Il buio su Parigi
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Il buio su Parigi

Oltre la cronaca nei giorni del terrore

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Il buio su Parigi

Oltre la cronaca nei giorni del terrore

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Il buio su Parigi - scrive Giovanna Pancheri - non è un'analisi, non è un'inchiesta ma vuole «essere un racconto di quanto accaduto, dettagliato e vissuto in prima persona non solo da chi è stato tragicamente testimone diretto degli attentati del 2015, ma anche con il punto di vista di chi da inviato ha potuto seguire e coprire questi tragici fatti da vicino, sul campo. Il 7 gennaio, il 9 gennaio, il13 novembre chi scrive c'era, come c'era nei giorni seguenti tra le lacrime, il dolore, la rabbia, le candele, gli slogan urlati al cielo e le preghiere sussurrate. Ho visto il sangue sui marciapiedi, i fiori infilati nei fori lasciati dalle pallottole sulle vetrine dei ristoranti, ho intervistato i protagonisti e i testimoni, ho ascoltato la reazione politica prima francese e poi mondiale, ho visto la Francia e poi l'Europa cambiare sotto i miei occhi. L'annus horribilis della Francia ha dato il via ad una nuova epoca storica in Europa. Un'epoca oscura fatta di paura, chiusura e diffidenza. Il lettore potrà mettere insieme i frammenti, trovare il filo che lega i fatti e iniziare a comprendere che quando sono state spente le luci della Ville Lumière, il buio è iniziato a calare sull'Europa tutta».«Dell'attacco alla redazione di Charlie Hebdo, degli ostaggi al supermercato kosher, della bomba allo stadio, della strage al Bataclan conosciamo la conta dei morti e la cronaca, ma Giovanna Pancheri c'era e correva (letteralmente) da un capo all'altro di Parigi, fiato grosso e paura, per raccontare gli attentati. Ciò che ha visto, che ha vissuto, le testimonianze inedite e toccanti che ha raccolto, tutto è in questo libro. Uno sguardo necessario sui giorni del terrore» (Roberto Saviano)

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788849853018
Argomento
Storia

Il buio sull’Europa

Ei Fu. Siccome immobile, / dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore / orba di tanto spiro,
così percossa, attonita / la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima / ora dell’uom fatale;
Alessandro Manzoni, Il cinque maggio

