Gioacchino da Fiore
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Gioacchino da Fiore

Attualità di un profeta sconfitto

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Gioacchino da Fiore

Attualità di un profeta sconfitto

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Parigi, anni '90 del XlI secolo. Uno strano "fantasma" si aggira tra le mura della Sorbona e inquieta le costruzioni artistoletico-tomistiche dei maestri parigini. Il suo nome sembra già di per sé evocare oscuri presagi... "Ille Joachim", così lo evoca Goffredo di Auxerre in una sua drammatica invettiva, volta a dimostrare che la radice dei pericolosi errori teologici dell'abate calabrese starebbe in realtà nel fatto di non aver (letteralmente) "vomitato abbastanza" la propria origine ebraica. Proveniente da una terra drammaticamente lacerata, eppur al tempo stesso straordinariamente fecondata, dall'incrociarsi e dallo scontrarsi di culture e tradizioni diverse, Gioacchino da Fiore si rivelerà agli occhi del lettore quale inquieto "monaco errante"... Una voce profetica, che sfidando le ortodossie teologiche del tempo, eppur mai tradendo l'ortodossia vera del depositum fidei, può essere riscoperto e rivalutato oggi, nel tempo in cui la clamorosa sconfitta della sua profezia più grande può forse insegnarci a guardare con occhi diversi la crisi ormai secolare che ha segnato la fine (o il fallimento) della modernità. E se fosse stato proprio nell'evo moderno il tempo del realizzarsi di quella "terza età" della storia, alla fine della quale oggi ci troviamo, sospesi sul baratro di un'impossibile "apocalisse"?

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788849845754

1 - Alla ricerca di Gioacchino in una complicata e tormentata «tessera di mosaico»

