I monaci di clausura
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I monaci di clausura

  1. 148 pagine
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I monaci di clausura

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La vita quotidiana dei monaci di clausura, pur diversa da un Ordine religioso all'altro per la specificità delle "consuetudini" che ne regolano l'osservanza, presenta dei tratti comuni che costituiscono il chiaro indizio di un'analoga vocazione. Il tempo dei monasteri, ad esempio, è da sempre, per tutti i monaci, un tempo lento, estraneo alla fretta dell'affaccendarsi quotidiano degli uomini che vivono nel mondo, scandito da ritmi che si susseguono con poche variazioni sin dai secoli del Medioevo. Parallelamente, gli spazi, al di là delle differenze di organizzazione architettonica esistenti tra un Ordine e l'altro, si pongono come delle autentiche città monastiche, consacrate al vigile esercizio della preghiera. Della vita dei monaci sono parte integrante le "regole" a cui essi si sottopongono, senza per questo avvertirle come una "gabbia d'acciaio" che li costringerebbe a una serie ininterrotta di privazioni e rinunce.Il rapporto parco e misurato con il cibo, le lunghe veglie, il mancato possesso di beni materiali, gli orari precisi da rispettare, tutto ciò che - con una sola parola - viene definito "ascesi", deve essere collocato all'interno di una dimensione alla quale è essenziale la gioia, il contatto più pieno con l'Altro che conferisce senso all'intera esistenza.

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788849830392

1.

