Rivista di Politica 1/2016
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Il pensiero politico italiano: materiali, profili e interpretazioni

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Il pensiero politico italiano: materiali, profili e interpretazioni

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Dal marxismo alla liberal-democrazia: l'itinerario politico-filosofico di Lucio Colletti Giuseppe BedeschiPensare la democrazia: Norberto Bobbio e il mestiere dell'intellettuale (pubblico) Gianfranco PasquinoTra filosofia e scienza politica: il realismo liberale di Nicola Matteucci Angelo PanebiancoRealista e visionario: Gianfranco Miglio e la scienza delle istituzioni Lorenzo OrnaghiElogio (controcorrente) della ricchezza. La Chiesa di Francesco e i limiti del pauperismo ideologico. Emanuele Cutinelli- RèndinaOltre l'operaismo: Mario Tronti fra Tradizione e Apocalisse Pasquale SerraGiovanni Sartori teorico e scienziato della democrazia Sofia Ventura

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788849848205
Illustration
CONGETTURE E CONFUTAZIONI

Elogio della ricchezza

(a proposito del viaggio
africano di Papa Francesco)

di Emanuele Cutinelli-Rèndina
È possibile esprimere un moto di dissenso nei confronti della sostanziale unanimità, puntualmente rinnovatasi durante il recente e certo assai coraggioso viaggio africano (25-30 novembre 2015), che accompagna gli interventi pubblici di Papa Francesco? Non ci soffermeremo su quanto dal Santo Padre è stato detto di largamente condivisibile, come l’esortazione alla pacifica convivenza tra le religioni (convivenza però, e non certo dialogo, poiché le religioni, in quanto sistemi di verità, non dialogano e non possono dialogare tra loro: sono gli individui che accettano di convivere, e sono gli ordinamenti politici, sovraordinati alle religioni, che garantiscono e regolano tale convivenza), né su quanto non è stato detto e pur avrebbe fatto piacere sentire: per esempio la necessità di quella responsabile politica demografica di cui il continente africano ha una tragica, assoluta necessità, e che è poi la premessa per l’avvio di serie politiche sociali. Preferiamo commentare un solo punto, ma cruciale, quello della povertà e della ricchezza, e del modo di intenderne i reciproci rapporti.
Si tratta di un tema che, com’è ben noto, è al centro di tante e tante prese di posizione del pontefice e costituisce uno dei tratti più qualificanti della sua personalità e dello stile del suo magistero, simbolicamente presente fin nell’inconsueta scelta onomastica; un tema che anche in occasione del viaggio africano ha risuonato con note e accenti a cui Papa Francesco ci ha ormai abituati. Per fare un solo esempio, tali note e accenti si colgono, o si leggono bene in controluce, in quanto dichiarato sull’aereo al ritorno dal viaggio: «L’Africa è vittima, è sempre stata sfruttata dalle altre potenze, dall’Africa gli schiavi venduti in America, poi le potenze che cercano solo le sue grandi ricchezze, non pensano alla dignità delle persone, a dare lavoro. L’Africa è martire dello sfruttamento e non capiscono che questa forma di sviluppo fa male all’umanità» (ANSA, 25 novembre 2015). Va da sé che, sul piano storico, non si fa qui questione della potente colonizzazione araba dell’Africa settentrionale e della conseguente cancellazione di ogni traccia di civiltà greco-latina e di stili di vita preesistenti, e forse neppure di quella, recentissima e dal profilo ancora non del tutto decifrabile, asiatica e saudita. Non si ritiene che debba farsene questione, e dunque anche noi non ne facciamo questione, restringendo il discorso a quelle che Francesco ritiene le caratteristiche e le conseguenze del moderno colonialismo europeo. Va de sé inoltre che, inevitabilmente e per le stesse esigenze della comunicazione, molto nei discorsi del pontefice vi è di semplificato e di semplicistico, e perfino di estremizzato. Ma semplificazione per semplificazione, e sapendo che dietro le sue parole c’è comunque una complessiva impostazione ben altrimenti consapevole e meditata, riteniamo che valga la pena di argomentare qualche punto di dissenso intellettuale.
