Il conflitto russo-ucraino
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Il conflitto russo-ucraino

Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale

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Il conflitto russo-ucraino

Geopolitica del nuovo dis(ordine) mondiale

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Il recente colpo di Stato di Kiev è stato l'ultimo atto di una strategia messa in atto per spingere l'Ucraina nella Nato e quindi per preparare il terreno alla definitiva disintegrazione della Russia come Grande Potenza. Dopo aver assistito a questo tentativo di minare le basi geostrategiche della sicurezza russa, Putin è tornato con maggior forza a promuovere un'azione in grado di ricostituire la sfera d'influenza di Mosca nelle regioni dell'ex Unione Sovietica e di dimostrare alla comunità internazionale che l'«Orso russo» possiede ancora artigli forti che gli consentono di tenere a bada i suoi avversari. Sfidando la Russia nel suo cortile di casa l'Occidente ha dato il via a una crisi globale destinata a minare per i prossimi anni la possibilità di costruire un pacifico ordine mondiale.

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Informazioni

1.

Presente e passato della crisi ucraina

È CERTAMENTE VERO CHE LA STORIA NON SI RIPETE MAI né come «tragedia» né come «farsa». È altrettanto vero, per riprendere l’antico dictum di Eraclito, che non è possibile bagnarsi due volte nell’acqua del fiume degli eventi trascorsi a meno di non volersi impegnare in una futile e sviante esercitazione analogica con la quale tentare d’interpretare il presente alla luce dell’esperienza di ciò che fu. Questa regola conosce tuttavia delle eccezioni. Anche la storia conosce delle «costanti», delle «ripetizioni», delle «ricorrenze» e queste sono causate dalla memoria di un popolo e dalla posizione geopolitica di una Nazione che a volte condannano appunto popoli e Nazioni a un tragico «eterno ritorno» al passato. Molto spesso la progressione del tempo lineare non riesce a comprimere, infatti, «quell’oscuro fondo della coscienza, dove vivono e fermentano i sentimenti fondamentali e le indistruttibili persuasioni delle singole razze, fedi, caste; sentimenti e persuasioni che, apparentemente morti e seppelliti, preparano per successivi, lontani tempi, inaudite metamorfosi e catastrofi senza le quali, a quanto pare, non possono esistere i popoli»1.
Le odierne vicende dell’Ucraina costituiscono un importante case study per verificare la coerenza di questa “legge storica” che contraddice i dogmi illuministici dello storicismo assoluto2. Dopo il trionfo della «seconda rivoluzione di Kiev», l’Ucraina, con lo schiacciante peso demografico di quarantasei milioni di abitanti e con i suoi settecentomila chilometri quadri di estensione che ne fanno il secondo Stato più grande d’Europa, dopo la Russia europea, abbandona la sfera d’influenza di Mosca e si proietta in quella euratlantica. Oggi firmando i preliminari per il suo ingresso nell’Unione Europea (insieme a Georgia e Moldavia) e domani portando a termine il percorso che le consentirà di aderire alla NATO come la maggioranza dei Paesi già membri del Patto di Varsavia e degli Stati un tempo parte del vecchio blocco comunista: Albania, Croazia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia e Stati baltici3. A determinare questo spostamento di campo, ampiamente prevedibile fin dal 2012, è stato certo un violento ritorno di fiamma del nazionalismo ucraino, un’antica, viscerale, mai sopita e sicuramente comprensibile (se non del tutto giustificata) russofobia, l’irresistibile attrazione delle élites verso il modello di vita delle liberaldemocrazie europee, la scelta degli «oligarchi» di Kiev preoccupati d’essere tagliati fuori dal giro speculativo del mercato finanziario occidentale.
Questi sentimenti, che riguardano la capitale e una parte delle regioni occidentali del Paese, ma non quelle sud-orientali tuttora fortemente orientate verso Mosca in virtù di fortissimi e secolari legami storici, economici e linguistici, non riescono però a spiegare compiutamente quanto accaduto. Insistere esclusivamente su questi fattori vuol dire isolare la crisi ucraina dalla complessità geostrategica in cui essa ha preso origine e dove si è sviluppata e, quindi, mistificarne capziosamente la portata storica e politica. La «gloriosa notte» del 22-23 febbraio 2014, che ha visto la deposizione e la fuga del «satrapo» Viktor Janukovyč e il ritorno al potere della discussa «Giovanna d’Arco ucraina» Julija Tymošenko, è stata provocata da forti pressioni provenienti dai gabinetti di Berlino, Parigi e Varsavia. Gli stessi attori internazionali che, con sospetto, scarso tempismo, avevano negoziato, tramite i loro ministri degli Esteri, un compromesso politico tra governo legittimo e insorti (elezioni e ritorno alla «più liberale» costituzione del 2004) quando la situazione era ormai del tutto fuori controllo.
