Rimettiamo in moto l'Italia
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Rimettiamo in moto l'Italia

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L'Italia è un Paese solido. Il nostro debito pubblico era divenuto troppo alto, ma negli anni della crisi quello degli altri è cresciuto assai più del nostro. Abbiamo un patrimonio largamente superiore ai debiti, ponendoci a un livello di sicurezza che compete con la Germania, lasciando indietro tutti gli altri. Eppure il racconto pubblico è assai diverso, oscillando fra la geremiade e la rassegnazione. Il fatto è che non essere stati capaci di risolvere i nostri mali ci rende incapaci di riconoscere le nostre forze. Un corpo forte, l'Italia, grazie ai molti che continuano a correre per il mondo. Ma con un sistema nervoso vicino al tilt. È la nostra vita collettiva a dare il peggio. In politica, certo, ma non solo: c'è un deficit impressionante di classe dirigente. Così va a finire che si spezzano le ginocchia a chi corre e si protegge e consola chi s'accascia alla nascita, indebolendo tutti. Il libro contiene ricette specifiche. Alcune, dopo averle lette, sembreranno ovvie. Il problema non è che debbano essere complicate, per sembrare dotte, ma che non ci sia la forza di trasformarle in altrettanto ovvia realtà.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788849838039

S=I3

DECISI DI FARE UNA COSA CHE NON AVEVO MAI FATTO: candidarmi. Lo feci in occasione delle elezioni siciliane, dove non avevo la benché minima possibilità d’essere eletto. La definii: idea pisacanesca, ma non per questo la consideravo suicida. Presi quella decisione partendo da una formula: S=I3, la Sicilia è un’Italia al cubo. Nell’isola la decomposizione delle forze politiche maggiori era in stato avanzato ed evidente a tutti (tranne che a loro). La condizione economica disperante. Eppure non c’è una sola ragione al mondo per cui la Sicilia debba essere terra di sottosviluppo ed economia assistita.
Valeva la pena di andare a rompere l’aria stagnante e vedere quel che sarebbe successo. Ho imparato molte cose. Il racconto di quell’avventura non è rilevante dal punto di vista personale, ma per quel che insegna circa la reale possibilità che non solo la Sicilia, ma l’Italia intera cambi classe dirigente. Non avevo messo in conto neanche l’ipotesi di potere vincere, ma il modo in cui quell’operazione si svolse, e si concluse, dice e insegna moltissimo a quanti non vogliano praticare la rassegnazione.
Le elezioni siciliane si sono tenute anticipatamente, alla fine di ottobre 2012, perché il presidente uscente, Raffaele Lombardo, decise di dimettersi anticipatamente. Uomo assai affezionato al potere, capace di gestirlo con maestria e spregiudicatezza, imboccò quella strada perché aveva già cambiato maggioranza; quel che ne rimaneva era agli sgoccioli e le dimissioni erano l’unico modo per evitare che giungesse in porto la riforma costituzionale che portava da 90 a 70 i consiglieri regionali, che nell’isola si chiamano «deputati».
Condannando i siciliani all’immutabilità, Lombardo li solleticava, carezzando il loro senso di unicità e superiorità: siamo diversi, non c’è ragione che da noi si faccia quel che si fa altrove. Pessima strada. Sarebbe buona quella opposta: facciamo in Sicilia quel che non si è capaci di fare altrove.
In molti attendono che le novità elettorali siano partorite dal Nord, fiscalmente tartassato e produttivamente indebolito, quindi dalla rabbia per quel che governi e Parlamento hanno fatto per sgambettare l’Italia che corre. Proviamo a immaginare il contrario, che il nuovo possa venire dal Sud, da questa Sicilia, umiliata e offesa, la cui società civile è stata azzerata, la cui realtà produttiva è stata violentata e si preferisce che l’intera economia sia intermediata dai professionisti della politica, dai geni della specialità. Proviamo a dire: basta.
La sinistra siciliana è stata dilaniata dagli interessi e corrotta dalla loro amministrazione. È spappolata. La destra è scomparsa, il PDL praticamente impresentabile, o non pervenuto, come nelle elezioni palermitane. I fenomeni di protesta si contendono lo spazio con l’orlandismo, a sua volta vincente e a sua volta conferma che non cambia nulla, in questa terra disperata e disperante. Possibile che tutto sia stato raso al suolo? Eppure la Sicilia è una potenza economica, una realtà produttiva, una terra di mezzo fra civiltà diverse, ha un posizionamento fenomenale, ha una popolazione orgogliosa. Liberate tutto questo dall’assistenzialismo clientelare, dalla spesa pubblica corruttiva, dalla delinquenza organizzata, dalla cultura della diversità, e da una classe politica inguardabile e vi troverete davanti un gioiello, un luogo da cui l’Italia può prendere esempio nel lasciarsi alle spalle un passato non ammirevole.