1. Una tormentata identità

La singolare configurazione fisica, con la sua esuberante ricchezza di coste e con l’aspra inaccessibilità delle sue montagne, non ha mai consentito alla Calabria, né nell’antichità né nel medioevo, lo sviluppo omogeneo delle sue parti. Popoli e civiltà in contrasto vi hanno per millenni spiegato l’irreducibile contesa delle loro aspirazioni all’egemonia. Per cui, in ogni momento e in ogni aspetto della storia calabrese, occorre rifarsi alla molteplicità dei tipi etnici e all’emulazione dei cicli culturali, per comprendere le forze profonde, costantemente in opera e in agguato1.
La traccia precisa e caratterizzante che emerge dalle parole di Ernesto Buonaiuti ci sembra davvero capace di delineare quello che può essere un breve, accidentato percorso alla ricerca di un’identità storica quanto mai aspra e inaccessibile, quanto più profonda e innegabile.
La descrizione di Buonaiuti tenta, infatti, una difficile sintesi, uno sguardo d’insieme che possa aiutarci a percorrere i sentieri tortuosi e sempre comunque interrotti di quella che è stata la caratteristica peculiare della storia calabrese, la quale in qualche modo può perciò essere ricondotta alla morfologia stessa dei suoi territori. Un percorso che un altro grande narratore della nostra storia, più vicino a noi, quale è stato Augusto Placanica, ha saputo in maniera impareggiabile «affrescare» nella sua comunque insuperata Storia della Calabria: laddove è possibile davvero approssimarsi alle tonalità, ai colori, ai suoni perduti di un passato rivissuto attraverso le fibre più autentiche di una storicità che permane viva, nonostante tutto, nei suoi echi profondi. Un itinerario mai semplicemente storiografico, attraverso il quale solo infine è possibile comprendere quello che può essere intuito come il senso di una storia che, nel modo in cui insegnava Walter Benjamin, conserva e nasconde in sé sempre e comunque quella scheggia messianica capace di riscattarla dalla pura insignificanza del documento e del dato.
Ciò che emerge dalla caratterizzazione geomorfologica dell’identità storica calabrese, nelle parole di Buonaiuti, è innanzitutto l’impossibilità di ricondurre a unità quella forza irriducibilmente centripeta, impressa a quello che è stato e che è l’andamento mai unitario e neppure lineare della storia, dai caratteri accidentati e ricchi di contrasti del territorio. Una caratteristica remota, in un certo qual modo inevitabile e innata, per la quale Augusto Placanica riteneva più adeguato forse tornare all’antica saggezza di un plurale – le Calabrie, appunto – che una paradossale e ostinata tendenza identitaria rischia ormai di dimenticare.
La storia delle Calabrie, infatti, porta in sé, almeno sin dall’epoca magno-greca e latina, la persistenza di contrasti e separazioni che ne hanno fatto, nei secoli, luogo di domini e di popoli del tutto distanti e diversi. La stessa colonizzazione magno-greca ne è appunto l’esempio più evidente, nell’imprimere in maniera indelebile quella distinzione tra regioni costiere e regioni interne e settentrionali che divenne, da quel momento in poi, diversità non semplicemente climatica e paesaggistica ma più profondamente civile e culturale. Storie dall’infinita ricchezza, ancora da esplorare pienamente, si nascondono tra le misere vestigia di un passato che pure ha avuto, in Calabria, esempi altissimi dell’epoca più classica della civiltà greca. La scienza filosofico-matematica di Pitagora, lo splendore dei santuari locresi, la saggezza di Zaleuco, la poesia dolcissima di Ibico reggino, fino ai confini del mitico approdo di Ulisse nell’istmo tra i due mari. Vestigia veramente eccellenti, la cui miseria è fatta oggi non soltanto dall’incapacità materiale dei pochi ruderi e documenti che ce la tramandano di comunicarci la forza e lo splendore di quel passato; quanto soprattutto dalla ancor più incolmabile distanza culturale, economica e politica, che ci separa da quei vertici assoluti della civiltà occidentale.
Una distanza scavata, senza alcun dubbio, dai lunghi, interminabili secoli di quell’età di mezzo che non fece altro che approfondire, fino a renderli ineludibili, i solchi profondi di divisioni, contrasti, isolamenti, che condannarono in maniera inappellabile le Calabrie a essere, fino ai giorni nostri, terre di dominio e di conquista. Eppure, così come nell’epoca antica splendore e civiltà convivevano con arretratezza e barbarie, così anche nell’epoca medievale, nel nome di quei contrasti e di quelle differenze che furono in tal senso sempre virtuose, sono stati prodotti esempi unici e altissimi di civiltà e di spiritualità.
Il mio caro amico e maestro Sergio Quinzio, guardando con grande simpatia e malinconia al paesaggio calabrese e all’animo dei suoi abitanti, soleva dire che la decadenza di questa magnifica terra iniziava forse dal momento della sua progressiva latinizzazione, dalla perdita di quell’eredità greco-bizantina che ne aveva fatto per secoli la sentinella d’Oriente nel cuore del Mediterraneo. E un altro grande maestro e amante di questa terra e di questa storia, che qui mi piace ricordare con affetto, padre Kosmas, ammoniva dal suo riconquistato eremo di San Giovanni Theristis contro la prepotente invasione culturale di una latinità che si presentava ai suoi occhi con il volto già tecnocratico e imperialista di una civilizzazione non voluta e non cercata. Una civilizzazione globalizzante che aveva saputo progressivamente mortificare e cancellare – «fin sulle rovine», direbbe Ugo Foscolo – quella stessa preziosa eredità greco-bizantina della quale il tenace e ostinato monaco del Monte Athos soleva ergersi a solitario testimone e profeta.
Ed è proprio da questa rimossa eredità che occorre partire per tentare di ritrovare, tra le pieghe della grande storia, quello che è stato il contesto affascinante e complesso nel quale una figura senza pari nella civiltà occidentale poté imprimere il suo indelebile segno al corso degli eventi.