13 novembre 2015

«Giò, hai visto cosa sta succedendo a Parigi? Stanno sparando nei bar, qualcuno si è fatto esplodere allo stadio… Quando puoi partire?». «Renato… Parigi? Ancora?». Mentre pronuncio queste parole vado dalla sala da pranzo al salone e accendo il televisore: le telecamere dei circuiti sono già vicini al Bataclan, il numero dei morti aumenta di minuto in minuto, ho ancora piantata in testa l’immagine di un ragazzo su una barella che urla dal dolore con la gamba squarciata e il viso sporco di sangue… Mi devo sedere: «Io sono in Italia, ricordi? Ormai è tardi, dubito che ci siano ancora voli… Posso prendere il primo di domattina, allertate invece il mio operatore a Bruxelles, lui può provare a partire già stasera; piuttosto vuoi che vengo in redazione? Posso aiutarvi in qualche modo con i commenti da studio?». «No, tranquilla, organizza tutto e cerca di arrivare a Parigi il prima possibile. Per puro caso è a Parigi in vacanza con la famiglia una delle nostre conduttrici, ci sta aggiornando dall’albergo, dato che c’è praticamente il coprifuoco tutto attorno a République». Chiudo la comunicazione e guardo i miei genitori. Sono a Roma per il fine settimana per festeggiare i 70 anni di mio padre. Sono venuti a prendermi come sempre in aeroporto, uno dei tanti abituali gesti di amore che sanno riservarmi, e io so già che sto per ripagarli solo con nuova angoscia. Il volto di mia madre è contratto, la ruga del pensiero diventa un solco più profondo: «Non dovrai mica partire? – mi dice caricando la voce di tutta la sua ansia –. È il compleanno di tuo padre, domani c’è la festa che avevamo organizzato per lui, non puoi andare lì»; ed eccola puntuale è arrivata anche la stoccata che scava negli affetti e negli obblighi familiari. Ogni sua parola va a ficcarsi direttamente nella bocca del mio stomaco come lo sguardo di mio padre che da uomo del Nord non dice, lascia liberi, capisce, supporta, ma non riesce comunque a nascondere i lampi di apprensione negli occhi. «No, mamma, è esattamente il contrario. Non posso non andare», rispondo con il tono risoluto e freddo che so essere l’unica mia via di fuga in queste situazioni. Cala così di nuovo il silenzio, rotto solo dal flusso di notizie di sangue che continua ad arrivare dalla tv, fin quando mio padre non si alza a fare una camomilla per tutti e mia madre non va in camera sua a cercare delle maglie e delle calze calde da darmi per il viaggio, sapendo che le cose che ho portato per quello che doveva essere un mite week end romano sono assolutamente inadatte ad affrontare ore in diretta per le strade parigine.
Quando salgo in camera mia inizio a scrivere a tutti i tanti amici che ho a Parigi: Evita, Pierre, Matteo, Benji, Marta, Paolo… Whatsapp continua a inviarmi notifiche: mi rispondono subito, tra loro c’è anche chi ancora non sapeva nulla, e mentre con sollievo leggo i loro messaggi penso subito alla differenza rispetto agli attacchi di gennaio. Allora l’obiettivo era specifico, potevamo certo preoccuparci per i nostri cari, ma era più un’apprensione psicologica: come si sarebbero sentiti nel vedere la loro città bersaglio del terrorismo? Avevano paura? Questa volta invece l’ansia per le sorti di chi conosciamo è divorante, perché là, allo stadio, in un bar, in un locale, in un ristorante, potevamo esserci tutti, il sangue che sgorga tra i tavolini all’aperto ha il colore e l’odore del nostro sangue. Eravamo abituati a vedere il bersaglio negli altri, nei provocatori di «Charlie», negli ebrei, nei turisti occidentali «che in fondo se la sono un po’ cercata quando hanno deciso di andare in vacanza in quei Paesi», e invece adesso la verità ci colpisce violentemente in faccia e disintegra i nostri malcelati pregiudizi: il bersaglio siamo noi, tutti noi. Laici, cristiani, musulmani, uomini, donne, ragazzi, bambini, noi che studiamo all’università, che abbiamo il nostro piccolo negozio o il bancone del pesce al mercato, noi che facciamo gli architetti, i parrucchieri, i medici, gli avvocati, i portinai, i giornalisti, gli operai, i professori, le truccatrici, i tassisti, le mamme, i pubblicitari, noi che lavoriamo in banca, noi che sugli spalti allo stadio quando fa gol la nostra squadra urliamo più forte di tutti, noi che amiamo la musica e che ogni tanto andiamo a sentire il concerto di quel gruppo che ci sembra tanto cool anche se per i nostri figli appena adolescenti è inascoltabile, noi che almeno una volta a settimana ci andiamo a fare un aperitivo o a bere una birra dopo cena con gli amici, noi europei, noi infedeli. NOI.