La luce dell’Oriente e le tenebre dell’Occidente

1. Marta e Maria

ALLINIZIO FURONO DUE SORELLE, Marta e Maria, di cui San Luca parla nel decimo paragrafo del suo Vangelo, la prima presa dagli affanni quotidiani e l’altra colta in un bellissimo momento di “santa inattività”. Il terzo protagonista della scena è Gesù, quasi una sorta di “arbitro” tra le due modalità di vivere la fede, la vita attiva e la vita contemplativa, che le due sorelle rappresentano. Il brano di Luca è famoso, ma vale la pena riportarlo per intero: «Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: “Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. Ma Gesù le rispose: “Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”».
È risaputo come questo celebre testo abbia costituito, per i monaci di tutte le epoche, una specie di elogio della vita contemplativa, una “giustificazione” della sua altissima e insostituibile funzione anche in presenza di un’urgenza di apostolato attivo. Nella figura quieta di Maria vengono delineati alcuni caratteri essenziali della condizione del contemplativo: l’umiltà e la semplicità («sedutasi ai piedi di Gesù»), l’aprirsi silenzioso del cuore a Dio («ascoltava la sua parola»), il porre l’accento sul fine supremo della vita spirituale, l’unione con Dio, da cui non deve distrarre il tumulto del mondo («Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno»). Quella di Maria, infine, è «la parte migliore, che non le sarà tolta».
Ma al principio, anche cronologico, è l’esperienza del deserto, della solitudine reale, spaziale, fisica e della solitudine interiore: Isacco che va da solo nella campagna per meditare; Giacobbe che in un attimo di isolamento riceve tali doni come mai nella sua vita (vede Dio faccia a faccia e il suo nome viene mutato in quello di Israele); Geremia che siede solitario, «[…] perché è penetrato dalle minacce di Dio»; Mosè che vede il roveto ardente e riceve la rivelazione di «Colui che è». E ancora: Giovanni Battista uomo del deserto; Gesù che nel deserto è tentato dal diavolo e che, nell’ora della Passione, si ritira sul Getsèmani a pregare.
Nel deserto nacque la vita monastica delle origini, dapprima in Nitria – agli inizi del IV secolo d.C. – e poi in Egitto, Siria, Palestina, Asia Minore. È dubbio se la tradizione iniziale sia stata di tipo eremitico, quale quella dell’anacoretismo copto che ebbe il suo maggiore rappresentante in Sant’Antonio, oppure cenobitico, come accadde per le comunità fondate da San Pacomio, a cui si attribuisce, tra l’altro, un’importante regola monastica. Resta il fatto che i deserti si popolarono di figure che potevano apparire persino eccentriche, ispirate a modelli di vita improntati a un estremo rigore, portatrici di un ascetismo radicale, in continua tensione agonistica con il proprio corpo e con la natura: “stazionari”, che si imponevano di rimanere sempre in piedi, senza nemmeno coricarsi per dormire; stiliti siriaci e mesopotamici, sospesi per anni tra cielo e terra all’apice di una colonna e incuranti di qualsiasi condizione atmosferica e ambientale; “reclusi”, che si “muravano” dentro case o torri, senza alcun contatto con l’esterno.
Il rifiuto delle comodità della vita umana si esprimeva nella scelta delle dimore e degli abiti, nell’uso quotidiano del cibo, nella predilezione per un’esistenza povera: «Alcuni abitavano in capanne, altri in grotte e caverne – si scrive in un recente Atlante del monachesimo – molti prescindevano da ogni tipo di dimora: vivevano all’aria aperta, senza nessuna protezione contro gli agenti atmosferici, a volte congelati dal freddo, a volte scottati dal sole; […] altri cercavano rifugio nel cavo di un albero; altri, ancora, rimanevano esposti a tutti gli sguardi». Praticavano lunghi digiuni, si nutrivano di erbe e frutta o di pane e acqua, rinunciando a ogni alimento cotto.
Naturalmente, non possedevano alcuna proprietà privata e l’uso dei beni, nella vita cenobitica, era comune. Nei cosiddetti Precetti della legislazione pacomiana si prescrive che «nessuno nella casa e nella sua cella abbia altre cose tranne quelle permesse in comune dalla regola del monastero: non una tunica di lana, non un mantello, non una pelle d’ariete troppo morbida perché non è stata tosata la lana, non pochi soldi e neppure un cuscino per la testa, né altri oggetti diversi, eccetto quelle cose che dal padre del monastero saranno divise tramite i priori delle case, cioè i propri indumenti prescritti: due tuniche, una mantellina più lunga, consumata dall’uso, che si avvolge attorno al collo e alle spalle, una pelliccia che pende a lato, due paia di sandali, due cocolle, una cintura e un bastone».