La Polonia di Donald Tusk, posseduta dall’ambizione di ripristinare l’antica supremazia su Lituania, Bielorussia, parte dell’Ucraina e della Lettonia, sancita dall’Unione di Lublino del 1569 e sopravvissuta fino alla terza spartizione dello Stato polacco (1795), è stata il più strenuo sostenitore degli oppositori di Janukovyč. Appoggiata dalla Francia di Hollande, che spregiudicatamente ha giocato la vecchia carta otto-novecentesca della «difesa delle nazionalità oppresse» per mantenere in vita quel che resta della sua impolverata grandeur, Varsavia, insieme alla Svezia e alle tre Repubbliche Baltiche, hanno spinto più di ogni altro Paese per favorire un accordo di associazione tra Ucraina e UE.
Nel backstage della diplomazia internazionale meno appariscente, ma certo più incisiva, è stata l’azione di Stati Uniti e Germania. L’amministrazione Obama si è fortemente spesa per favorire il pieno inserimento dell’Ucraina nel sistema egemonico (politico-militare-economico) statunitense che, inaugurando un clima di competizione con Mosca, volutamente definito da una parte della pubblicistica americana come «Nuova Guerra Fredda», mira a estendersi dall’Africa settentrionale, all’Egitto, al Medio Oriente, al Caucaso, all’Afghanistan, all’ex Asia centrale sovietica. Una manovra, questa, finalizzata ad azzerare il secolare stato di Grande Potenza, egemone tra Europa e Asia, della Russia, rivendicato formalmente da Putin, nel maggio 2014, con la nascita dell’Unione Economica Eurasiatica, un’associazione di cooperazione e sviluppo, destinata a entrare in vigore nel gennaio 2015, che potrà contare su un mercato comune di centosettanta milioni di consumatori e su un prodotto interno lordo combinato del valore di quasi tre trilioni di dollari4.
La Germania ha assunto, in occasione della crisi ucraina, la piena leadership della politica estera di Bruxelles, costituendo un asse con Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia (il «nuovo Patto di Varsavia» antirusso), condannando aspramente il presidente eletto Janukovyč per aver rifiutato di aderire alla «zona di libero scambio» dell’Unione Europea e per aver represso la protesta di quei settori della società ucraina che si opponevano a quel diniego. Con il vigoroso sostegno alla «rivoluzione ucraina», la Germania di Angela Merkel ha collocato l’ultima tessera necessaria alla costruzione di una grande area di penetrazione economica e politica estesa dall’Oder al Baltico al Danubio, dalla foce del Don al Mar Nero.
Di questo nuovo «Grande Gioco», l’Ucraina è certamente la pedina più considerevole. Lo è per la ricchezza delle sue risorse minerarie (carbone, minerali di ferro, petrolio, enormi riserve non ancora sfruttate di gas metano e petrolio derivati dalla frantumazione del suolo, shale gas e shale oil)5 e agricole (soprattutto cereali). Risorse che avevano destato l’interesse di Pechino, dichiaratosi disposto nel settembre 2013 a siglare un accordo per l’acquisizione dello sfruttamento di tre milioni di ettari delle fertilissime «terre nere» ucraine e ora poco propenso a schierarsi nel fronte antirusso.
Lo è per il passaggio nel suo territorio di circa quarantamila chilometri di gasdotti che la collegano alla Russia e all’area del Mar Caspio (Turkmenistan, Kazakistan, Azerbaigian e Uzbekistan). Su questa enorme arteria, che soddisfa per il 25-31 per cento il consumo energetico di Europa e Turchia (e per il 43 per cento quello della sola Italia), l’Occidente, dopo la caduta di Janukovyč, ha esteso potenzialmente il suo controllo. E ciò è accaduto in coincidenza con il riuscito tentativo degli USA di impedire la realizzazione del progetto di gasdotto South Stream che, in analogia con il North Stream, proiettato tra Russia e Germania via Baltico, doveva approvvigionare direttamente l’Europa sud-orientale, aggirando l’Ucraina, trasportando il gas siberiano fino alla Bulgaria, attraverso il Mar Nero, diramandosi poi dalla Serbia all’Ungheria fino all’Austria o passando dalla Grecia all’Italia per il Canale d’Otranto.