La Sicilia è metafora dell’Italia, quel che serve all’Italia serve alla Sicilia, quel che può vincere in Sicilia (compreso il convincere l’opinione pubblica che la spesa pubblica è il problema, non la soluzione del problema) può salvare l’Italia.
Le dimissioni di Lombardo servirono a fermare le riforme discusse in Parlamento, ma non privarono la Sicilia di alcunché di buono. Non c’è una sola ragione al mondo per rimpiangere quell’amministrazione, che dai posteri sarà ricordata per le stesse ragioni note ai contemporanei: trasformismo e clientelismo.
La Sicilia è un passo avanti. Un trasformismo giocoso e suicida brucia la politica isolana più di quanto il sole faccia con le pietre. Le pietre, del resto, sembrano maggiormente reattive. Un siciliano come me vorrebbe potere dare torto a un grande figlio di questa terra, Leonardo Sciascia, che vedeva quel mondo quale metafora di ciò che sarebbe potuta divenire l’Italia. I siciliani, diceva Sciascia, non credono nelle idee, non credono che si possa cambiare. Non credono.
In Sicilia s’è realizzata l’unità delle forze politiche, purtroppo nel peggio: Raffaele Lombardo lascia un’amministrazione allo stremo, dopo essere nato nell’UDC, essere stato partorito dal PDL e allattato dal PD. Non solo non si lascia innocenti alle spalle, ma ha innervato tutte queste famiglie politiche: nel PD sono gli uomini che si allearono con lui ad avere creato la candidatura di Rosario Crocetta; nel PDL ambivano ad allearsi con lui, accettando di candidare chi lui voleva, per il tramite di Gianfranco Micciché, ovvero Nello Musumeci; l’UDC s’era alleata a destra, poi a sinistra, poi si vedrà, con il solo filo conduttore di mantenere in vita un proprio potere d’amministrazione e intermediazione. Quest’orgia trasformista non ha il pudore d’accompagnarsi ad alcun proponimento programmatico, giacché il programma consiste nell’esserci domani così come ci s’è oggi e ci si fu ieri. Programma impegnativo e bastevole, per realizzare il quale, però, è necessario considerare gli elettori siculi al pari di mandrie da far pascolare nei più opportuni campi. Loro bruchino e ruminino, che al resto pensa una classe dirigente ferma nel compiacersi di sé e delle proprie camaleontiche attitudini. C’è un problema, che non è morale, non ha a che vedere con la teoria, meno ancora con la dignità, è solo pratico: l’erba è finita, la biada manca e, sebbene l’elettorato sia animato più da speranze che da riconoscenze, occorre ammettere che nutrirle ancora, supporre ancora che sarà la politica a dar da mangiare, anziché finire di mangiarsi quel che resta, è segno di gran fantasia. O di poderosa capacità illusionista.
In Sicilia c’è la peggiore scuola e la peggiore giustizia d’Italia, ma i governanti autoctoni «salgono» a Roma per reclamare piccioli da spendere, non prestazioni per i cittadini. S’è data dei siciliani l’immagine di una popolazione dedita alle gozzoviglie, contando sulla spesa pubblica; nella realtà c’è la più bassa spesa mensile familiare d’Italia, inferiore dell’11% a quella del Mezzogiorno. La spesa pubblica regionale ha prodotto miseria. Non è escluso che ciò richieda rappresentanti miseri.
Date alla Sicilia quattro cose, e la vedrete volare: legalità, deburocratizzazione, defiscalizzazione e meritocrazia. Bestemmie, lo so. Ma se ci teniamo il teatro delle inchieste e l’astinenza dalle sentenze; una burocrazia regionale che più costa, più assume e più inventa funzioni che umiliano il mercato e i cittadini; una fiscalità strozzina e incapace di guardare agli immensi spazi interni, che potrebbero essere sede d’innovazione e ricerca, attirando capitali dal mondo; una uniformità (d)istruttiva che fa fuggire i giovani, lascia disoccupati i diplomati professionali, omogenizza nella mancanza di competizione e, quindi, favorisce i favoriti, perdendo la possibilità di divenire isola universitaria e meta d’eccellenza; se ci teniamo questa roba produrremo solo impoverimento economico, culturale, politico e civile.
