Autoritratto della perfezione
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Autoritratto della perfezione

Per una lettura di Cristina Campo

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Autoritratto della perfezione

Per una lettura di Cristina Campo

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Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini (Bologna 1923-Roma 1977), è stata scrittrice, poetessa, critica letteraria, consulente editoriale, traduttrice; straordinaria ed originale interprete della più profonda spiritualità insita nella letteratura europea. Questo saggio si addentra nella sua prosa, tra le più belle della letteratura italiana, allo scopo di analizzarla e definirla, soffermandosi sul genere che lei più felicemente praticò, la scrittura critica, assurta a paradigma della letteratura stessa e perciò divenuta "scrittura d'arte". Una prosa che sfugge ad ogni rigida e univoca classificazione, tanto che questa esplorazione non può che assumere il taglio di una variazione su temi, ripercorrendo quegli itinerari esistenziali, e attraversando quei luoghi, che più hanno segnato la parabola artistica della Campo. Tutto ciò mentre, in filigrana, emerge la sua vicenda umana, tra le più intense e suggestive del Novecento.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849860498

L’epistolario

Da più parti si racconta che la conversazione di Cristina fosse simile alla sua scrittura e viceversa, poiché in entrambe l’eleganza di dettato discendeva da un severo setaccio di parole, pur mantenendo il tono e la sintassi della parlata comune. Il suo nutrito epistolario fa da trait d’union fra questi due canali comunicativi, laddove si configura come conversazione scritta, offrendoci un saggio di lingua d’uso fissato perennemente sulla carta, che viene spontaneo accostare ai testi letterari, a dimostrazione di come quella parola così forgiata fosse in lei naturale mezzo d’espressione. La corrispondenza con gli amici più cari, anime affini, offre, infatti, una valida testimonianza della spontaneità con cui questa raffinata solitaria intercettasse i suoi temi e giungesse poi a riconoscersi naturalmente in certe formule e stilemi, così che ci sia preziosa per stabilire come l’esclusiva elevatezza di registro, caratteristica eminente della sua intera opera, non fosse intellettuale affettazione di scrittura letteraria. Poiché la ritroviamo pure nel fluido discorrere delle lettere, che con cadenza quotidiana indirizzava sempre a qualcuno dei «suoi», tale lingua ci appare quale naturale sbocco espressivo di una mente rapita da ardite meditazioni che nell’epistolario vengono riversate alternativamente ai resoconti minuti di episodi feriali, dei sonni e delle veglie notturne, dei pasti e delle ricorrenti degenze per l’accanirsi della malattia. Una lingua che è sempre la stessa, così da sembrarci quasi un codice consueto con cui esprimere la parte più vera di sé. O, più semplicemente, una lingua fortemente connotativa nella quale facilmente e istintivamente si riconosce una sensibilità per natura e formazione marcatamente poetica. E che «poetica» è sempre, in qualsiasi circostanza, non solo quando fa poesia.
Per un’analisi completa di una scrittura così fuori dal comune, poi, non si deve mancare di considerare la stessa precaria condizione di salute della sua autrice. Vale a dire la malattia come co-genesi dell’arte. Cristina visse un mondo «appartato» (anche se tutt’altro che isolato) per la natura elitaria dei suoi interessi e dei suoi studi, certo, ma fu il male che la teneva soggiogata fin dalla più tenera infanzia a contribuire notevolmente a emarginarla fin dall’origine in una dimensione ovattata che solo la sua tenacia, nonché la dedizione al risvolto spirituale dell’esistenza, seppe trasformare nel suo opposto: in un punto di forza, quasi una finestra affacciata sul mondo. Dal chiuso della sua stanza, che negli ultimi anni di vita divenne vera e propria cella romita, come s’è detto, Cristina si sporge a contemplare l’uomo, la bellezza e Dio attraverso i libri che dapprima qualcuno sapientemente le consiglia e che poi il suo gusto, il suo orecchio, il suo fiuto sapranno discernere. Nel chiuso di una stanza capisce e ama la vita che per lei vede appesa a un filo. Come la scrutasse da un confine, a quella giusta distanza da cui si focalizzano meglio i contorni. Alcuni hanno detto che sia stata per lei una fortuna il non aver frequentato scuole, condizione determinata dalla malattia come sappiamo, ma obiettivamente lo fu molto di più il fatto che a quella mancanza la famiglia avesse saputo sopperire mirabilmente. Questa segregazione forzata in un ambiente familiare culturalmente fervido e vitale fu piuttosto la vera benedizione sul piano della formazione intellettuale, che le permise di ricevere un’educazione su misura estremamente raffinata e le consentì il tempo di divorare biblioteche perché, è proprio il caso di ricordarlo in quest’oggi frettoloso e delirante, leggere un libro richiede pazienza e silenzio. E, perché no, quella solitudine intesa come spazio per sé. La stessa che occorre per dedicarsi al culto della forma, che è l’arte dei contemplativi, ma che dal Sessantotto a tutti gli anni Settanta incominciò a essere considerato quasi un passatempo borghese. E su tale pregiudizio si condannò ai margini questa figura aristocratica e riservata, condizione dalla quale del resto lei non fece nulla per uscire. Perché fu, a suo modo, una guerrigliera. Armata della parola.