2. Tradite memorie, perdute utopie

Guardare alla Calabria in una carta storica che ritragga le complesse evoluzioni geopolitiche dei secoli che vanno dalla caduta dell’Impero romano fino e oltre l’anno Mille, potrebbe indurre a considerare come alquanto statico quello che è stato il posto che la nostra regione ha avuto nell’alternarsi di domini e di imperi. L’appartenenza all’Impero bizantino, infatti, ha costituito per lungo tempo la costante essenziale di un territorio che, da primo avamposto dell’Impero d’Oriente in terra d’Occidente, si è andato trasformando via via in stabile, seppur contrastata, roccaforte di quel che dell’Impero bizantino rimaneva ancora nell’avanzare ormai altrimenti quasi del tutto incontrastato di altri più potenti domini.
Ci sembra del tutto naturale, dunque, considerare il confronto con quella che è stata ed è l’eredità bizantina quale primo fondamentale momento di riflessione per chi voglia in qualche modo fare i conti con l’identità comunque complessa e indecifrabile di un territorio come quello calabrese.
Eppure, ci sbaglieremmo davvero se, da quell’occhiata superficiale alla carta, passassimo a considerare questa apparente fissità come segno di un tempo di stabilità sociopolitica e di pace. Mai come in questi secoli, infatti, il territorio accidentato e diverso delle Calabrie è stato tanto attraversato da eserciti, conflitti, contrasti, crisi e carestie. Davvero secoli bui, quelli del medioevo calabrese, almeno da questo punto di vista! Secoli dilaniati dal sangue e dalla miseria di un popolo mai più in pace con se stesso, mai più padrone dei suoi stessi territori, dei suoi difficili eppur floridi campi, dei suoi selvaggi e ricchissimi boschi, delle sue limpide acque e dei suoi mari impetuosi.
Dalle incursioni ripetute e rovinose degli arabi sulle martoriate coste, fino alla lotta sanguinosa tra longobardi e bizantini, i territori calabresi dovettero imparare presto l’arte dell’arroccamento, del rifugio, della difesa a oltranza. Un’arte dura e difficile, che diviene così carattere indelebile di un popolo; segno mai più superato di un’identità anch’essa dura e difficile, in quanto temprata da questi lunghi secoli di sofferenze e miseria.
Secoli che definiscono anche l’identità e la morfologia dei territori, segnati da un forzato allontanamento dalle coste nella direzione delle più sicure seppur aspre montagne dell’interno. Le gloriose dimore degli dei, i templi e i teatri delle splendide città della Magna Graecia vengono definitivamente abbandonati al saccheggio e all’oblio. E sarà inevitabilmente assai faticosa l’impresa di chi vorrà, tanto, forse troppo tempo più tardi, tentare la via di un recupero di memorie e vestigia ormai del tutto dimenticate e sepolte nell’animo delle popolazioni.
Arroccamento geografico e spirituale, che diviene così dimensione intima dell’animo dei calabresi, traccia di una fragilità rivestita da corazze di durezza e di paura, forgiate dalla virtù tragica della difesa e del rifugio. Senso di un generale ritrarsi nei silenzi della storia, lontano dagli splendori antichi e da più mediterranee visioni.
La persistenza dell’elemento greco, pur cambiando decisamente segno e direzione rispetto a quella che era la solare eredità degli antichi, diviene tratto caratterizzante di un medioevo che forma già, nella geomorfologia dei territori e nella dimensione antropologica e culturale dei suoi abitanti, quello che sarà poi il profilo dell’età moderna. Decisivo, in tal senso, il profondo radicarsi dell’esperienza monastica e spirituale della tradizione basiliana, che con la sua presenza diffusa e pervasiva nei territori dell’interno darà rifugio alle anime e ai corpi, diverrà il più efficace ammortizzatore delle rivolte contro gli imperatori bizantini e produrrà il magnifico seppur sofferto propagarsi di una religiosità umile e intima, radicata nel tessuto familiare e popolare.
Ed è assolutamente straordinario collocare, proprio nel contesto del più turbolento «passare» dell’Impero romano e del contrastato radicarsi della «resistenza» dell’Impero d’Oriente, una vicenda, un luogo, un’immagine, che ci appare in tutta la sua carica autenticamente utopica: capace di resistere nell’idealità a quello che pure fu, purtroppo, il suo breve tempo di realizzazione concreta. Si tratta del Vivarium di Cassiodoro.
C’era una volta un’altra Calabria possibile, altre visioni di civiltà e di ingegno, sogni e progetti utopici che trovavano proprio nella nostra terra il loro terreno più fertile. Di chi, in modi e con intenti diversi, ha saputo guardare al paesaggio con la forza trasfigurante di un’idea, di una visione, di una carica utopica che ha avuto nella storia momenti straordinariamente luminosi. Si pensi appunto alla grandiosa, a tratti impensabile, scenografia architettonica, topografica e ambientale che il Vivarium di Cassiodoro aveva saputo proiettare su uno dei tratti più belli di questo territorio, compreso tra il promontorio di Stalettì, la scogliera di Copanello e le colline di Squillace. Al termine di una vita piena di incarichi prestigiosi, tornando nella sua terra mai dimenticata, con negli occhi i colori e gli odori che aveva lasciato nel paesaggio incantato del Golfo di Squillace, Cassiodoro il Grande (come lo ha giustamente definito Franco Cardini) ebbe finalmente il coraggio della più grandiosa «visione» che sia mai stata pensata e realizzata in quella che era stata, e che non era