Nello stesso torno di tempo, nel quarto secolo, il monachesimo occidentale trovava, nel modello e nell’opera di San Martino di Tours, diffusi anche tramite la Vita che fu redatta da Sulpicio Severo, un suo punto di riferimento essenziale. Gli esordi del monachesimo occidentale possono, per grandi linee, raggrupparsi intorno alle quattro grandi aree della Gallia, dell’Italia, dell’Irlanda e della penisola iberica, nelle quali la fondazione di comunità monastiche e la stesura di “regole” cominciarono a far acquisire sempre più precise forme istituzionali a un movimento complesso, variegato, attraversato anche da tendenze a vivere tale esperienza in maniera puramente individuale, al di fuori di codificazioni stabili. Il monastero di Lérins nella Francia meridionale, l’opera di San Leandro, Sant’Isidoro di Siviglia e San Fruttuoso di Braga nell’area ispanica, la ripresa del cenobitismo in Irlanda per intervento di San Colombano (540-615), segnano altrettante tappe della penetrazione e del consolidamento dei “programmi” monastici in Occidente.
Qui, tra V e VI secolo, si staglia per la sua grandezza e per l’influenza che eserciterà sul monachesimo successivo la figura di San Benedetto da Norcia. La Regola di San Benedetto costituirà, nel tempo, il modello di maggiore richiamo per le istituzioni monastiche successive, a tal punto che ancora negli usi della Cancelleria apostolica del XII secolo la documentazione indirizzata agli Ordini religiosi recherà una “clausola di regolarità” – secondo l’espressione di Dom Jacques Dubois – contenente la formula «secundum Deum et Beati Benedicti regulam», foriera di equivoci nel caso di quegli Ordini, quali quello certosino, che maggiormente tenderanno a distinguersi dalla matrice benedettina. Tuttavia, per circa due secoli, la Regola di San Benedetto non si affermerà nettamente sulle altre sillogi normative, se bisognerà attendere circa la metà dell’VIII secolo perché venga introdotta nel monastero di Fulda e nelle abbazie di Luxeuil, di San Gallo e di Corbie. Sino a quel momento essa era praticata pressoché esclusivamente nei monasteri di Subiaco e Montecassino, mentre era prassi invalsa che gli abati emanassero norme di vita per le comunità a loro sottoposte senza accogliere testi normativi di diversa provenienza.
Fondamentale, nel processo di espansione e di radicamento di questa Regola, risulterà l’opera di Benedetto di Aniane, nel quadro della riforma monastica carolingia protesa a favorire l’uniformità dei costumi dei monaci nei territori dell’Impero. Con i due sinodi di Aquisgrana dell’816 e dell’817, quando a Carlo Magno era ormai succeduto Ludovico il Pio, la Regola di San Benedetto fu adottata quale unica regola monastica da seguire nei monasteri carolingi, con l’introduzione dell’obbligo per gli abati, non appena rientrati dopo il primo sinodo nel monastero, di leggere e commentare il testo parola per parola e, per i monaci che fossero in grado di farlo, di mandarne a memoria i diversi capitoli. Nel § 36 della sua Vita Benedicti abbatis Anianensis il biografo Ardone Smaragdo non mancherà di sottolineare i caratteri essenziali e le circostanze di questa riforma: «Il monarca lo mise a capo di tutti i cenobi del suo regno, affinché come aveva provveduto a dare precetti di salvezza in Aquitania e in “Gothia”, così con il suo esempio insegnasse la salvezza anche alla Francia. Infatti, erano molti i monasteri che una volta erano stati istituiti regolarmente nei quali, a poco a poco, venuto meno il rigore, l’ordine regolare era quasi scomparso. Perché invece, come unica era la professione per tutti, così divenisse unica anche la consuetudine di vita per tutti i monasteri, per volere dell’imperatore, convocati i padri dei cenobi insieme con il maggior numero possibile di monaci, stette con loro per moltissimi giorni. Riunitili in assemblea, commentò loro tutta la Regola, e spiegando le parti poco conosciute dissipò i dubbi, allontanò i precedenti errori, consolidò le utili consuetudini ed i santi propositi. […] Presentò anche all’imperatore il capitolare delle istituzioni monastiche, perché lo confermasse e comandasse di osservarlo a tutti i monasteri situati nel suo regno […]. Quest’opera venne portata a termine e diffusa con l’aiuto della misericordia divina, da tutti venne osservata un’unica regola e tutti i monasteri furono così ricondotti ad una tale forma di unità che i monaci sembrava fossero stati educati da un unico maestro e in unico luogo». Peraltro, in due testi conosciuti come Codex Regularum e Concordia Regularum, Benedetto di Aniane produsse un commento alla regola di San Benedetto da Norcia e un esame comparativo delle principali raccolte legislative monastiche, dai quali essa emergeva come l’indispensabile primaria fonte per la vita dei monaci in Occidente.