14 novembre 2015

Mi rigiro nel letto, nonostante i calmanti il sonno non arriva, penso alle cose da fare e poi ho un sapore strano in bocca. A gennaio ero invasa dal gusto acre e metallico della rabbia, ma questa volta è differente, sento qualcosa di amaro, indigesto, asciutto, non c’è più la saliva: sto assaggiando la paura. Mentre lascio la casa dei miei è ancora l’alba, vedo nei volti tesi la preoccupazione che non li ha fatti dormire e che non li farà dormire neanche nei prossimi giorni: non sono madre, ma credo che nella vita di chi ha avuto la fortuna di crescere in una famiglia unita e piena di amore, arrivi il momento in cui proprio coloro che ci hanno messo al mondo diventano la persone da accudire e da proteggere e in questo momento sono consapevole che non li sto difendendo, non mi sto prendendo cura della loro comprensibile angoscia. È un pensiero che scuote l’anima. È un pensiero che fa male e che provo a scacciare subito sfogliando in taxi le ultime notizie sul telefonino. Il bilancio dei morti sale di ora in ora siamo già oltre i cento, sarà un inferno penso, consapevole di non aver chiuso occhio tutta la notte per l’ansia di non essere lì, per l’inquietudine che deriva dalla consapevolezza di trovarmi ancora una volta in Italia quando il terrore colpisce quelle che sono le mie terre di adozione da oltre sei anni ormai. Giornalisticamente, l’unica cosa che si ha in testa in quei momenti è fare presto, arrivare prima degli altri, vedere con i propri occhi, raccontare, provare a capire. È cinico, riflettendoci a distanza me ne rendo conto, ma se si fa questo mestiere, questo è il tipo di passione che ti pulsa dentro, come un cardiochirurgo che quando prende il bisturi e apre il torace di un paziente prima di pensare al cuore malandato sente l’adrenalina per l’operazione straordinaria che, nonostante gli altissimi rischi, potrebbe riuscire a portare a termine con successo o il penalista che non vede vittime o carnefici, ma solo la strategia di difesa che sta disegnando nella sua testa, anche il giornalismo, come tutte quelle professioni che ti rendono testimone delle brutture della vita, ha la sua dose di impudenza, di insalubre curiosità. Davanti a fatti così straordinari si sente l’odore della storia e la storia vi assicuro, sa essere attraente. La difficoltà sta, come in tutte le cose, nell’equilibrio, nel riconoscere i limiti, che per quanto mi riguarda risiedono nella sofferenza del singolo, che deve essere sempre avvicinata con rispetto, e nei sensazionalismi, negli allarmismi, in tutti quegli «ismi» che per natura sono un’iperbole dei fatti, della verità cruda e, dunque, non costituiscono notizia, ma manipolazione delle emozioni e delle opinioni.
Atterriamo a Parigi alle 8 di mattina, le frontiere sono state chiuse già da ieri sera. L’aeroporto Charles de Gaulle, il primo scalo in Europa per traffico passeggeri con oltre 60 milioni di viaggiatori l’anno è nel caos: paralizzato da file infinite di persone a ogni porta e in ogni corridoio, non si vede una via d’uscita. Con Paolo, un collega della Rai che ha viaggiato con me, facciamo avanti e indietro per un paio di volte tra due possibili percorsi, fin quando non decidiamo di approfittare della confusione per passare alle spalle di una delle guardie di sicurezza e infilarci verso un corridoio che sembra promettente. Ci ritroviamo, infatti, al controllo passaporti, davanti a noi in una coda che non avanza ci saranno almeno 400 persone. «Bentornati nell’Europa senza Schengen…», penso, non sapendo quante volte mi troverò ad approfondire questa riflessione nelle settimane a seguire. Insistendo sul fatto che a quei ritmi non saremmo stati in grado di fare neanche le dirette principali dell’ora di pranzo, riusciamo a impietosire uno degli addetti ai controlli che ci fa passare avanti e il percorso in taxi alla fine è più breve di quanto mi aspettassi. Non c’è molto traffico, è sabato mattina presto, ma soprattutto, come realizzerò appena arrivata nell’XI arrondissement, il quartiere del Bataclan e di alcuni dei ristoranti colpiti, la città è vuota, immobile, spettrale. Place de la République è deserta. L’ultima volta che ero stata in questa piazza e avevo percorso il Boulevard Voltaire, la grande arteria su cui si trova il Bataclan, era per la Marcia repubblicana, poco più avanti erano passati i leader e i ragazzi di «Charlie», su questa strada non ci si riusciva a muovere per la quantità di gente, una marea umana, emozionata e forte, che a undici mesi di distanza lascia il posto a una grigia distesa d’asfalto