Al di là della prospettiva storica che ne sorregge la visione, le accorate parole del pontefice nei confronti delle popolazioni, cristiane e non cristiane, afflitte dalla povertà sempre più profonda in cui si sta avvitando una parte larghissima del continente africano, e quello subsahariano in particolare, suscitano certo ammirazione per il profondo senso di umana compassione che le anima, ma finiscono col produrre una forte stonatura. Il filo conduttore e quasi l’accordo di base degli interventi di Francesco è infatti la rampogna nei confronti di chi ha, di chi è ricco e ha sfruttato per divenire tale, e poi non condividerebbe abbastanza la propria ricchezza. È però impostazione che, anche tenuto conto delle inevitabili semplificazioni di cui si diceva, non convince e soprattutto in nulla giova a risolvere i problemi contro i quali si dirige, e anzi paradossalmente, falsandone i termini effettivi, contribuisce a perpetuarli.
Il punto autentico è che se è vero che la povertà in tutte le sue forme merita compassione e deve suscitare un moto volto a dare sollievo e, se possibile, offrire un’occasione di riscatto, essa non è però il risultato dell’altrui essersi sottratto a tale condizione, magari pervenendo con un plurigenerazionale cammino di civiltà a ciò che si suole chiamare ‘ricchezza’. In una larga prospettiva storica e sociale la povertà di un qualunque soggetto, individualmente o collettivamente considerato, non è l’effetto dell’operare di chi si è allontanato da quella condizione, in altre parole di chi è ‘divenuto ricco’, bensì in primo luogo di un deficit politico e culturale al quale la società detta povera, con i suoi membri, partecipa. In secondo luogo la povertà è anche, almeno in parte, il risultato di una distorsione prospettica causata da un confronto con quelle diverse condizioni di vita materiale, morale e spirituale che altrove altre società hanno creato a sé stesse. Chi impiega gli argomenti di Papa Francesco e considera la povertà nel quadro delle premesse che egli fa sue, ragiona in una falsante prospettiva eurocentrica che mira ad applicare uniformemente parametri e criteri generati in seno alla società occidentale, e non riflette abbastanza, o non riflette per nulla, su quali fossero le condizioni materiali e morali dell’esistenza, la natura dei rapporti sociali e le aspettative di vita a monte dello ‘sfruttamento’ europeo dell’Africa e delle Americhe.
È questa la ragione, o una delle principali ragioni, per cui troppo rare risuonano nei discorsi del pontefice le critiche, che ci si attenderebbe altrettanto veementi, nei confronti di classi dirigenti locali che sono ormai pienamente e non da poco tempo responsabili dei destini dei loro popoli, e che così spesso si sono rivelate desiderose solamente di prostituirne le risorse e incapaci di mirare al bene comune, superando lo spirito di fazione; in una parola tali classi dirigenti si sono troppo spesso rivelate inadeguate, avide e corrotte, dove l’esistenza di un corruttore – il ricco occidente postcoloniale – non scagiona però il corrotto, se ha, come deve avere, responsabilità politiche. Troppo rari, ancora, sono nelle parole di Francesco gli appelli, che avrebbero una forza tutta particolare provenendo da una tale autorità, al riscatto non attraverso l’altrui carità e slancio alla condivisione, bensì attraverso e nel lavoro. Perché carità e slancio alla condivisione sono certo atteggiamenti lodevolissimi