In difesa dell'egoismo
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Questo è un elogio dell'egoismo. Perché squarcia il velo di ipocrisia che impedisce di apprezzare il motore che ha aumentato il benessere della civiltà, che senza egoismo non sarebbe nata e non potrebbe sopravvivere. Perché, osservando quali interessi determinano i comportamenti, emerge che il contrario di egoismo non è altruismo, ma autolesionismo. Perché, se in una società il risultato per il singolo non è superiore a quello che avrebbe ottenuto da solo, o si ha uno sfruttamento ingiustificato delle risorse altrui oppure la società è in perdita e non ha nessuna ragione di esistere. Perché l'altruismo è il prodotto dell'egoismo e dell'intelligenza. Perché ognuno sia fiero e libero di essere egoista, consapevole che solo così potrà essere felice perché utile a se stesso e agli altri.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788849844566
Categoria
Sociologia

L’egoismo sociale

La nascita delle società tramite i desideri

Un uomo solo è inutile a se stesso. Come? Fino adesso ho esaltato l’egoismo e ora lo rinnego? Niente affatto. Questo non è egoismo, ma individualismo. C’è un abisso. Non pensate all’uomo moderno, ma al selvaggio, l’eremita. Può procurarsi il cibo, cercare di difendersi dalla Natura, con serie difficoltà; senza una donna non può procreare e, quanto al resto, ben poco Robinson Crusoe potrà fare, se non sollazzarsi con Venerdì. E i bisogni secondari o l’immortalità dei memi? Un uomo solo, quindi, può tentare di assecondare l’egoismo interiore, gli serve almeno una donna per quello esteriore, ma non può fare nulla per quelli psicologici senza la collaborazione degli altri perché solo la società ci permette di appagarli tutti.
Quello che definisco egoismo «sociale» è, infatti, una forma strumentale a quelli interiori ed esteriori, nato per soddisfarli in tutte le forme in cui si sono sviluppati nei millenni. È ciò da cui prende vita la suddivisione dei compiti, sperimentata con successo nella famiglia e allargatasi a tribù, nazioni, continenti, fino ad abbracciare l’intero genere umano. È un circolo virtuoso evoluzionistico: più aumenta il grado di civilizzazione di una società, maggiore sarà il numero di persone necessarie a soddisfare i bisogni, soprattutto psicologici; più si raffinano e aumentano gusti e desideri, più progredita, allargata, specializzata dovrà essere la società in grado di appagarli. È paradossale, peraltro, che chi più avversa l’egoismo esalti la preminenza della società sul singolo, senza rendersi conto che senza egoismo la società non servirebbe a nulla, non sarebbe forse neppure nata e non si sarebbe sviluppata così. Sono gli egoismi a renderla indispensabile. È tutta questione di tempo, capacità e libero scambio.
Prendiamo l’esempio più banale e considerato effimero, i vestiti. Su un’isola deserta ai tropici il problema non si pone. Già in un luogo più freddo devo proteggermi altrimenti mi ammalo e, visto che non ci sono medici, rischio la morte e non mi sembra un buon inizio. Se ho troppi uomini intorno e voglio decidere io con chi procreare è il caso che mi copra. Inizio a vestirmi di pelli, ma per le stoffe devo imparare a filarle, tesserle, cucirle. Mi accorgo già così di avere bisogno degli altri. Se non vivessi in una società chi me lo insegnerebbe? Le conoscenze sarebbero limitate all’ambito familiare, perché non vi è scambio, confronto, ci si limita alle tradizioni, al più le si sviluppa. Se l’inventore della tessitura non è mio parente sempre di pelli resto vestita. E l’immortalità dei memi? Difficile che la mia anima possa aspirare più che al purgatorio e basta un figlio ribelle perché le idee degli avi finiscano dritte all’inferno. Senza una società, quindi, l’egoismo esteriore psicologico avrebbe poco senso.
Aggiungici che devo mangiare, difendermi, cacciare, coltivare, badare ai figli. Ma siamo ancora nel campo del fattibile, dei bisogni primari. Quando mi rendo conto che già una coppia è indispensabile per crescere un figlio, mi viene naturale comprendere che la collaborazione di una famiglia allargata è ancora meglio. Si organizza una tribù, ci si suddivide i compiti in modo più efficiente. Fin qui tutto molto idilliaco, viviamo in una specie di comune, abbiamo più o meno ciò che ci serve, anche perché i desideri sono limitati, quanto la nostra cultura.