già più, la Magna Graecia, e che ai suoi occhi si avviava a un’epoca buia e tempestosa di declino. Un luogo dello spirito, della preghiera, che era però anche e soprattutto un luogo della cultura e dello studio, dedito alla conservazione e alla trasmissione di quel patrimonio irrinunciabile della civiltà classica che rischiava altrimenti di scomparire nel nulla. Un primo, troppo presto dimenticato, sorgere di quella che sarà molti secoli più tardi la rinascita umanistica. Un umanesimo prima del medioevo, una profezia straordinaria di civiltà e di futuro, tracciata con tenacia dalle scogliere alle colline. Monastero, centro culturale, scriptorium, biblioteca; ma anche appunto «vivarium»: centro di allevamento e cura dei pesci, pure questo segno di singolare «modernità». E ancora, se tutto ciò non bastasse, luogo di rifugio e di cura per gli infermi e gli ammalati, nel corpo e nello spirito; e quindi perciò luogo di coltivazione e di ricerca sulle piante officinali. Un esempio forse insuperato, quello di Cassiodoro, di cui purtroppo quasi nulla presto rimarrà nella memoria, a volte spietatamente ingrata, di una terra che ha troppo a lungo sofferto di una condizione di disperata emarginazione geografica, economica e culturale. In cui la civiltà magno-greca, gli splendori bizantini, le magnifiche visioni di Campanella, di Gioacchino da Fiore, di Bernardino Telesio, nulla hanno potuto contro il risorgere prepotente di una barbarie che di tutto ciò ha saputo cancellare ogni vestigia.
Ma non è ancora questa l’epoca in cui si collocano la vita e l’opera di Gioacchino da Fiore. Seppur fondamentale risulta il radicamento in quella che rimane l’ineludibile eredità dell’epoca bizantina, che mai più si separerà del tutto dai destini storici e antropologici delle Calabrie, l’abate Gioacchino da Celico troverà dinanzi a sé un paesaggio storico-politico radicalmente mutato, in cui la presenza dell’elemento normanno prima e svevo poi ha ormai instaurato un nuovo sistema sociopolitico, economico e culturale: il feudalesimo. Sistema che viene in qualche modo a sovrapporsi, eliminandolo ma non del tutto, a quello che era l’antico ordine greco-bizantino. Quel cosmo in realtà molto poco ordinato che, però, aveva ormai da secoli messo radici nella società, nei territori, nell’animo dei calabresi. La feudalizzazione delle Calabrie coincide, lentamente ma inesorabilmente, con la sua progressiva latinizzazione: con la perdita inevitabile e progressiva di quella identità – magnogreca prima, bizantina poi – che aveva connotato oramai nel profondo la storia di quei territori.
Feudalizzazione e latinizzazione vengono a sovrapporsi a tutto ciò, con la violenza della storia, con il linguaggio delle armi e del potere. Ma finiranno anche per assumere un carattere religioso e culturale: come un marchio identitario necessariamente sovrapposto, anche questo, alla sostanza umile e autentica di una spiritualità antica che non potrà comunque essere sradicata. Ed è qui che può notarsi, meglio che altrove, l’evidenza di una stratificazione che non cessa di far riemergere, in ognuna delle sue più significative espressioni, i suoi indomiti caratteri originari.
La dominazione normanna giunge dunque in Calabria, e porta con sé una promessa di pace e sicurezza che ha nella costruzione di torri e castelli il suo segno più evidente. Anche questa terra, dimenticata ai margini della storia, avrà dunque il suo regime feudale, le sue corti, i suoi castelli, i suoi signori, le sue guerre di difesa e di conquista. E la sicurezza dagli attacchi esterni, ormai garantita dalla sapiente mano armata normanna, sarà ben ricompensata dalla violenza crescente delle lotte dinastiche, delle contese, degli assoggettamenti.
In questa cornice, due sono forse gli eventi cruciali per assaporare in qualche modo quello che fu lo spirito del tempo.
Il primo è certamente la fondazione della Certosa, intorno al 1096, a opera di san Brunone di Colonia, eremita in esilio dalla sua patria e dalle ambizioni di potere, mandato quaggiù da un papa premuroso di aggiungere tessere forti a quel mosaico precario di un cattolicesimo da espandere verso sud, con la complicità del nuovo dominatore normanno: una volta combattuto, ora alleato, in nome di un comune interesse alla latinizzazione e alla feudalizzazione di quei remoti territori. San Bruno ottiene da Ruggero II una vasta porzione della Calabria centrale, a cavallo dei freschi altopiani e dei foltissimi boschi delle Serre, ed è qui che stabilisce il suo eremo e il suo cenobio. Pochi romitori intorno al fresco ruscello del bosco di Santa Maria, in nome di un ideale puramente ascetico, lontano dalle mire espansionistiche cattolico-normanne… Eppure, a partire da quelle umili pietre, nel corso degli anni, un imponente complesso monastico dominerà la scena del territorio, con le sue attività e le sue grange, che si estenderanno da una parte all’altra fino al mare.
La nascita del movimento gioachimita, il primo sorgere e attecchire di quello che fu l’insegnamento e la predicazione di Gioacchino, si inserisce, in questo contesto, come una nota decisamente inaspettata. Come una rottura potente, un fermento rinnovatore autentico, capace di rimettere in gioco quelle antiche e indomite radici spirituali di un popolo, quella vocazione eremitica e visionaria che il manto della latinizzazione cattolica tendeva ora a soffocare nelle torri eburnee della dottrina e del silenzio.