Lo è per la cruciale rilevanza della sua posizione geopolitica da cui dipende strettamente la sicurezza nazionale russa poiché lo spazio ucraino, insieme alla Bielorussia, costituisce l’intercapedine strategica che separa a occidente la Russia dal sempre più minaccioso schieramento dei Paesi NATO. Mosca, inoltre, si trova a soli circa quattrocentottanta chilometri dai confini orientali dell’Ucraina e i due Stati condividono un lunghissimo confine, pianeggiante, privo di ostacoli naturali e, quindi, fatalmente esposto ai rischi di un’aggressione. Se poi una Potenza ostile dovesse impadronirsi del «cuscinetto» russo tra Ucraina e Kazakistan, al cui centro si colloca la città di Volgograd (l’antica Caricyn residenza dello zarevič, dal 1925 al 1961 denominata Stalingrado), la Russia sarebbe tagliata fuori dal Caspio e anche la sua frontiera sud-orientale sarebbe facilmente violabile. Infine, l’Ucraina è padrona di due porti sul Mar Nero, Odessa e Sebastopoli, che sono ancora più importanti per Mosca di quello di Novorossijsk: principale ancoraggio sotto sovranità russa in quella distesa acquatica.
Privare il regime di Putin dell’utilizzazione di queste basi militari e commerciali equivale a danneggiare gravemente l’economia della Federazione Russa, a minarne ulteriormente l’influenza nel Mar Nero (precipitata ai minimi storici dopo il 1991), a impedire all’omonima flotta l’accesso alle «acque calde» del Mediterraneo in caso di grave stato di crisi internazionale. Proprio come fu imposto dalle Potenze occidentali a San Pietroburgo nel 1856 alla conclusione della Guerra di Crimea. Esattamente come tentarono di fare, circa un secolo dopo, Francia e Inghilterra, quando nei primi mesi del 1940 progettarono di distruggere, con una serie di bombardamenti aerei, i giacimenti petroliferi del Caucaso e di lanciare, dal territorio turco, un’ardita quanto velleitaria operazione terrestre che avrebbe dovuto annientare la presenza militare dell’URSS, allora alleata, di fatto, del Terzo Reich, negli scali marittimi situati sulle coste orientali del Mar Nero.
Se fosse denunciato il cosiddetto «Grande trattato» russo-ucraino del maggio 1997 (rinnovato dall’accordo di Char’kov del maggio 2010, con il quale Kiev aveva affittato a Mosca la base di Sebastopoli fino al 2042, al costo di otto milioni di dollari annui e di una riduzione del 30 per cento sul prezzo della fornitura di gas), la Federazione Russa si vedrebbe costretta a contare solo sulle flotte del Nord, del Baltico e del Pacifico. Le prime due ospitate in porti inutilizzabili durante buona parte del periodo invernale e tutte dislocate troppo lontano dall’arco di cruciale importanza geostrategica che si estende dalle coste dal Medio Oriente all’Africa settentrionale e, attraverso il Canale di Suez, dal Mar Rosso, al Mar Arabico, al Golfo Persico, all’Oceano Indiano.
Come ha osservato Henry Kissinger, il 5 marzo 2014, in netto dissenso con le prese di posizione del «falco» Zbigniew Brzezinski, sostenitore di una risposta armata dell’Alleanza Atlantica all’«aggressione di Putin contro Kiev»6, Mosca non potrà mai accettare che l’Ucraina divenga un membro della NATO (e cioè uno Stato virtualmente ostile ai suoi interessi strategici) né tollerare che le sue prerogative sulla Crimea non le siano formalmente garantite, anche dall’Occidente nel suo complesso, in virtù di un chiaro e indiscutibile accordo internazionale.
Troppo spesso la questione ucraina si è posta come una resa dei conti per decidere se questo Paese debba unirsi all’Oriente o all’Occidente. Eppure se il destino dell’Ucraina è sopravvivere e prosperare, essa non può divenire l’avamposto militare dell’uno o dell’altro schieramento ma deve trasformarsi, invece, in un ponte capace di unire e non in un fossato creato per dividere. La Russia deve rendersi conto che trasformare l’Ucraina in uno Stato satellite e quindi espandere nuovamente i suoi confini la condannerebbe a ripetere il ciclo secolare della sua contrapposizione con Europa e Stati Uniti. L’Occidente deve capire che la Russia non tollererà mai che l’Ucraina possa divenire un Paese a lei estraneo e potenzialmente avverso. La storia russa iniziò nella Rus’ di Kiev ed è lì che nacque la sua religione. L’Ucraina ha fatto parte della Russia per secoli e le loro storie si sono intrecciate anche prima di allora. Alcune delle più importanti battaglie per la libertà russa, da quella di Poltava nel 1709, sono state combattute sul suolo ucraino. La Flotta