Questa lingua sorprendente, che affila nelle lunghe ore di studio solitario, si rivela l’unico mezzo per comunicare se stessa nella forma scritta o parlata, pubblica o privata e familiare. Sempre lo stesso tagliente strumento con il quale comunicare la propria anima o con la propria anima (quasi parafrasando de Deo o cum Deo) che già sembra risponderle ogni qual volta la scrittura dona sollievo. Sintomatico di questo è che consigli ad Alessandro Spina, uno dei suoi interlocutori privilegiati, di scrivere con gioia giacché sarebbe il segno che s’è imboccata la strada dell’arte. La differenza tra la prosa delle lettere e quella dei saggi consiste unicamente in un minus dicere portato a compimento in questi ultimi, da renderla a volte epigrafica, laddove la scrittura privata è di getto, anche se abituata al labor limae, e limitata dall’estemporaneità a una sobria eleganza.
Le lettere costituiscono anche il primo commentario alla sua opera compiuta, dove, a volte in forma più estesa grazie anche al raffronto con le risposte dei suoi interlocutori, vengono espressi e svolti sul nascere i temi ricorrenti della sua poetica. Ma per l’indiscusso talento letterario dell’autrice, per l’elevatezza degli argomenti trattati, per la peculiarità dell’anima che disegnano, queste lettere sono testimonianza paradigmatica di una vita spesa per la letteratura, e di una letteratura che s’innerva nei solchi di una vita. Ha scritto Cesare Galimberti: «Ci sono tre grandi epistolari nella letteratura italiana: il Tasso, il Leopardi e Cristina Campo».
In particolare, sono due le raccolte che ci offrono un quadro completo e vivo della Cristina più matura e autentica:
1. Lettere ad Alessandro Spina
È del 2007 la pubblicazione del Carteggio tra la Campo e Alessandro Spina, che copre il periodo che va dal 1961 al 1974. Precedentemente erano state pubblicate le sole lettere della prima senza le risposte, da Scheiwiller nel 1989 nella raccolta Lettere a un amico lontano. Fino a ora si tratta della prima edizione di un «passo a due» nel quale scopriamo la grande affinità fra gli interlocutori, comprendiamo meglio le ragioni della corrispondenza e, dal confronto, identifichiamo con maggiore nettezza i contorni e l’originalità delle rispettive voci. Con Spina, che a quel tempo viveva in Africa, fu lei a fare il primo passo dopo aver letto il suo racconto Giugno ’44 su «Paragone», rivista diretta dai coniugi Longhi (il grande storico dell’arte e Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, l’autrice di Artemisia). Uno scritto che poi confluirà in una raccolta (Storie di ufficiali, Mondadori 1967, infine I confini dell’ombra, Morcelliana 2006) che in gran parte sarà la stessa Campo a sostenere e ispirare. Il fatto di trovarci dopo il ’60, che costituisce lo spartiacque più o meno convenzionale fra il prima e il dopo la conversione, ci fa già supporre di trovarvi l’anima matura della scrittrice che continua a misurarsi con i suoi antichi phares, fra cui Cechov, Weil, Hofmannsthal, ma che si dirige verso nuovi orizzonti in parte già indicati da quelle stesse guide, come i padri della Chiesa, soprattutto i greci insieme alla liturgia recapitati dalla Weil, permanendo pure quei fondamenti della sua costituzione letteraria e spirituale, mai del tutto abbandonati, che furono Dante, Proust e Pasternak. È molto presente Lawrence d’Arabia, mutuato dalla Weil e da Borges, e Madame de Lafayette, in qualche modo legati al motivo principale della corrispondenza. Si tratta, infatti, del comune lavoro per la pubblicazione della fiaba delle Milleunanotte La città di rame, che Spina aveva il compito di tradurre dall’arabo e Cristina di introdurre con un suo saggio; poi, arriverà la collaborazione per la stesura dei racconti di Spina che, man mano che li componeva, li recapitava dall’Africa alla sua amica lontana con la stessa premura di un discepolo che sottopone le proprie fatiche al suo maestro. I temi affrontati in questo carteggio, con l’impareggiabile vantaggio di ascoltare in contemporanea le due voci appunto, sono tutti eminentemente letterari perché riguardano un sodalizio che mirava a produzioni concrete in qualche modo comuni, tanto da farne un compendio di poetica generale che si sofferma in particolare sugli strumenti dello scrittore. In più, ci fanno conoscere il rapporto della nostra con quelle tematiche letterarie dopo la sua conversione. Ma procediamo con ordine.
Dicevamo che fu iniziativa di Cristina intercettare questo nuovo interlocutore di cui aveva letto un racconto su «Paragone» dal quale era stata favorevolmente colpita. A leggere questa prima lettera del carteggio, così contegnosa e distante rispetto a tutte le altre che verranno, si coglie quanto sia dipesa da un suo atto di volontà, da un suo sforzo di apertura verso un autore sconosciuto, un’amicizia che si baserà tutta sulla consonanza spirituale che evidentemente quel racconto ammirato poteva già in sé lasciare supporre. È un saluto breve, intenso e interessante, che per questo riportiamo per esteso:

Roma, 13-II-’61
Gentile Signore,

scusi se le scrivo senza conoscerla. Ho letto un suo racconto intitolato «Giugno ’40». Credo almeno si tratti di un suo racconto.

Mi è sembrata una cosa di qualità molto rara, come da tempo non mi accadeva di leggere. Molte cose mi hanno colpita in questo racconto. Prima di tutto l’indifferenza per il lettore, poi la qualità musicale, non intendo della prosa ma del succedersi delle emozioni (sebbene a un certo punto mi sembrasse di ascoltare un concertato dal Cavaliere della Rosa…). Ma soprattutto mi ha turbata quel fondo di grazia, di libertà e di orrore. Il sentimento dell’abitudine come morte vivente, la forza di volerla spezzare.
La ringrazio di aver scritto questo nobile racconto e la saluto con amicizia.
Cristina Campo1.
Quello che sembra un tenue saluto è, a ben guardare, un messaggio cifrato lanciato a qualcuno di cui si sospetta la stessa «provenienza». È vergato con un’attenzione a dire tutto senza dire troppo che non troveremo nelle successive missive, scritte con mano più sciolta e veloce. Qui, pare che l’autrice abbia lanciato un messaggio nella bottiglia per rivelarsi allo scrittore, ancora sconosciuto, subito nella sua integrale identità di artista, senza rivelare tutto di sé scendendo a spiegarsi, per vedere fino a che punto Spina avrebbe colto quei segnali e fatti suoi. Non a caso si firma con il suo nom de plume. In poche righe riversa il cuore della sua concezione di letteratura, trattando i temi a lei più familiari, come se lo fossero altrettanto anche all’altro. Quale intesa può innescarsi sulle pagine di un racconto tra l’anima di chi legge e quella di chi ha scritto? In forza di quella consonanza e per cieca fede a essa Cristina aveva fatto di questo sconosciuto, che giustamente tratta con riserbo, un abitante del suo stesso universo con il quale parlare la stessa lingua. Ma le espressioni che usa non sono mai lasciate al caso, né ci sconcerta, in uno scritto di tanta densa brevità, che per ben quattro volte venga ripetuta la parola «racconto». Intanto perché, come fa ogni scrittore di rango e al contrario del luogo comune, la Campo non si è mai curata di abolire le ripetizioni. Anzi le ritroviamo sovente nei suoi scritti come un lessico di base dal quale non si può prescindere. Sintomo della ossessiva ricorrenza di certi temi. Inoltre, è tipico di chi coltivi la parola pura. Chi possiede il sentimento della lingua sa che per esprimere il particolare esiste una e una sola parola che un sinonimo non può facilmente sostituire se, come nel caso di una definizione geometrica, ogni parola è scelta per fare chiarezza. Non poteva trovare un sinonimo alla parola «racconto» né ometterla perché parola chiave: sarà essa il luogo dell’incontro tra lei e l’amico lontano o, piuttosto, usando una metafora a lei cara, il tappeto volante su cui, d’un balzo, la lettrice raggiungerà il suo autore, mezzo di trasporto ideale per una corrispondenza che inizia sotto una buona stella. Si tratta di un racconto di qualità molto rara, diverso da tutti quelli solitamente pubblicati, perché possiede in sommo grado ciò che la Campo ammira negli autori del passato ma che difficilmente ritrova nei contemporanei. Tutte le volte le capiterà di fare scoperte simili, il suo entusiasmo la porterà a mettersi in qualche modo in contatto con quei superstiti di un mondo perduto. Le qualità sostanziali che fanno grande un’opera letteraria, da Omero a Dante a Proust, sono le tre che condensa in queste righe: 1. indifferenza per il lettore; 2. qualità musicale (della lingua e delle emozioni); 3. fondo di grazia libertà e orrore.