desolata. Incontro Stefania, la mia collega qui in vacanza con il marito e il figlio per passare un fine settimana a Eurodisney. Mi aggiorna su quanto accaduto nelle ultime ore e mi suggerisce di fare un giro nelle strade attorno. Nonostante le transenne, infatti, il locale colpito non è troppo lontano ed effettivamente basta perdersi un po’ per le vie adiacenti per ritrovare macchie di sangue sui muri o sull’asfalto. Tracce indelebili delle ferite profondissime inflitte ieri notte. Il bilancio dei morti arriva a fine giornata a 129, ma ci sono ancora almeno una novantina di feriti gravi. Non tutti fra l’altro sono stati identificati, e tra i dispersi c’è anche una giovane ragazza italiana: Valeria Solesin. Lo Stato islamico all’ora di pranzo ha già rivendicato l’attentato. François Hollande ha parlato alla nazione, sia da davanti al Bataclan che dall’Eliseo: «Saremo implacabili», ha detto il presidente chiarendo che la Francia è ormai un Paese in guerra. In poco più di dodici ore avevo dunque assistito al ribaltamento di due delle conquiste più faticose e ambiziose dell’Europa post Seconda guerra mondiale: la libertà di circolazione e la pace. Hollande aveva proclamato lo stato di emergenza che si traduceva, fra le altre cose, in un divieto di assembramento e soprattutto nella possibilità di procedere a perquisizioni e arresti sommari, un assopimento pilotato dei diritti in nome della sicurezza. D’altronde Freud lo scriveva già negli anni Trenta: «Lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze, la più piccola delle quali basterebbe a disonorare l’individuo»1. E Parigi sembra una città in conflitto, cupa, triste, impaurita, silenziosa, irriconoscibile, sospettosa. Madre e tomba, in alcuni casi sia per le vittime che per i carnefici.
Le informazioni sugli attentatori sono ancora poche e confuse. La potenza della deflagrazione delle loro cinture esplosive rende complesse le procedure di riconoscimento, si sa del ritrovamento accanto al corpo di uno dei kamikaze dello stadio di un passaporto siriano che appartiene a un rifugiato registrato in ingresso nell’isola di Leros in Grecia il 3 ottobre, ci sono dubbi sull’autenticità del documento, ma, ovviamente, questo dettaglio apre il vaso di pandora che racchiude a fatica l’assioma su cui nel corso dell’estate hanno speculato in tutta Europa – anche di fronte alle immagini di bambini morenti in braccio alle loro madri che cercano di schivare le onde e arrivare a riva – i movimenti populisti di estrema destra: «immigrazione = terrorismo».
In realtà, grazie alle impronte digitali recuperate da un dito ritrovato sul pavimento del teatro, si sa anche che il primo attentatore suicida identificato è francese: Omar Ismail Mostefai. Nato a Courcouronnes a 25 km da Parigi da padre algerino e madre portoghese convertita all’Islam. Ismail ha avuto un’adolescenza movimentata segnata da episodi di microcriminalità anche se non è mai stato in prigione. Come Cherif Kouachi, uno dei due fratelli responsabili della strage nella redazione di «Charlie Hebdo», amava il rap e appare anche in un video musicale. Nel 2005 si trasferisce a Chartres con la famiglia dove resterà fino al 2012 fondando la propria di famiglia, sposando una lontana cugina che era andato a trovarsi in Algeria da cui avrà due figli, l’ultimo nato nell’agosto 2013, poche settimane prima che Ismail partisse per la Siria per fare la sua hijrah2 unendosi alle forze dello Stato islamico, come dimostra anche un video reso pubblico dall’Isis su internet pochi mesi dopo gli attacchi di Parigi, in cui si vede Mostefai, soldato di Daesh, mentre decapita un prigioniero. Anche lui, come la maggior parte dei suoi «compagni di terrore» era già schedato, era una fiche S3 sin dal 2010, i servizi turchi sostengono di averlo segnalato alle autorità francesi nel dicembre del 2014 e poi ancora nel giugno del 2015, segnalazioni cadute nel vuoto fino a quel tragico 13 novembre, quando Omar Ismail Mostefai si fece esplodere al Bataclan, otto giorni prima del suo trentesimo compleanno.
Si sa anche che l’auto usata dai terroristi e parcheggiata di fronte al Bataclan è immatricolata in Belgio e al suo interno sono state ritrovate delle ricevute di un parcheggio nel quartiere di Molenbeek, nella periferia di Bruxelles. Inizia, dunque, a dipanarsi quel filo di radicalizzazione e violenza, quel filo intriso di sangue che unisce la Francia e il Belgio e che ricama una lettura della storia diversa, in cui il male non viene dal mare, ma si annida e prospera dentro la nostra comoda casa europea.