La Sicilia spende, ogni anno, 1 miliardo e 740 milioni per pagare gli stipendi al personale. 10 volte quel che spendono altre regioni. I dipendenti regionali hanno 45 giorni in più degli statali per assenze retribuite, mentre possono non andare al lavoro per 9 mesi senza che il loro stipendio sia intaccato. I permessi sindacali sono 10 volte quelli degli statali. Nell’estate 2012 l’assenteismo per (falsa) malattia s’è impennato. Prendono regali sia per i matrimoni (150 euro) che per i funerali (1.000 euro, bella cosa, guadagnare sui morti! se hai una necessità impellente cominci a guardare cupidamente il nonno). Per i pensionati è stato creato un fondo (17 milioni) che elargisce prestiti, a tasso agevolato, mentre regalie sono previste sia per le loro associazioni (2.300 euro ciascuna) che per il loro turismo (300 euro a viaggiatore).
Ci dicono che siamo contro i dipendenti regionali. Si sbagliano: siamo contro lo sterminio sociale cui sono sottoposti i loro figli, parenti e amici. Per ogni posto improduttivo, mantenuto per clientela, si bruciano due posti produttivi. Per due posti produttivi bruciati si cancellano crescita, libertà e consumi. Siamo dalla parte dei siciliani, fra i quali ci sono anche i dipendenti regionali e i precari delle pubbliche amministrazioni, ma siamo contro quanti li prendono in giro e, per coccolarli, affamano il mondo che li circonda. Se poi c’è qualche dipendente regionale che pretende il mantenimento di questa dissennatezza, allora sì, senza problemi, siamo anche contro questi signori.
Così, appunto decisi che sarebbe stato giusto provare a dimostrare che si può dire di no. Senza per questo buttarsi sulla demagogia che tira a tre palle un soldo. Compagni di strada erano vecchi amici e qualche giovane, insofferente di come era stato costretto a crescere e vivere. Ci sono giacimenti di qualità e coraggio, in Sicilia come in ogni altra parte d’Italia, seppelliti e umiliati sotto i detriti di una vita istituzionale e collettiva che considera la meritocrazia un attentato alla quiete pubblica. Che è quiete cimiteriale.
Non avendo né strutture organizzative né soldi, provammo a fare una cosa forse ingenua, ma lineare: annunciammo che volevamo candidarci e spiegammo il perché, con tanto di indicazione dei contenuti, elencazione dei problemi e delle possibili soluzioni. Così, come se la politica fosse una cosa normale. Chiarimmo subito che non ci saremmo alleati con nessuno, che non saremmo stati nella cordata di sinistra, di destra o lombardiana, il che ci conquistò un vasto compatimento, ma anche un curioso interesse. Quindi, subito dopo ferragosto, iniziammo a bussare alle televisioni locali: vi interessa ospitare un matto? Ci ricevevano con cortese disinteresse. Domandavo: quanto tempo abbiamo? La risposta andava dai due ai cinque minuti. Poi, invece, le domande non finivano e lo spazio si allargava. Il perché lo spiegavano gli stessi giovani incaricati di eseguire le interviste: «Che bello, fai una domanda e ottieni una risposta, non dobbiamo registrare dieci volte, nel vano tentativo che il candidato imbrocchi il dissestato sentiero che lo porta verso una conclusione logica; inoltre il tutto va via fin troppo velocemente, mentre con gli altri basta fare una domanda e la risposta non finisce mai, senza neanche arrivare al dunque». Offrivamo il caffè e via verso un’altra emittente.
Colpo su colpo, cominciavamo a esistere. LeAli alla Sicilia – questo era il nome che ci eravamo dati – senza avere speso un centesimo era già rilevata dai sondaggi. E qui le cose cambiarono, perché il messaggio degli editori, talora circonvoluto e mellifluo, altre volte diretto e ruvido, era il seguente: questo primo spazio è un omaggio della ditta, ma, da ora in poi, o pagate o scomparite. La par condicio è sempre stata una gran presa in giro e, in ogni caso, scatta dalla convocazione dei comizi elettorali. Prima non ci sono regole. Dopo, anche in vigenza di par condicio, chi paga ottiene sia spazi pubblicitari che prestazioni redazionali. Le elezioni, insomma, sono un’occasione per far girare soldi. Per gli editori sono come il Natale per chi fa panettoni. E siccome i soldi che presero a girare erano una slavina, era evidente che le elezioni potevano essere anche un’occasione di riciclaggio. Anziché tacerlo, preferimmo dirlo.