del Mar Nero – il solo mezzo per la Russia di accedere al Mediterraneo – esiste come forza operativa solo grazie all’affitto a lungo termine di Sebastopoli in Crimea. Anche dissidenti famosi come Aleksandr Solženicyn e Iosif Brodsky hanno sempre insistito sul fatto che l’Ucraina è parte integrante della storia russa: anzi della Russia stessa. L’Unione Europea deve riconoscere che la sua lentezza burocratica e la subordinazione dei suoi problemi interni e particolari alla soluzione delle grandi questioni strategiche di carattere generale, durante i negoziati con l’Ucraina, hanno dato origine alla crisi odierna. La politica estera, infatti, è l’arte di stabilire delle priorità. Una lezione, questa, che l’Europa di Bruxelles è lontana dall’aver appreso. Nell’attuale congiuntura, sono comunque gli Ucraini a restare l’elemento decisivo. Essi appartengono a una terra dalla storia complessa, teatro di conflitti dovuti all’esistenza di barriere linguistiche e religiose. Qualsiasi tentativo dell’Ucraina cattolica e di lingua ucraina di dominare l’altra Ucraina ortodossa e russofona condurrà necessariamente alla guerra civile e alla fine dell’unità nazionale. Considerare l’Ucraina come parte del confronto est-ovest, spingendola a far parte della NATO, equivarrebbe ad affossare per decenni ogni prospettiva d’integrare la Russia e l’Occidente – e in particolare la Russia e l’Europa – in un sistema di cooperazione internazionale. Una saggia politica statunitense verso l’Ucraina avrebbe dovuto cercare il modo per favorire l’intesa tra le due parti del Paese. L’America avrebbe dovuto favorire la riconciliazione e non, come ha fatto, il dominio e la sopraffazione di una fazione sull’altra. Per l’Occidente, infine, la demonizzazione di Vladimir Putin non è una scelta politica: è solo un alibi che denuncia drammaticamente l’assenza di qualsiasi scelta7.
Ispirato all’antica saggezza politica metternichiana cara a Kissinger, che predicava la difesa prioritaria del bilanciamento dei rapporti di forza, coniugando realpolitik e strategia della distensione8, i sensati consigli del Segretario di Stato dell’amministrazione Nixon sono stati del tutto disattesi. Washington, Parigi, Londra e una Germania, sempre oscillante tra dialogo e chiusura con Mosca, non si sono limitate a cercare di preservare la «diversità ucraina» (che uno storico russo, come Georgij Petrovič Fedotov, aveva saputo cogliere molto bene nel 1947) da un nuovo abbraccio mortale dell’«Orso sarmatico» promuovendo la «finlandizzazione» di quella che per secoli fu chiamata non casualmente «Piccola Russia».
Con il Patto di amicizia siglato tra Mosca e Helsinki nel 1948, la Finlandia fu costretta dalla contiguità territoriale con la Russia a collocarsi in una posizione di rigido «non allineamento», che non escludeva però l’obbligo di mutua assistenza in caso di aggressione esterna di uno dei due Stati firmatari. Posizione per la quale fu utilizzato, appunto, il termine «finlandizzazione», coniato dal politologo tedesco Richard Löwenthal durante la crisi di Berlino e poi destinato a entrare nel lessico corrente della pubblicistica sulla Guerra Fredda. Di norma questo concetto fu inteso nel senso negativo di perdita o grave limitazione della piena sovranità di Helsinki nei confronti di Mosca, ma non episodicamente venne anche utilizzato per indicare una possibile ipotesi di riordinamento alternativo dell’ordine mondiale sancito dai summits interalleati di Teheran e Yalta che avevano dato il via libera all’espansionismo russo.
Ancora fino al termine degli anni Settanta, per la maggioranza degli analisti e dei politici statunitensi tutte le Nazioni a ovest della «cortina di ferro» sarebbero state a rischio di «finlandizzazione», se avessero ceduto alla tentazione del disarmo e di un accordo separato con la Russia. Eppure anche il Segretario di Stato, John Foster Dulles – che fu, tra 1953 e 1959, uno dei maggiori sostenitori della necessità di una replica attiva alla minaccia del godless terrorism bolscevico, da realizzarsi tramite la creazione di sistemi di alleanza tra Washington e le capitali del «mondo libero», in Europa, Medio Oriente, Asia...

Indice dei contenuti

  1. Il conflitto russo-ucraino
  2. Colophon
  3. Morire per Kiev?
  4. 1. Presente e passato della crisi ucraina
  5. 2. Mosca, Washington, Kiev e la «sindrome dei Balcani»
  6. 3. La rivincita della Geopolitica e il crepuscolo del New World Order
  7. Note
  8. Riferimenti bibliografici
  9. Indice