3. Un monaco errante

Sono tanti gli aspetti decisamente intriganti e affascinanti della figura di Gioacchino, della vita di un monaco decisamente «fuori dal comune», come ce lo presenta efficacemente Robert Lerner. Fuori dal comune per tutta una serie di fattori e di dati che ne tracciano l’incerta biografia, densa di possibilità e di congetture mai del tutto chiarite perché difficile e non più chiaramente risolvibile è, come ci spiega Herbert Grundmann, il rapporto con le fonti e con i documenti. Forse è stato anche questo il motivo del sorgere di tante affascinanti ipotesi intorno al nostro Gioacchino, accanto all’indubbio fascino e alla documentata aura di santità che illuminò le ultime fasi della sua esistenza. E se non fosse stato per il buon Luca di Casamari, monaco al fedele servizio dell’abate Gioacchino sin dalla sua residenza presso l’omonima abbazia laziale fino alla morte, certamente assai più difficile, forse addirittura impossibile, sarebbe parlarne oggi.
Il primo, insoluto e decisivo enigma della sua biografia è legato già alle sue origini e alla sua nascita. Due le possibilità proposte dai documenti, tra le quali sembra maggiormente plausibile quella per cui Gioacchino sarebbe nato, a Celico, dal notaio Mauro e non da famiglia di agricoltori, come sembrerebbe accennato in alcuni passaggi dei suoi scritti. Il notaio Mauro avviò il giovane dotato e brillante alla carriera diplomatica presso la corte normanna a Palermo; e questa sarebbe la fine della storia se, a questo punto, non intervenissero altri, enigmatici e decisivi passaggi. E arriviamo così al secondo «dato» che segna la biografia del giovane Gioacchino: il viaggio a Gerusalemme. Quando avvenne? Come? Per quali motivi?
Tante sono anche su questo punto le possibilità, le ipotesi, gli studi. A noi interessa sottolineare come, in ogni caso, è a partire da questo viaggio che i destini tracciati del nostro provetto diplomatico cambiano radicalmente, e con essi la storia stessa della nostra civiltà occidentale. Le fonti ci narrano di una conversione precedente, che quindi sarebbe stata anche la motivazione del viaggio, e/o di visioni intervenute durante il percorso in Terra Santa, che sarebbero state decisive non solo e non tanto per la scelta monastica, quanto soprattutto per le future visioni esegetiche e profetiche delle sue opere. Comunque sia, di ritorno da Gerusalemme, Gioacchino da Celico decise di diventare monaco e, dopo alcune esperienze eremitiche, trovò nel monastero prima benedettino e poi cistercense di Corazzo la sua prima casa religiosa.
Siamo nel cuore della ...

Indice dei contenuti

  1. Gioacchino Da Fiore
  2. Colophon
  3. 1 - Alla ricerca di Gioacchino in una complicata e tormentata «tessera di mosaico»
  4. 2 - Un itinerario profetico, tra pensiero e immagini
  5. 3 - L’attualità postmoderna di un «profeta sconfitto»
  6. Nota bibliografico-esistenziale
  7. Indice