Eh già, siamo ignoranti, non sappiamo cosa ci sia oltre le mura domestiche e pensiamo di non volere niente di più. Però al mondo ci sono altre persone alla ricerca di risorse che sono, ahinoi, limitate, problema da non sottovalutare mai. Poniamo che la mia vicina non sia in grado di fare vestiti e vede i miei, li desidera, supplica il marito di averli e sappiamo quanto possa essere insistente una donna quando non ha niente da mettersi. Il poverino esasperato usa l’unico mezzo che conosce, la forza, per prendermeli. Quando mio marito lo scopre la lotta è inevitabile e prima o poi ci scappa il morto. Lo stesso, peraltro, può valere per l’altro che ha inventato le scarpe. Ma ha senso lottare, rischiare la vita per prendere le risorse altrui? Peraltro, se nella guerra tra clan muore il calzolaio con tutti i suoi memi, sarà stato tutto inutile.
Arriva così un giorno un saggio con un’idea geniale: e se ci scambiassimo pacificamente scarpe con vestiti? Li barattiamo stabilendo un indice di cambio e siamo tutti più sereni. Si comincia con la tribù delle scarpe, poi arriva quella degli attrezzi, delle capanne, dei macellai, dei medici, e avanti così quante la fantasia ne suggerisce. A ogni incontro i memi si trasmettono per imitazione, combinandosi con sensi ed emozioni, si creano gusti, desideri, abilità e conoscenze che si evolvono in maniera esponenziale e più raffinata, grazie alla specializzazione. Ed ecco che grazie al libero scambio nascono le prime civiltà, un insieme di clan che si uniscono, si suddividono i mestieri, producono diversi beni e servizi che si scambiano a vicenda.
Man mano che la società si allarga, aumenta la clientela e, quindi, i guadagni della mia sartoria, così come il numero di beni e servizi che posso ottenere in un mercato in espansione e ben suddiviso. Allo stesso tempo, i guadagni maggiori mi permettono di risparmiare qualcosa per pensare a lungo termine sia al mio egoismo interiore che esteriore.
Peraltro, più aumentano gli ordini più diventa impossibile soddisfarli tutti e allora assumo degli apprendisti per aiutarmi. Tra questi c’è un genio più bravo di me e le clienti cominciano a preferire le sue creazioni, scelgono in base all’estetica e non più solo per coprirsi. Certo non è detto che a tutti piacciano gli stessi modelli e ci sarà chi preferirà la qualità della stoffa o la praticità. È proprio questo il punto: si tratta di modi personali di soddisfare i desideri nel modo preferito. Ma la scelta in sé è già espressione di egoismo; quando decidiamo quale senso appagare e come, stiamo assecondando un gusto, frutto delle esperienze passate, ma soprattutto del confronto. Un confronto che può aversi solo in una società, che trae spunti dalle idee altrui, dal modo in cui ognuno appaga i suoi desideri, crea o acquista oggetti che li soddisfano. Si sviluppano così innumerevoli sfumature di desideri, preferenze, si arricchiscono i modi in cui si possono appagare i sensi e ci si ingegna per trovarne di ulteriori.
E allora, più aumentano le persone che richiedono vestiti, più aumenta il numero dei sarti che li creano. Ognuno di loro recepisce le mie idee, ma ci aggiunge la sua fantasia e crea modelli differenti. I nostri memi si combinano e nascono abiti che contengono comunque una parte della mia anima e così ogni nuovo stilista mi aiuta ad assecondare il mio desiderio di immortalità. Aspirazione che nutrono anche gli altri sarti che si impegnano per eccellere, vincere la selezione mentale e trasmettere così la loro memoria attraverso le creazioni.
È grazie alla leale competizione, a una efficiente suddivisione dei compiti che si può, quindi, superare se stessi e i concorrenti. Emerge il talento grazie alla specializzazione, andando oltre i bisogni primari di una tribù chiusa, dove non c’è tempo per quelli secondari quando è in gioco la sopravvivenza. In una società complessa alcuni continueranno a creare beni essenziali, mentre altri potranno dedicarsi alla loro trasformazione, per renderli più desiderabili, a nuove idee, nuovi desideri. D’altronde, quando agricoltori e allevatori sono sufficienti a sfamare l’intera popolazione, delle braccia in più sarebbero solo energia sprecata e utilizzo inefficiente delle risorse. Se fossimo tutti cuochi e non esistessero sarti, saremmo tutti obesi nudi.