Poco meno di un secolo dopo, ad iniziare dalla fondazione dell’abbazia di Cluny (910) ad opera del duca d’Aquitania Guglielmo il Pio, avrebbe preso l’avvio un movimento monastico riformatore, che rompeva i legami con il mondo feudale assoggettandosi al solo pontefice e si faceva portatore di una spiritualità rinnovata. Nella spiritualità cluniacense la liturgia lunghissima, la minuziosità dei riti, la magnificenza delle cerimonie, convergevano nella costruzione di un edificio di lode al Signore e Cluny – com’è stato opportunamente segnalato dal Leclercq – eccelleva a tal punto nella tecnica della preghiera che l’intera vita del monaco rappresentava un’orazione continua e non esisteva quasi momento della giornata in cui non si recitassero i salmi. Ben note sono le altre tappe, attraverso le quali la “luce dell’Oriente” – per riprendere la Lettera d’oro di Guglielmo di Saint-Thierry – penetrò nelle “tenebre dell’Occidente” e nei “freddi delle Gallie”: a Camaldoli, intorno al 1023, San Romualdo di Ravenna fondò un eremo, con lo specifico compito di ricondurre dentro una regola religiosa gli eremiti che popolavano quelle contrade, così come si ispirò a canoni eremitici, in stretto rapporto con la spiritualità romualdina, San Pier Damiani quando diede vita all’eremo di Fonte Avellana.
Ma gli episodi forse maggiori, a voler fare soltanto cenno alle iniziative di Giovanni Gualberto e di Nilo da Rossano, sono quelli intrapresi, sul finire dell’XI secolo, da San Bruno di Colonia – con l’edificazione della Grande Chartreuse in Francia (1084) e dell’eremo di Santa Maria della Torre in Calabria (1091) – e da San Roberto di Molesme, iniziatore a Cîteaux (1098) del movimento cistercense sul quale, nemmeno due decenni più avanti, sarebbe intervenuta l’opera di San Bernardo di Clairvaux. Giudicato recentemente da Cosimo Damiano Fonseca come una «esperienza individuale», nella quale «l’eremo diventa palestra di ascesi al di fuori e al di sopra di qualsiasi forma di vita comunitaria», l’eremitismo bruniano rappresentò, contemporaneamente, una scelta non incanalata nell’alveo di San Benedetto e tra le più radicali dell’Occidente medievale, finanche “aristocratica” perché ben consapevole, già nelle parole del suo iniziatore, che «meno numerosi sono i figli della contemplazione rispetto a quelli dell’azione».
Probabilmente proprio per questo non si ha di Bruno alcun testo normativo, né le due comunità da lui fondate furono regolate da legislazioni desunte o importate da altri ambiti monastici, tanto che bisognerà attendere le Consuetudini di Guigo (1127/1128) per avere una raccolta di “costumi” certosini. Ciò nonostante l’Ordine certosino, con la sua testimonianza di spiritualità eremitica fortemente ancorata alla solitudine e al silenzio, si irradierà per l’Europa, diventando modello di purezza e di santa vita anche per eminenti membri di altri Ordini, com’è testimoniato dalle lettere del cluniacense Pietro il Venerabile e dello stesso San Bernardo ai monaci della Chartreuse e di Portes.
Il recupero della povertà evangelica e il ritorno del lavoro manuale nelle campagne caratterizza, invece, dopo gli “splendori” di Cluny, le origini del movimento cistercense, nelle quali assume un ruolo decisivo, come nell’esperienza certosina, il valore del “deserto”. Naturalmente, nell’uno e nell’altro caso un diverso deserto, rispetto a quello biblico narrato nelle Scritture: un deserto-foresta, un deserto-selva, non completamente disabitato, ma popolato da altre creature (monaci girovaghi, carbonai, cacciatori). San Bernardo ha individuato in modo esplicito la sua funzione pedagogica: le foreste sono maestre migliori dei libri, gli alberi e le rocce superano nella capacità d’insegnamento i grandi maestri di sapienza. In un deserto di tal fatta sorgeranno le prime fondazioni cistercensi (Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux e Morimond), dalle quali germoglieranno gli altri monasteri, secondo un sistema di filiazioni che prevedeva il loro esclusivo diritto alla creazione di nuovi insediamenti e la dipendenza dall’abbazia-madre dell’abbazia-figlia così costituita. Molto più tenue fu la diffusione dei successivi Ordini germinati, tra Duecento e Trecento, dal tronco benedettino: silvestrini, olivetani, celestini, conosceranno una diffusione circoscritta e la loro influenza non avrà certo l’ampio raggio di quella cistercense e certosina. Il monachesimo cistercense conoscerà, peraltro, ulteriori sviluppi, a partire dal XVII secolo, con la ripresa dell’abbazia della Trappe in Normandia, da dove, in un clima di radicale ascetismo e di forte rigore morale, dopo la Rivoluzione Francese esso si estenderà sino agli Stati Uniti d’America.