15 novembre 2015

«Dopo una settimana, Laurent era disgustato. Di notte sognava i cadaveri che aveva visto di giorno. Questa sofferenza, questa nausea che quotidianamente si imponeva finirono per turbarlo profondamente. Così decise che sarebbe tornato ancora due volte e poi basta. L’indomani, entrando alla Morgue, ricevette un colpo violento al petto: di fronte a lui, su una pietra, Camillo lo guardava, supino, la testa sollevata, gli occhi socchiusi»4 (E. Zola, Teresa Raquin).
L’obitorio di Parigi, la Morgue, è ospitato in un edificio di mattoni degli inizi del ’900 che si erge su una riva della Senna nel XII arrondissment. È un luogo di pace, con il fiume che scorre placido accanto e un giardino che costeggia il viale d’ingresso. C’è anche il sole che ci scalda mentre aspettiamo fuori dal cancello sul ponte d’Austerlitz, fa meno freddo di ieri, ma solo dal punto di vista meteorologico perché in realtà dentro ho il gelo. La processione lenta di parenti affranti a cui assistiamo scava nelle viscere anche dei più spudorati tra noi. Nessun giornalista si avvicina ai familiari con le telecamere, i fotografi e gli operatori abbassano gli obiettivi di fronte a questi gruppi di genitori, di mariti, di mogli, di fratelli, di sorelle, di figli che si sorreggono a vicenda. Nessuno arriva da solo anche perché molti tra loro saranno costretti a stare qui a lungo. Non tutti i corpi sono stati identificati ancora e le procedure sono complesse, strazianti e farraginose. Dentro un tendone bianco è stato allestito un ospedale da campo, serve per il primo soccorso nel caso in cui qualcuno dei familiari dovesse sentirsi male, ci spiegano. All’ingresso dell’istituto medico legale ci sono poliziotti e psicologi, li riconosci perché hanno un gilet giallo, si avvicinano alle persone che arrivano tendendogli subito la mano. Le reazioni sono diverse, c’è chi li scansa, chi li cerca, chi li evita, come variegate sono le famiglie. Nelle quattro ore passate lì davanti ho visto entrare donne velate, uomini africani in lacrime, coppie di mezza età della tipica borghesia parigina, freddi e distaccati, ma con gli stessi occhi persi che vedo in chiunque oltrepassa questo cancello, e poi giovani, tanti giovani, come giovani erano la maggior parte delle vittime, come giovani sono gli assassini. C’è soprattutto un gruppo di due ragazzi e tre ragazze che mi colpisce. Arrivano stretti l’uno all’altra, chi più chi meno platealmente piangono tutti. Percorrono il vialetto sorreggendosi tra loro. Perdo le loro tracce per un’ora e poi eccoli apparire di nuovo, si siedono ai bordi delle aiuole del giardino di fronte alla Morgue e restano lì senza parlare. Uno di loro è il fulcro, quello a cui gli altri provano ad avvicinarsi, a poggiare una mano sulla spalla, ma si vede da lontano che la sua mente sta fuggendo altrove, che i suoi occhi da ventenne fissi sulle sue scarpe da ginnastica stanno provando a trafiggere il suolo per poterci sprofondare dentro con tutto il dolore. Chissà chi ha perso mi domando mentre vedo uscire dall’obitorio e incamminarsi verso il cancello dove stiamo aspettando noi giornalisti l’ambasciatore d’Italia a Parigi Giandomenico Magliano; è entrato qui la mattina e ne esce dopo oltre sei ore con il volto provato, il telefono all’orecchio, il passo svelto, non ha voglia di parlare, affida al console Andrea Cavallari, che esce poco dopo, il compito di dare quell’ufficialità che mancava a una notizia già drammaticamente certa: «Abbiamo potuto vedere il corpo e alla luce degli eventi e delle informazioni che ci sono state date dai familiari siamo in grado di confermare che Valeria Solesin è morta».
Anche l’Italia ha il suo lutto, anche l’Italia ha la sua martire di questa guerra non di religione ma di fanatismo.