L’egoismo sociale, inoltre, asseconda la naturale diversità umana. Grazie alle infinite combinazioni di memi e geni, ci evolviamo in ambiti diversi, riempiamo gli spazi vuoti lasciati da altri, consentendo a chiunque di trovare la propria strada e il miglior contributo da dare alla società. Solo in una società evoluta possono, quindi, esserci produttori specializzati in bottoni, cerniere, filati, macchine da cucire. E ogni nuovo settore crea un’ulteriore possibilità di miglioramento attraverso la concorrenza. Ognuno punterà a essere preferito, emergere, creare i prodotti migliori o a prezzi più bassi. La parcellizzazione dei mestieri diviene inevitabile; ovvio che chi inizia a dedicarsi solo alle passamanerie avrà un vantaggio sui concorrenti generici, che saranno indotti a imitarlo e specializzarsi su un prodotto specifico.
Emerge e si sviluppa così una forma di empatia, la capacità di capire i gusti dei clienti, trovare modi sempre più raffinati di appagarne i sensi. A loro volta i clienti imparano a raffinare i gusti, a premiare i più bravi. Nasce così il lusso, la quintessenza del gusto, il prodotto più bello e desiderabile, di più pregiata qualità. È inevitabile che questi beni costino più di quelli mediocri: sono i più ambiti e le persone sono disposte a spendere di più, a rinunciare ad altri beni che occupano un gradino inferiore nella scala dei loro desideri. Altrettanto inevitabile che non tutti se li possano permettere, però.
Ora, si è già notato come il singolo abbia delle alternative di reazione a un desiderio, che vanno dal furto fino alla negazione invidiosa. La maggior parte delle persone, però, ha imparato che il modo più efficiente per appagare i desideri sia lavorare. Il bene di lusso diventa l’obiettivo a cui aspirare e che può indurci a impegnarci. Non importa se riusciamo a coronare il desiderio o se ci accontentiamo di un bene inferiore, perché comunque ci saremo migliorati e con noi l’intera società. Se adoro gli abiti di Dolce&Gabbana, questo potrebbe indurmi a cercare un lavoro e così scoprire di avere una predisposizione per la falegnameria. Se anche non guadagnassi abbastanza, ma a sufficienza per abiti inferiori, starei certo meglio di quando ero una nullafacente, vestita di stracci, inutile a sé e agli altri.
Peraltro, per l’immediatezza del messaggio, l’abito è convenzionalmente usato per fare il monaco. Al di là delle divise, mi piace osservare le persone e decifrare cosa anche inconsciamente vogliano trasmettere. Il loro abito dice: guardami, sono bella, timida, amo le tradizioni, voglio distinguermi, essere accettato da tutti; sono un intellettuale, odio il lusso e per questo sono un buono, detesto il consumismo, amo la qualità, ma me ne vergogno, così prediligo i tessuti alle forme, ho viaggiato molto; sono insicuro, preferisco omologarmi; amo il lusso, sono eco-compatibile. Riusciamo così a trasmettere i nostri memi, a mostrare ciò che pensiamo, e nessuno può avere la presunzione di dirci come ci dobbiamo vestire, tanto quanto non ne ha di imporci il suo pensiero. Diffido, quindi, di tutti coloro che si fingono disinteressati all’apparenza e bollano come superficiale chi ama i bei vestiti. È solo un modo di far prevalere le proprie idee e omologare i dissidenti obbligandoli a indossare identiche casacche blu.
Ebbene, tutto questo è nato solo da un vestito che, a quanto pare, così effimero non era. Ora, prendete tutti questi vantaggi derivanti dalla vita in società e moltiplicateli per ogni oggetto che vi circonda, anche il più banale; moltiplicate il risultato per tutta la filiera di produzione, dalla materia prima al prodotto finito; aggiungeteci, poi, i servizi del terziario, i mestieri che vi vengono in mente e quelli di cui non immaginate neppure l’esistenza. Il risultato, infine, moltiplicatelo per tutti i concorrenti e otterrete la moderna civiltà. Pensate che avremmo tutto questo se dal calcolo eliminassimo il fattore desiderio? Gli egoismi personali non traggono solo indubitabili vantaggi dall’egoismo sociale, ma ne costituiscono la stessa ragione di esistere, il collante che unisce in una struttura complessa quelli di tutta la popolazione e che permette di soddisfarli nel modo più efficiente e raffinato, a un livello che non saremmo mai in grado di raggiungere da soli. Il vantaggio è, quindi, senz’altro maggiore di ciò che ricaveremmo dall’individualismo.
