Introduzione
GLI ERETICI, SI SA, DANNO FASTIDIO. La storia dei fanatismi religiosi, e non, sta lì a ricordarcelo ove mai ce ne fosse bisogno. L’eretico non è solo colui che non risponde a una certa idealità. È peggio. Come suggerisce l’etimologia del termine, è qualcuno che propone un’altra idealità. Dividendo, separando, sconvolgendo al livello del pensiero (il più pericoloso e dirompente) uno schema per affermarne un altro. Il più infame dei rompiscatole: quello che insinua il dubbio.
Ernesto Rossi era un eretico. Come, al pari di lui, lo sono stati tutti coloro che, in cinque secoli e forse più di mentalità «diplomatica» italiana, di cultura della dipendenza, della certezza, del parassitismo, hanno proclamato il verbo indigesto del rischio, dell’autonomia del pensiero e dell’azione, della crescita individuale, anche fallimentare, purché libera.
Liberale. Nel senso proprio, non in quello salottiero e incolore delle autodefinizioni di tanti politici di ieri e di oggi. Di più. Liberista: per buona parte dell’Italia di sempre, praticamente il diavolo in persona. Persuaso che la crescita morale dell’individuo passi anche e soprattutto per la possibilità di disporre pienamente della propria vita, anche economica. Senza troppe illusioni sulla «perfetta armonia» dei regimi individualistici e capitalistici in particolare. Ma nella pratica consapevolezza che, come scrive in apertura di Abolire la miseria,
Ernesto Rossi? Ma come? Non si trattava del sostenitore delle nazionalizzazioni, della penna feroce del defunto «Il Mondo» di Pannunzio, incubo della Confindustria e dell’imprenditoria italiana (o meglio, all’italiana)? Dirigente del Partito d’Azione, allievo di Gaetano Salvemini, difensore dell’Eni, implacabile a denunciare le miserie e la miseria del libero mercato?
Tutto vero. E allora?
In realtà la contraddizione è solo apparente. Rossi come tutti i liberisti crede nella vitalità del mercato, nel dinamismo degli interessi contrapposti, nello stimolo che viene dal bisogno insoddisfatto. E come tutti (e sottolineo tutti) i liberisti, sa che il sistema capitalistico non sempre è all’altezza di questi parametri. Al seguito di Adam Smith, Léon Walras, Luigi Einaudi e insieme con Friedrich August von Hayek e Milton Friedman (questi ultimi praticamente due cavalieri dell’Apocalisse per le anime pie dell’organicismo di marca nostrana).
Tutti convinti che il mercato, macchina imperfetta di uomini imperfetti, sia cedevole in più di un punto. Tutti convinti che lo Stato sia legittimato a intervenire dove il libero gioco delle forze sociali non sia poi tanto libero. Monopoli, oligopoli, rendite di posizione o di successione, diseguaglianze nelle opportunità di nascita e così via discorrendo. Certo le sensibilità sono diverse e soprattutto le soluzioni al problema divergono. Ma l’impianto generale è lo stesso. Tanto che perfino quando si discute di «miseria», dove una certa pietas di matrice cristiano-socialista sembra animare il discorso rossiano, anche lì, alla fine, sono la vitalità del meccanismo sociale e la sua difesa che contano.
Se scostamenti vi sono da questo impianto, da questo «stampo», sono da addebitarsi alla complessità di una vicenda di pensiero ricchissima. Né è da dimenticare il pragmatismo salveminiano, di cui Rossi, per frequentazione ideale e personale, è intriso. Quel «fai ciò che devi, accada ciò che può» che porta a sperimentare, tentare, intraprendere mille idee per setacciarne una sola, ma buona.
Curiosamente profetico. Tutto fuorché il successo ha arriso alle sue idee. Raro caso di efficienza italiota, la damnatio memoriae che lo ha colpito ha lavorato così bene che nei giorni dei torbidi dell’Ilva, del mercantilismo strisciante, del corporativismo alla carica, nessuno, neanche per vano sfoggio di cultura, assai caro alle nostre élites, lo ha recuperato da qualche pagina sparsa di internet o affini.