Lasciamo perdere il sottovuoto spinto di slogan e idee, il punto è: chi paga e con che soldi? Si tratta di decine di milioni. Visto che, dicemmo, la Guardia di Finanza s’è fatta occhiuta con quelli che bevono un caffè, sarebbe bene che non si lasciasse sfuggire l’occasione di prevenire un male, accertando: a) se è in regola la documentazione fiscale; b) se sono state emesse fatture per l’intero importo o se ci sono pagamenti in nero; c) se le fatture sono intestate regolarmente o a società di comodo; d) come sono giunti i soldi con cui le fatture vengono pagate, risalendo fino ai finanziatori, controllando la loro regolarità e rendicontazione; e) se le spese sono sostenute dai partiti è bene sapere quanti dei fondi per l’attività dei gruppi consiliari sono stati stornati allo scopo di far tornare quei signori a popolare i gruppi (oltre tutto diversi, perché all’orgia della spesa s’unisce quella del trasformismo), f) visto che molti manifesti sono in spazi non consentiti – quindi abusivi, sicché già incorrono in sanzioni amministrative – se quelli sono stati distribuiti con regolare bolla d’accompagnamento o sottobanco, quindi in nero.
È vero che si candidano non pochi riciclati, ma è bene che le elezioni non siano occasione di riciclaggio di denaro sporco. Vuoi anche solo di evasione fiscale. Mentre lor signori parlano di «voto utile» sarebbe bene impedire la pratica che porta all’«utile del voto». Non si può dire ai cittadini che devono pagare con il denaro elettronico anche la spesa al supermercato, mentre queste milionate passano sotto il naso di tutti senza efficaci controlli. Che devono essere anche immediati, perché se capita che qualcuno non è in regola (speriamo di no), meglio saperlo subito. Non dopo averli eletti.
Infine, visto che dopo il referendum che cancellò il finanziamento pubblico dei partiti s’è passati, con incommensurabile ipocrisia, ai «rimborsi», se non altro in ossequio alla lingua italiana, sarebbe bene che, a prescindere da quanti voti si prendono, nessuno sia mai rimborsato per spese che non sia in grado di documentare e far rigorosamente controllare. Vale per le regioni come per il Parlamento nazionale. Se non altro si risparmia. E deve valere per legge, non sulla base della buona volontà o della fregola propagandistica.
In ogni caso, la questione riguarda solo alcuni. Quelli, a destra come a sinistra, che hanno speso, per essere eletti, molto di più di quel che potranno mai prendere come emolumento della loro attività elettiva. Sono tutti dei volenterosi con la vocazione a sacrificarsi per la cosa pubblica, o nella contabilità si devono mettere anche voci diverse? Queste cose le dicemmo in campagna elettorale perché non serve a niente fare le indagini dopo, una volta chiuse le urne e insidiate le assemblee elettive; servirebbe, invece, che gli elettori sapessero prima come stanno le cose. Insomma: è la stessa differenza che passa fra un’operazione chirurgica e un’autopsia. La seconda serve a sapere quel che, oramai, è inutile per quella vita.
La regola del «o paghi o sparisci» non riguardava solo le piccole emittenti, ma anche i gruppi editoriali più blasonati. A Catania mi capitò di leggere, su «La Sicilia», di un dibattito organizzato dall’emittente del medesimo gruppo, cui erano invitati i candidati alla presidenza della Regione. Telefonai per sapere come comportarmi, ma non sono mai riuscito a parlare con il (la) responsabile della faccenda. Così mi presentai. Quattro erano previsti, con tanto di sedie sul palco. Dopo che mi fui presentato mi mandarono due signori, incaricati di buttarmi fuori. Così, come se fosse normale. Dato che i candidati sarebbero stati intervistati dal meglio del giornalismo siciliano, feci osservare che non era cosa di cui vantarsi il restare a guardare un simile scempio. Non fecero un plissé. Conosco queste persone, non prive di un considerevole spessore, ma tutti militi di quell’esercito ben descritto da Sciascia, quello dei siciliani che non credono che le idee possano cambiare il mondo. Che non credono. In fondo avevano ragione loro, il loro posto era quello.
Al dibattito chiese di partecipare un altro candidato, dai modi meno urbani e, soprattutto, accompagnato da un drappello di persone inclini a farsi valere. Alla fine fu ammesso, nel mentre io no. Gli stessi princ...

Indice dei contenuti

  1. Rimettiamo in moto l’Italia
  2. Colophon
  3. Cosa fare, subito
  4. Meno spesa fa più ricchezza
  5. Il liberismo selvaggio
  6. Corruzione corrotta
  7. Il moralismo fiscale
  8. Euro-pa
  9. S=I3
  10. Si sa, ma non si fa
  11. Note
  12. Indice