tra singoli e gruppi di singoli, e vanno incoraggiati e sostenuti in ogni modo, ma quando si parla su un piano sociale e politico, e su quel piano si intende operare per modificare strutturalmente la realtà, allora bisogna tener presente che dalla carità e dalla condivisione non viene che un riscatto assai precario, mai veramente tale, e comunque fonte di quell’ambiguo sentimento che si instaura tra chi riceve senza poter dare e chi dà senza aver bisogno di ricevere. Un sentimento questo, peraltro, che in nulla contribuisce al formarsi di un sano vincolo sociale e civile che è premessa per ogni sviluppo duraturo, perché nel fondo tale sentimento reca in sé l’oscura consapevolezza – tante cose sa il cuore umano, anche il più semplice, che la ragione non sa – del carattere paternalistico e autoritario del discorso che esorta alla carità e alla condivisione, e dell’impostazione pauperistica che lo ispira e lo sorregge. Perché in effetti nel discorso pauperistico – tendente a fare dell’altro, ossia del ricco, la causa della povertà del povero, il quale, titolare di un’innocenza quasi presociale, è di per sé non responsabile della propria condizione – il povero è necessario e non può scomparire, poiché deve continuare a essere il destinatario di quella carità nel cui esercizio un’altra anima si salva; così come è necessario il ricco, che simmetricamente è il destinatario di una condanna o quanto meno di una diffidenza morale che in chi la esercita spurga e sgrava l’anima, e magari la salva (fosse pure quella dello stesso ricco che fustiga la propria ricchezza). E così nel discorso pauperistico, al di là delle intenzioni esplicite, la situazione tende idealmente a perpetuare sé stessa, sotto lo sguardo dell’autorità che esorta alla carità ed esecra la ricchezza.
Ci sarebbe insomma piaciuto sentire non la rampogna contro lo sfruttamento, che sempre ha in chi è sfruttato una parte di responsabilità o una sorta di tragica ineluttabilità storica che prelude comunque al riscatto dello sfruttato, ma un richiamo alla condanna biblica del lavoro. E soprattutto al lavoro della terra, così desolantemente abbandonata in tanti paesi dell’Africa subsahariana e del Corno d’Africa, dal Ciad al Centrafrica, dalla Somalia fino al Kenia. Al punto che le desertificazioni che avanzano non sono la causa dell’abbandono dell’agricoltura bensì il suo effetto. Il lavoro della terra è la prima ed essenziale forma di riscatto dalla povertà profonda: l’uomo coltiva la terra e la terra coltiva l’uomo, dicevano una volta i nostri contadini. E naturalmente ci si deve riferire al lavoro vero, a quello che si ‘crea’, perché se ne creano le premesse e se ne sentono individualmente e collettivamente le esigenze a cui esso risponde, e non quello che si ‘dà’, com’è detto dal Papa nelle dichiarazioni riportate dall’ANSA. Quello, e non questo, è il lavoro che genera senso d’appartenenza a un luogo e conseguente amore per esso, così come genera, con il senso della proprietà, il sentimento di solidarietà e di responsabilità nei confronti delle generazioni passate e venture. Una famiglia senza proprietà è una vacua astrazione giuridica, diceva con cupo realismo ma profondo senso storico un grande giurista cattolico, Salvatore Satta, che ebbe una certa notorietà nei primi anni Settanta per le sue battaglie contro il divorzio e fu autore di un unico romanzo che è tra i capolavori della letteratura italiana del Novecento.
