quest’ultima dovesse essere la nostra scelta, è certo che avremo bisogno di indicazioni lungimiranti per orientarci e andare avanti.
Nel buio del futuro, la «debole luce della ragione» di Rossi potrebbe, allora, tornarci assai utile.
Questo saggio vuole essere una brevissima introduzione al magistero di Ernesto Rossi. Un’introduzione per molti versi non necessaria, dato l’autore in questione e la sua indiscussa capacità di spiegarsi. Diciamo che si tratta di un di più, un ulteriore strumento che consenta al lettore d’avere squadernato davanti, per sommi capi, l’intero discorso rossiano quando si troverà ad affrontare i brani raccolti nei capitoli del libro. Senza alcuna pretesa di esaustività. D’altro canto non ne ha l’intero volume, che, al pari di tutti i breviari, serve più da inizio di una ricerca, che da sua conclusione.

a. Il paese di Citrullopoli

Un ignaro avventore, concluso il suo soggiorno in una ridente località, si presenta all’albergatore per pagare il conto. Con sua somma meraviglia gli viene spiegato che il conto, il suo come quello di tutti i villeggianti, è interamente a carico del Comune che per di più offre, su ogni fattura, un 20% extra all’albergatore, come incentivo alla sua impresa. È la Napa, la Nuova Audace Politica Alberghiera, escogitata dal consiglio comunale locale per dar corpo alle teorie di Keynes: più spesa vuol dire più consumi, più consumi, più investimenti e così via sino alla piena occupazione. Questo spiega l’albergatore all’avventore, il quale, stordito da tanta «saggezza economica», si avvia leggermente dubbioso verso il treno del ritorno. All’angolo di una strada si imbatte in un mendicante che gli racconta d’essere stato l’unico in consiglio a essersi opposto alla Napa: «Vogliamo forse costruire una macchina simile a quella dello Stato anche nel nostro Comune?»3 aveva domandato. Si voleva mettere in mano alla burocrazia ogni forza vitale del paese, rischiando di soffocarla? Ma la reazione non era stata positiva. Come non capire che l’industria, seppur bocciata dal mercato, andava sostenuta? Che l’imprenditoria privata non poteva essere lasciata a se stessa a costo di gravi fallimenti e disastri? Che la macchina pubblica doveva intromettersi per salvaguardare il livello dei consumi, dell’occupazione, dei salari? Così avevano detto al povero consigliere, prima di considerarlo, pietosamente, un povero pazzo. L’avventore, che ne aveva ascoltato la storia, pure ne sentì pietà, ma per altri motivi. Ne riconosceva il buon senso, o se non altro la follia dell’abbaglio collettivo, ma: «Non sapevo cosa dirgli, come consolarlo. Benedett’uomo anche lui! Il buon senso… il buon senso… ma il buon senso per prima cosa insegna a non mettersi mai contro tutti, a non farsi tutti nemici…»4. Non trovando come sbrigarsela ed essendo in ritardo per il proprio treno, si congedò dal mendicante/consigliere e da quell’interessante paesello che aveva nome di Citrullopoli.
È il 1949 quando Rossi, in due articoli de «Il Mondo», narra la stuzzicante vicenda di Citrullopoli. È lui l’avventore, lui anche il consigliere ridotto dall’irrisione della gente a fare il mendicante. E, inutile dirlo, Citrullopoli è l’Italia. Il Paese dei citrulli, appunto, impermeabile alla ragione così come al senso comune. Ma sbaglierebbe chi si arrestasse a questa superficie polemica. Rossi è caustico, ironico fino al grottesco, ma si tratta di una forma accattivante per un significato più profondo. La sua è un’analisi insieme impietosa e scientifica del caso Italia. Uno studio sul nostro Stato, sulla nostra società e sul suo travagliato rapporto con la modernità, ma anche sulle dinamiche generali delle grandi teorie economico-politico-giuridiche, che si svolge lungo tutto l’arco della sua vita e al quale fin da giovane si prepara con fermezza e scrupolo.
Già prima della conclusione del liceo, dimostra una variegatissima serie d’interessi, che lo conducono a saggiare il meglio delle scienze sociali del suo tempo. A cominciare da Vilfredo Pareto.
Ricordo ancora – scriverà qualche anno più tardi – la grande impressione che mi fece la scoperta del Trattato [il Trattato di sociologia generale, N.d.A.]. Mi trovavo in convalescenza a Bologna per una grave ferita: frequentavo la biblioteca comunale per prepararmi agli esami di medicina, alla quale mi ero inconsideratamente iscritto prima di partire per il fronte. Mi capitò per combinazione fra le mani l’opera di Pareto, uscita allora da poco. Non conoscevo il nome dell’autore. Cominciai a sfogliare distrattamente le prime pagine, ma l’introduzione metodologica mi appassionò subito talmente che mandai al diavolo la preparazione agli esami e mi buttai a pesce nello studio della sociologia. Pareto mi parve allora l’autore più congeniale al mio spirito: quello che poteva meglio completare e coordinare le idee che ero andato faticosamente elaborando per mio conto, al di fuori e spesso contro l’insegnamento scolastico. Pareto mi ripulì il cervello di molti falsi problemi di cui l’avevo ingombrato con le letture filosofiche5.