2. Monaco, una parola al plurale

Rimarranno, sullo sfondo della vita quotidiana dei monaci di clausura, talune questioni aperte, alle quali si accenna, qui, in modo necessariamente problematico, a partire dal ruolo che le diverse regole hanno avuto nell’organizzazione delle osservanze monastiche. Intanto, come ha evidenziato Enzo Bianchi nella sua introduzione all’edizione einaudiana delle Regole monastiche d’Occidente, occorre considerare che laddove la Regula Magistri, ormai generalmente considerata la fonte principale della Regola di San Benedetto, prescriveva norme minuziose e poneva la figura dell’abate in una posizione di semplice esecutività di tali prescrizioni, quest’ultima, in diversi suoi luoghi, suggeriva misura, discrezione e discernimento: «È proprio la regola, quindi, che chiede all’abate di superare se stessa – scrive Bianchi, certamente anche sulla base di una personale esperienza della vita monastica – di essere da questi relativizzata […]. Non è obbedendo alla regola e all’abate che il monaco pratica l’obbedienza cristiana, ma è restando fedele allo spirito della regola grazie alle indicazioni dell’abate che egli obbedisce alla parola di Dio. Non ci sono da una parte la regola e l’abate, come legge e norma, e dall’altra una comunità che deve eseguire e sottomettersi: c’è invece una comunità che la regola e l’abate conservano nella capacità di obbedire al Vangelo in modo che la Parola trovi il suo luogo di incarnazione, e la comunità intera, abate compreso, sia capace di “gravidanza” del Verbo, capace di generarlo nel proprio seno. […] Norma e legge per Benedetto non è solo la regola, né solo l’abate, ma questi insieme ai fratelli, regola vivente in grado di correggere, di illuminare, di perdonare, di essere una parola di Dio da accogliere e nello stesso tempo persone da amare, da servire nei loro bisogni, da perdonare».
D’altra parte, le regole monastiche sono dei prodotti “storici”, che non soltanto riflettono esperienze e bisogni del loro tempo, problemi e attese della Chiesa in una determinata epoca del suo cammino terreno, ma che hanno conosciuto complicate vicende di ricezione e trasmissione le quali, inevitabilmente, appartengono in pieno alla loro storia. La Regula Benedicti, prima di diventare un canone per la vita monastica in Occidente, fu, per alcuni secoli, una regola tra le altre e si affermò definitivamente, come abbiamo visto, solo grazie alla mediazione di Benedetto di Aniane, nel contesto della riforma carolingia. Bisogna, peraltro, tener presente che le regole si sono storicamente sviluppate come testi in esplicito dialogo con la tradizione ecclesiale precedente (dai Padri della Chiesa alla tradizione monastica medesima) e che, in particolare nel monachesimo pre-benedettino, era consuetudine diffusa quella della cosiddetta regula mixta, una regola frutto dell’intreccio e della combinazione di più regole, portate a sintesi e rese armoniche dall’opera dell’abate.
Ciò vuol dire che è necessario sforzarsi di pensare tali raccolte normative non come sintesi chiuse e, in fondo, autoreferenziali, bensì come “opere aperte” che si nutrono di diversi apporti e che si attuano in concrete esperienze di vita, le quali, da un lato, sono orientate e guidate dagli apparati normativi, ma, dall’altro, contribuiscono, anche insensibilmente, a produrre modificazioni. D’altronde, in quanto prodotti storici, le regole hanno subito processi di correzione, adattamento, adeguamento, determinati non soltanto da esigenze interne al loro Ordine religioso di riferimento, ma anche dalle “riforme” intervenute in ambito ecclesiale: le Consuetudines Cartusiae, nelle quali Guigo di Saint-Romain fissava le prime norme certosine sicuramente non oltre il 1128, conobbero una prima integrazione nel 1271, quando il Capitolo Generale riunì in un unico testo il materiale desunto dalle medesime Consuetudini guigoniane, dalle ordinanze dei Capitoli Generali e dagli usi di Certosa, promulgando gli Antiqua Statuta. Al 1368 risalgono i Nova Statuta e al 1509 la Tertia compilatio. Nel 1582 si ebbe la Nova Collectio Statutorum, nella quale furono riunite queste diverse raccolte, per giungere alle più recenti revisioni dovute anche alla necessità di adeguare la legislazione interna dell’Ordine certosino al Concilio Vaticano II e al Codice di diritto canonico del 1983. La stessa espressione quasi proverbiale «Carthusia numquam reformata, quia numquam deformata», che sembra indicare una sostanziale immutabilità del genere di vita certosino, non riesce a superare il vaglio di un’attenta critica storica se è vero che i costumi di Certosa, già nei primordi di tale Ordine, subirono delle significative evoluzioni come avvenne per l’uso originario di dividere una medesima cella tra due monaci, successivamente trasformatosi nell’abitazione solitaria delle celle.
Da un diverso punto di vista le regole religiose possono apparire, alla mentalità attuale, persino come qualcosa di anacronistico, una camicia di Nesso o una gabbia d’acciaio che imprigionerebbe la libertà dell’agire, un dispositivo predisposto per istituire proibizioni e divieti. Guardate con l’occhio di un monaco esse, al contrario, possono essere, non sembri paradossale dirlo, un fattore di libertà: grazie alle prescrizioni della regola, che “disciplina” molti comportamenti pratici, i monaci sono liberi dall’assillo e dalla preoccupazione che possono derivare dalla risoluzione quotidiana di tali problemi; affidando la “decisione” su di essi alle norme dell’osservanza regolare, il monaco è più libero di dedicarsi a ciò che per lui veramente conta, la preghiera e il contatto intimo con Dio. Probabilmente, non sono estranee a una lettura unilaterale del sistema di restrizioni che ogni regola monastica comporta anche alcune delle immagini più consolidate – ma, di...

Indice dei contenuti

  1. Copertura
  2. Titolo Pagina
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. 1. La luce dell’Oriente e le tenebre dell’Occidente
  7. 2. “Sette volte al giorno io ti lodo”. I tempi della vita quotidiana
  8. 3. I luoghi e le cose
  9. 4. Diversi generi di monaci
  10. 5. Un’aristocrazia della preghiera
  11. 6. Amore dei libri e desiderio di Dio
  12. 7. Il governo dei corpi
  13. 8. Quando la vita finisce
  14. Nota bibliografica