Cristina non spiega cosa significhi «indifferenza per il lettore», supponendo che Spina, avendo scritto secondo questo principio, sappia a cosa faccia riferimento. Questo carattere eminente di una scrittura proiettata verso sé stessa scardina il lettore dalla sua posizione passiva per costringerlo all’ascolto di una parola nuova, veramente «altra», che lo predispone ad accogliere il mistero che l’autore gli rappresenta sotto gli occhi. Così, pure l’autrice di questa prima lettera apre il carteggio nella chiave giusta, intonando la nota alla quale il suo interlocutore dovrà accordare la propria voce. «Scrivere indifferenti» permette paradossalmente di rendere familiare l’interlocutore con un parlare «cuore a cuore». Dunque, l’autrice di questa lettera così contenuta, raccolta, quasi reticente, in realtà tratta il suo interlocutore con grande confidenza.
Se un tipo di comunicazione aderisce interamente alle convenzioni di un genere, riversando nell’ascoltatore esattamente quanto questi s’aspetta di ricevere, non si verificherà mai vera trasmissione dall’uno all’altro polo poiché non si richiederà al lettore quell’apertura allo straordinario che solo chi è preso in contropiede alla fine concede. Quando si destabilizza l’ascoltatore con un linguaggio non concepito per compiacerlo, che introduce elementi sorprendenti, allora si rompe il diaframma della convenzione e finalmente si «dice», cioè si incide nella capacità percettiva dell’altro. Nell’espressione artistica ciò appare più evidente, cosicché, per garantire l’autenticità della trasmissione è indispensabile che durante la fase creativa non venga contemplato il possibile «utente». A garanzia dell’autenticità dell’espressione artistica e, conseguentemente, della sua capacità di toccare veramente il cuore di chi la sappia contemplare. È interessante considerare come questa teoria della produzione artistica si svilupperà nel corso del carteggio. A un certo punto, infatti, Spina ammetterà di scrivere pensando alla sua sapiente interlocutrice come per avere un orientamento della mano, mentre lei gli consiglierà di scrivere come se si rivolgesse a un Dio niente-sciente al quale è opportuno raccontare, ma senza il timore di rimanere incompresi. Scrivere per Dio è come dire scrivere per se stessi, facendo della comunicazione verbale una preghiera che rivela l’identità nascosta dell’orante; stesso principio che muove la preghiera rivolta a un Dio che già conosce ogni richiesta prima ancora che affiori sul labbro, ma che è bene formulare come se non la conoscesse per muovere il fedele a entrare in contatto con la sua condizione di bisogno, al cognoscimento di sé che è il primo passo al contatto divino.
Altra caratteristica del racconto di Spina è la qualità musicale del succedersi delle emozioni. Questo accade quando un racconto si fa descrizione di eventi che riproducono in ritmica sequenza la variazione degli episodi e degli stati d’animo fino a configurarsi come una danza o una composizione musicale...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. La purezza della complessità
  6. Definizione di genere
  7. Lingua e stile
  8. Classica o romantica?
  9. Della fiaba
  10. Il sapore massimo di ogni parola
  11. Sprezzatura
  12. Il destino
  13. Fiaba e mistero
  14. Immaginazione e citazione
  15. Perché vola un tappeto?
  16. Su John Donne
  17. Cristina e i suoi modelli
  18. L’epistolario
  19. Sotto falso nome
  20. Tecnica e visione
  21. Attente de Dieu
  22. Equazione poeta-mistico
  23. Note