Eccezion fatta per quei pochi, ostinati, cocciuti innamorati delle sue idee o semplicemente della Verità, che continuano a tributargli il giusto merito, Ernesto Rossi è morto e sepolto alla coscienza nazionale.
Ma d’altro canto, quale meraviglia? Le sue pagine sul problema Welfare sono alla pari per lucidità di analisi con quelle di Gramsci sul fordismo? Certamente. Ma infinitamente più pericolose per il sistema-Paese, perché fanno le pulci a un modello morente di assistenzialismo parassitario. I suoi contributi sul Vaticano surclassano senza tema di confronto le volgarissime cialtronerie di tanto anticlericalismo contemporaneo? Sicuro. Ma sono molto più irritanti per le nostre coscienze addormentate, considerando che in una certa Chiesa si specchia buona parte dell’Italia. E così via, a piacere del lettore.
Eppure è possibile che questo andazzo cambi. Il momento che stiamo vivendo, la storia (con un’espressione che a Rossi sicuramente non sarebbe piaciuta) sembra si sia incaricata di rievocarne lo spettro. Suo e di tutti i liberali eretici che lo hanno preceduto. Ancora una volta il Paese è con la pistola puntata alla testa. Ancora una volta la modernità gli ha fatto il vuoto intorno e minaccia di abbattere tutto se non la si lascerà entrare. Possiamo arroccarci e attendere l’inevitabile o affrontarne la sfida. Se quest’ultima dovesse essere la nostra scelta, è certo che avremo bisogno di indicazioni lungimiranti per orientarci e andare avanti.
Nel buio del futuro, la «debole luce della ragione» di Rossi potrebbe, allora, tornarci assai utile.
Questo saggio vuole essere una brevissima introduzione al magistero di Ernesto Rossi. Un’introduzione per molti versi non necessaria, dato l’autore in questione e la sua indiscussa capacità di spiegarsi. Diciamo che si tratta di un di più, un ulteriore strumento che consenta al lettore d’avere squadernato davanti, per sommi capi, l’intero discorso rossiano quando si troverà ad affrontare i brani raccolti nei capitoli del libro. Senza alcuna pretesa di esaustività. D’altro canto non ne ha l’intero volume, che, al pari di tutti i breviari, serve più da inizio di una ricerca, che da sua conclusione.
a. Il paese di Citrullopoli
Un ignaro avventore, concluso il suo soggiorno in una ridente località, si presenta all’albergatore per pagare il conto. Con sua somma meraviglia gli viene spiegato che il conto, il suo come quello di tutti i villeggianti, è interamente a carico del Comune che per di più offre, su ogni fattura, un 20% extra all’albergatore, come incentivo alla sua impresa. È la Napa, la Nuova Audace Politica Alberghiera, escogitata dal consiglio comunale locale per dar corpo alle teorie di Keynes: più spesa vuol dire più consumi, più consumi, più investimenti e così via sino alla piena occupazione. Questo spiega l’albergatore all’avventore, il quale, stordito da tanta «saggezza economica», si avvia leggermente dubbioso verso il treno del ritorno. All’angolo di una strada si imbatte in un mendicante che gli racconta d’essere stato l’unico in consiglio a essersi opposto alla Napa: «Vogliamo forse costruire una macchina simile a quella dello Stato anche nel nostro Comune?»3 aveva domandato. Si voleva mettere in mano alla burocrazia ogni forza vitale del paese, rischiando di soffocarla? Ma la reazione non era stata positiva. Come non capire che l’industria, seppur bocciata dal mercato, andava sostenuta? Che l’imprenditoria privata non poteva essere lasciata a se stessa a costo di gravi fallimenti e disastri? Che la macchina pubblica doveva intromettersi per salvaguardare il livello dei consumi, dell’occupazione, dei salari? Così avevano detto al povero consigliere, prima di considerarlo, pietosamente, un povero pazzo. L’avventore, che ne aveva ascoltato la storia, pure ne sentì pietà, ma per altri motivi. Ne riconosceva il buon senso, o se non altro la follia dell’abbaglio collettivo, ma: «Non sapevo cosa dirgli, come consolarlo. Benedett’uomo anche lui! Il buon senso… il buon senso… ma il buon senso per prima cosa insegna a non mettersi mai contro tutti, a non farsi tutti nemici…»4. Non trovando come sbrigarsela ed essendo in ritardo per il proprio treno, si congedò dal mendicante/consigliere e da quell’interessante paesello che aveva nome di Citrullopoli.