Vennero poi Luigi Einaudi, Antonio De Viti De Marco, Philip Wicksteed, Gaetano Salvemini. E con ognuno di loro, da ognuno di loro, Rossi apprende gli strumenti necessari a interpretare la realtà che lo circonda, così come la propensione, da Salvemini su tutti, a una fede politica ferma, ma disincantata.
Un patrimonio di conoscenze teoriche e personali, cui affianca, nel tempo, l’esperienza viva dell’Italia prerepubblicana, passando attraverso l’interventismo, gli anni della delusione postbellica, l’impegno antifascista e la persecuzione da parte del regime.
Così, quando in una cella del carcere dove il fascismo lo aveva rinchiuso per attività sovversiva ha finalmente la possibilità di sedersi a tavolino per riversare sulla carta6 il proprio pensiero, ha oramai un bagaglio di conoscenze e di memorie tale da poter affrontare con serenità la questione dell’Italia nella modernità. Lo fa abbracciando in uno sguardo d’insieme il dibattito sul rapporto società/in -dividuo, pur mantenendosi ben ancorato, con continui rinvii, alla situazione del Paese. Nasce così l’incompiuta Critica delle costituzioni economiche, che, nei suoi progetti, avrebbe dovuto comporsi di quattro parti, una dedicata all’analisi del capitalismo, una a quella del comunismo, un’altra ancora alla critica del sindacalismo e infine una parte sulle possibili linee di riforma della società contemporanea. Ne emerge l’immagine netta di un pensatore legato alla corrente liberista. A quel liberismo, ben inteso, «morale» per il quale una società inclusiva e pluralista è garanzia di crescita per l’individuo. «L’aspetto economico» scrive nella Critica del capitalismo «è solo uno dei punti di vista dal quale dovremmo guardare il problema: in definitiva il giudizio deve discendere dalla nostra generale concezione del mondo, considerando tutti gli aspetti che possiamo chiamare politici del problema, e comprendendo nella “politica” l’attività morale, oltre all’attività economica». E aggiungeva:
L’organizzazione sociale cui tendiamo non è per noi, quella che porta alla massima produttività, in qualsiasi modo commisurata, del lavoro e delle risorse materiali disponibili; è quella che consente la più completa affermazione dei valori spirituali ai quali teniamo, lo sviluppo più ampio della personalità umana nel senso conforme al nostro ideale di civiltà. E mentre non condividiamo affatto la teoria materialistica del Marx per cui la morale sarebbe solo un «epifenomeno» dell’economia, neppure pensiamo che la morale sia tanto indipendente dall’economia che la libertà possa conciliarsi – come sostiene il Croce – con qualsiasi ordinamento economico. […] Estesa oltre un certo grado la nazionalizzazione degli strumenti produttivi, e quindi la burocratizzazione e la pianificazione dal centro dell’attività economica, riduce talmente il campo delle libere scelte individuali, mette i cittadini in uno stato di tale soggezione rispetto alla volontà della classe governante per la scelta del lavoro, per la residenza, per quel che devon produrre, per le remunerazioni, per il risparmio e per il consumo, che – comunque democratiche siano le norme sanzionate nella costituzione – in pratica i cittadini non hanno quasi più alcuna possibilità di scelta neppure nel campo politico […]. La classe governante arbitra del benessere, dell’onore, della vita di tutti i cittadini ha nella scuola, nella polizia, nell’esercito, nella magistratura, ed, in genere, nella pubblica amministrazione, tali strumenti per foggiare l’opinione pubblica a seconda del proprio interesse, il suo potere contro i singoli ed i gruppi isolati diventa così grande che niente più ha da temere dagli oppositori e dagli eretici. E questo significa tirannide7.
Il liberismo, dunque, come metodo della lib...

Indice dei contenuti

  1. Breviario di un liberista eretico
  2. Colophon
  3. Prefazione di Gaetano Pecora
  4. Introduzione di Gianmarco Pondrano Altavilla
  5. L’antidemocratico?
  6. Economia a giudizio
  7. Privatizzare i profitti e socializzare le perdite
  8. Il vizio del lupo
  9. La governante di Calamandrei
  10. Dirigismo liberale
  11. Pubblica (?) amministrazione
  12. Abolire la miseria
  13. Il manganello e l’aspersorio
  14. Indice