Mi sembra, quindi, azzardato, se non suicida, pensare di costruire la società ideale estirpando l’egoismo dei suoi membri, perché senza non avrebbero nessun motivo per restare uniti. È solo grazie a ogni desiderio che ogni attività si sviluppa e ha ragione di esistere. Elimina un desiderio e avrai eliminato tutte le attività che da questo sono nate, un intero mercato formato da imprenditori, lavoratori, collaboratori, l’indotto e tutte le famiglie mantenute grazie all’appagamento di quel singolo desiderio. Elimina tutti i desideri e crollerà tutto il sistema organizzativo sociale che ne permette la soddisfazione. E così la regressione alla tribù, alla legge della giungla, sarà inevitabile.

Stimare perché?

Una volta inquadrati i principali vantaggi dell’egoismo sociale si comprende perché gli uomini abbiano creato e sviluppato la società, pur a costo dei sacrifici che comporta. Perché funzioni, d’altronde, tutti i suoi membri devono fare la loro parte, fornendo i beni e servizi utili a soddisfare i desideri altrui. Se vendo abiti, devo poter acquistare con il ricavato cibo, scarpe e tutti i beni che soddisfino i miei bisogni essenziali e secondari, altrimenti salta il sistema. Questo non significa, però, che si possa obbligare qualcuno a lavorare, perché l’adesione a una società, in teoria, dovrebbe essere dettata dalla scelta del singolo di assecondare il suo egoismo sociale, ossia ottenere i benefici di una comunità organizzata. Proprio per la sua strumentalità agli egoismi personali, è un’aberrazione far prevalere la società sul singolo, perché significa imporre con la forza a un individuo di soddisfare gli egoismi degli altri in contrasto con la sua libertà inviolabile. Dalla Regola Aurea si passa infatti al dovere di fare agli altri ciò che desiderano; un evidente controsenso, perché nessuno vorrebbe subire questo trattamento.
D’altronde, se nell’antichità l’adesione a una società era volontaria, ormai non esiste lembo di terra non soggetto alla sovranità di uno Stato. Ognuno si ritrova a far parte di una società per un accidente di nascita o della storia e isolarsi non è semplice, per quanto fattibile, magari in una landa desolata. L’eremita che sceglie di disconoscere la società per puro individualismo, deve però sopravvivere senza aiuti e rifiutare qualsiasi tipo di scambio, perché già il baratto è il primo germe della civiltà che lui rinnega. Se si comportasse davvero come un animale selvaggio, ne apprezzerei la coerenza, non lo stimerei perché inutile da un punto di vista sociale, ma almeno non sfrutterebbe ipocritamente i benefici della società rinnegandone il fondamento. Il punto è questo: il solo beneficiarne, se non pretenderne i diritti, è di per sé una scelta, che comporta corrispondenti doveri sia sociali che giuridici. Se uno Stato si fonda su un contratto sociale, l’adesione avviene non solo per nascita, quanto per un comportamento concludente di sfruttamento della vita organizzata.
Che si tratti di un atto volontario, d’altra parte, lo dimostra il fatto che l’individuo può scegliere di lasciare una società che non ritiene soddisfi i suoi egoismi, andando dove ritiene di poter ottenere di meglio. La ricerca del miglior equilibrio tra egoismi personali e sociali è, infatti, il fondamento dell’emigrazione.
Ora, come conciliare la libertà del singolo con l’inevitabilità del nascere in una società? Nella storia si sono visti vari tentativi di costringere con la forza le persone a lavorare per la comunità, o meglio per i governanti di turno. Non stupisce, però, che questi tentativi, dall’obbligo di lavorare dei regimi comunisti ad altre forme di schiavitù, siano falliti. Quando, infatti, il singolo vede calpestati i suoi legittimi egoismi per soddisfare quelli altrui, è inevitabile che i primi alla fine riprendano il sopravvento, inducendolo ad andarsene o a ribellarsi. C’è, invece, un metodo che si è rivelato il più efficace, perché grazie al nostro impareggiabile cervello è emerso l’aspetto psicologico dell’egoismo sociale: la stima.