È il 1949 quando Rossi, in due articoli de «Il Mondo», narra la stuzzicante vicenda di Citrullopoli. È lui l’avventore, lui anche il consigliere ridotto dall’irrisione della gente a fare il mendicante. E, inutile dirlo, Citrullopoli è l’Italia. Il Paese dei citrulli, appunto, impermeabile alla ragione così come al senso comune. Ma sbaglierebbe chi si arrestasse a questa superficie polemica. Rossi è caustico, ironico fino al grottesco, ma si tratta di una forma accattivante per un significato più profondo. La sua è un’analisi insieme impietosa e scientifica del caso Italia. Uno studio sul nostro Stato, sulla nostra società e sul suo travagliato rapporto con la modernità, ma anche sulle dinamiche generali delle grandi teorie economico-politico-giuridiche, che si svolge lungo tutto l’arco della sua vita e al quale fin da giovane si prepara con fermezza e scrupolo.
Già prima della conclusione del liceo, dimostra una variegatissima serie d’interessi, che lo conducono a saggiare il meglio delle scienze sociali del suo tempo. A cominciare da Vilfredo Pareto.
Vennero poi Luigi Einaudi, Antonio De Viti De Marco, Philip Wicksteed, Gaetano Salvemini. E con ognuno di loro, da ognuno di loro, Rossi apprende gli strumenti necessari a interpretare la realtà che lo circonda, così come la propensione, da Salvemini su tutti, a una fede politica ferma, ma disincantata.
Un patrimonio di conoscenze teoriche e personali, cui affianca, nel tempo, l’esperienza viva dell’Italia prerepubblicana, passando attraverso l’interventismo, gli anni della delusione postbellica, l’impegno antifascista e la persecuzione da parte del regime.
Così, quando in una cella del carcere dove il fascismo lo aveva rinchiuso per attività sovversiva ha finalmente la possibilità di sedersi a tavolino per riversare sulla carta6 il proprio pensiero, ha oramai un bagaglio di conoscenze e di memorie tale da poter affrontare con serenità la questione dell’Italia nella modernità. Lo fa abbracciando in uno sguardo d’insieme il dibattito sul rapporto società/in -dividuo, pur mantenendosi ben ancorato, con continui rinvii, alla situazione del Paese. Nasce così l’incompiuta Critica delle costituzioni economiche, che, nei suoi progetti, avrebbe dovuto comporsi di quattro parti, una dedicata all’analisi del capitalismo, una a quella del comunismo, un’altra ancora alla critica del sindacalismo e infine una parte sulle possibili linee di riforma della società contemporanea. Ne emerge l’immagine netta di un pensatore legato alla corrente liberista. A quel liberismo, ben inteso, «morale» per il quale una società inclusiva e pluralista è garanzia di crescita per l’individuo. «L’aspetto economico» scrive nella Critica del capitalismo «è solo uno dei punti di vista dal quale dovremmo guardare il problema: in definitiva il giudizio deve discendere dalla nostra generale concezione del mondo, considerando tutti gli aspetti che possiamo chiamare politici del problema, e comprendendo nella “politica” l’attività morale, oltre all’attività economica». E aggiungeva:
Il liberismo, dunque, come metodo della lib...