Penso a questo mentre il taxi riporta me e Valerio, l’operatore, verso Place de la République, le luci della città scorrono veloci sul finestrino, ormai è sera e Parigi offre il suo volto migliore quello luminoso, tranne la grande macchia nera sopra il Ponte di Iéna: la Torre Eiffel spenta e spettrale. La sua assenza nella notte proietta un’ombra pesante su tutta la Francia. Anche oggi come ieri non c’è molto traffico, le persone non se la sentono ancora di uscire, seppure le prime testimonianze sono finalmente arrivate sulle strade del terrore, dai tappeti di fiori che prendono forma davanti ai caffè e ai ristoranti colpiti, al pianista che ha portato il suo piano di fronte al Bataclan per accompagnare nel sonno più lungo con le note di quella serenata di pace che è Imagine di John Lennon le vite spezzate all’interno del teatro, fino ai writers parigini che colorano i muri della città con graffiti e murales che sono dichiarazioni di amore e riscatto, come l’enorme scritta che in pochi giorni diventerà virale, ma che è apparsa anzitutto gigante nel cuore di Place de la République: «Fluctuat nec mergitur» (Naviga tra le correnti, ma non affonda), l’antico motto di Parigi che torna attuale ora che la capitale di Francia è travolta da onde di dolore. Ecco perché non mi stupisco inizialmente quando vedo che ci sono dei rallentamenti per accedere alla piazza, fin quando il tassista non abbassa il finestrino per parlare con un suo collega che va nell’altro senso di marcia. «Che succede amico?». «Fai inversione e vattene, è pericoloso, c’è qualcuno che spara sulla piazza». Quasi non credo alle mie orecchie, per un istante dubito del mio francese: «Ho sentito bene? Ha detto veramente tirer? Sparare?…». L’autista mi riporta alla realtà, si gira verso di noi e ci guarda con la faccia deformata dalla paura: «Io me ne vado, o restate in macchina o scendete subito, ma SUBITO!». Non ha neanche finito di parlare e Valerio ha già aperto la portiera, lui non sa il francese, ma la sua reazione è istintiva: ci sono delle persone che stanno correndo verso di noi, scappano dalla piazza in lacrime. Lancio i soldi della corsa al tassista che quasi sgommando fa inversione e ancora una volta come a gennaio mi ritrovo ad andare nella direzione opposta a quella della folla. Loro si allontanano dal pericolo noi dobbiamo andargli in pancia. «Spostatevi, sgombrate la strada, restate sui marciapiedi», un paio di poliziotti provano così a scansarci, ma sono pochi e la gente è tanta in preda al panico. C’è una donna che è caduta nella foga, i camerieri di un bar la aiutano a rialzarsi e la portano all’interno della brasserie, un signore anziano impietrito dietro la vetrata di un ristorante con una lacrima che gli riga le guance, un giovane che corre bisbigliando «Andrà tutto bene, andrà tutto bene», e si tira dietro tenendola per mano la sua ragazza. Come sempre in queste situazioni mi sembra di vedere tutto al rallentatore, il panico altrui blocca il mio tempo, mi costringe a osservare, ad aizzare i miei sensi per capire cosa sta succedendo. Provo a chiederlo ad alcuni dei passanti, mi lanciano le risposte urlando mentre si allontanano, in alcuni casi tra le lacrime: «Qualcuno ha sparato!»; «Si è sentito un botto, forse una bomba…»; «Non lo so, ma stanno andando via tutti… È un incubo… È la guerra»...

Indice dei contenuti

  1. Il buio su Parigi
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. Antefatto. Je suis Charb
  6. Intermezzo. Un colpo al cuore di Charlie
  7. Je m’appelle Charlie
  8. Shabbat Shalom
  9. L’urlo del silenzio
  10. Il calcio d’inizio
  11. La birra più amara
  12. Valeria
  13. Il buio sull’Europa
  14. Conclusioni. Noi e loro
  15. Ringraziamenti
  16. Note