Pensate al nullafacente, che campa di sussidi statali, pretende di essere curato gratis, frequenta l’università pubblica, senza azzardarsi però a studiare o pagare le rette perché ha un presunto diritto allo studio. E i doveri? Sciocchezze veteroborghesi. Pensate, quindi, al ragazzo volenteroso che lavora per mantenersi agli studi, si laurea con lode, diventa medico. Ovvio che il primo meriti tutta la riprovazione, mentre al secondo vada tutta la stima. Ebbene, stima e riprovazione nascono e hanno ragione di esistere solo nell’egoismo sociale. Per quale altro motivo dovremmo interessarci degli altri? Sarà libero il nullafacente di condurre la sua vita come crede? E cosa ci importa di un medico che non cura noi? È, invece, il nostro egoismo sociale a pretendere – ebbene sì, magari inconsciamente, ma lo pretendiamo – che ognuno si faccia carico della sua parte di compiti. Anche se staremmo volentieri in panciolle, ci diamo da fare per meritarci i vantaggi che solo la società può darci, paghiamo le tasse per avere servizi, e non sopportiamo l’idea che qualcuno se ne approfitti senza dare nulla in cambio.
È così il piacere che provano a essere stimati, così come il malessere nel sentirsi denigrati, a indurre la maggior parte degli uomini a lavorare, a dare il proprio contributo alla società di cui vogliono essere considerati membri a pieno diritto. È un piacere che trae linfa anche dall’egoismo esteriore psicologico, dal desiderio di essere ricordati anche da morti per quanto fatto in vita.
Dawkins ritiene che la collaborazione tra esseri viventi derivi solo dall’egoismo dei geni che, attraverso un calcolo delle probabilità basato sull’affascinante teoria dei giochi, sperano così di garantire l’immortalità ai geni che potrebbero avere in comune con altri. Non discuto la validità scientifica di questa teoria, certo riscontrabile nel mondo animale, ma ritengo che, almeno per gli esseri umani, non si possa finire nel determinismo biologico sottovalutando la spinta dell’egoismo sociale. La cooperazione risulta necessaria, d’altronde, anche per la perpetuazione dei memi che accomunano i membri di una comunità pur in assenza di geni comuni.
Che sia stata la cultura, la combinazione tra spirito di sopravvivenza di memi e geni, collegherei l’istinto, tutto umano, di aiutare il prossimo alla consapevolezza di far parte di un organismo vivente, una società che acquista vita autonoma. Così come il benessere e il dolore dipendono da ogni parte del corpo, un’infezione non curata può portare alla setticemia, un’arteria ostruita può essere letale, anche la perdita di un parente è una tragedia per l’intera famiglia, i cui membri si aiutano per garantire la sopravvivenza di geni e memi comuni. Allo stesso modo il singolo sente di non essere solo un individuo, ma parte di una comunità vivente, che può perpetuarsi solo se tutti i componenti sopravvivono collaborando. Ecco che la stima altrui è la misura del contributo che abbiamo dato, la conferma di aver agito nel modo corretto per il benessere della società e, quindi, di noi stessi, dei nostri figli e discendenti. Se affermo, quindi, che l’altruismo nasce dall’egoismo come strumento per soddisfarlo, è perché deriva dall’egoismo sociale, dalla consapevolezza della necessità dell’aiuto reciproco al fine di trarre tutti i vantaggi che solo la società organizzata può garantire. E si tratta di vantaggi tutti egoistici, sia interiori che esteriori, psicologici o meno, che nessun individuo potrà mai ottenere con le sue sole forze.
Anche il benefattore apparentemente disinteressato, quindi, aiuta il prossimo non perché si aspetti che ricambi, ma perché sente che in una comunità potrà ottenere aiuto in caso di bisogno solo se altri agiscono come lui, solo se la società continuerà a esistere e funzionare, anche grazie al suo gesto. Celebriamo per questo l’eroe, chi si sacrifica per gli altri, e, se la analizzo dal punto di vista dell’egoismo sociale, la spinta a rischiare la vita diventa più plausibile e chiara. L’eroe sente come se fosse proprio il pericolo corso da un altro essere umano. Ritrovo questa spinta nei soldati che difendono la Patria, nei medici, nello scienziato che cerca la cura di una malattia letale. Quante volte i ricercatori o i loro finanziatori percepiscono questa...

Indice dei contenuti

  1. In difesa dell’egoismo
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione di Renato Brunetta
  5. L’egoismo interiore
  6. L’egoismo interiore psicologico
  7. L’egoismo esteriore
  8. L’egoismo esteriore psicologico
  9. L’egoismo sociale
  10. Bibliografia