Come è ovvio, svolto adeguatamente il discorso condurrebbe ad affrontare concezioni della vita civile da cui, per formazione e convinzione, non ci meravigliamo che Francesco sia lontano (il pauperismo, anche nei suoi esiti estremi e mistici, è in effetti uno dei volti possibili del messaggio evangelico). Rimanendo però sul terreno di chi si preoccupa che la povertà possa essere vinta qui e ora, anche a prescindere dal sollievo che vi si può portare dall’esterno e che l’esperienza storica ha mostrato rimanere all’esterno, tra le questioni che si dovrebbero affrontare c’è quella delle élites, le quali in tante società africane hanno tragicamente fallito la sfida postcoloniale, nonché l’altra, che vi è connessa, del radicamento abortito di quelle classi borghesi che tanto penano a formarsi, o appena formate fuggono e per lo più proprio verso l’antico oppressore coloniale. Su un piano più generale inoltre, si dovrebbe mettere a fuoco la questione stessa della ricchezza e del suo esatto concetto, che appare così sfocato e persino sviante negli interventi di Papa Francesco. In proposito andrà almeno osservato, in prima approssimazione e con la rapidità che è qui opportuna, che essa non è, come risulta implicito nella dottrina da cui sono sorretti gli interventi papali, un quantum immutabile destinato a dover perpetuamente oscillare tra l’appropriazione dei più rapaci oppure l’equa condivisione da parte degli uomini di buona volontà, bensì un assai più complesso e sfumato punto ideale, nel quale in un rapporto mobile e organico si intrecciano lavoro, inventiva, cultura, iniziativa individuale e sostegno collettivo (affinché una miniera di smeraldi in Bolivia abbia il valore che ha, ci vuole la signora che nelle strade di Parigi o di Londra subisca la moda che le fa desiderare quelle colorate concrezioni quarzifere). Ricchezza non è certo quella del bandito che ha appena compiuto la sua rapina e vuol partecipare al banchetto al quale non ha contribuito; ricchezza autentica è quella delle nazioni, quale che sia la proporzione che di essa è o appare che sia nelle mani degli individui, ed è ricchezza in cui non si sottrae nulla, ma si dà e si ha bisogno di dare, perché essa è intrinsecamente espansiva di sé medesima (per prendere l’esempio di due colossali arricchimenti virtuosi degli anni recenti, non hanno sottratto ricchezza a nessuno la rivoluzione di Facebook o l’invenzione del Viagra). Ricchezza non è dunque un di per sé inerte possesso di denaro, che non bisogna adorare ma neppure demonizzare trattandosi di uno strumento simbolico di scambio (complesso e delicato, certo, ma nulla di più di questo), quanto piuttosto è ciò che esso rappresenta e che se non ci fosse renderebbe del tutto vano e sterile quel possesso.
Detto meglio e con maggior verità, la ricchezza autentica, che è poi quella che rende vive e dinamiche le società umane, non è solo rendita – la quale costituisce semmai una componente marginale per quanto necessaria in ogni economia sana – ma nel suo punto più alto ed espressivo di ciò che è umano nell’umano, è soprattutto slancio verso il nuovo e quel che ancora non c’è. Dunque, per continuare a esemplificare un po’ alla buona, ricchezza non è solo poter accedere a una TAC, ma attrezzare dei ricercatori ben motivati che si rompono la testa per escogitare sistemi diagnostici ancor più efficaci. Questa è ricchezza! Al contrario di quel che può credere una considerazione superficiale e piuttosto volgare, non è il conto in banca che dà accesso, per rimanere agli esempi appena fatti, alle comodità di Facebook o ai benefici del Viagra o alla diagnosi precoce di una TAC, ma sono queste realtà che una volta che si sia stati capaci di farle venire al mondo, nel circolare e farsi apprezzare si traducono simbolicamente in ciò che poi chiamiamo denaro. Per averne una dimostrazione intuitiva basti pensare a cosa servirebbe il denaro in un contesto in preda all’anarchia e alla povertà profonda come la Somalia: non servirebbe in effetti a nulla (come, sia detto tra parentesi, a nulla sono servite – se non ad arricchire e armare qualche ras locale – le immense risorse che l’Italia ha per decenni destinate alla Somalia, mostrando la sterilità, salvo che per i soggetti qui su indicati e qualche pseudo-imprenditore italiano, di ciò che si chiamava ipocritamente cooperazione allo sviluppo).
Si torna insomma all’ineludibile primato e alla responsabilità della politica, che dove latita non la si può suscitare né con l’evocazione di discutibilissime prospettive storiche (lo sfruttamento coloniale, che poi non è stato altro che uno degli infiniti episodi storici di conquista e sottomissione), né con rampognanti appelli alla carità e alla condivisione, che strutturalmente implicano e richiedono il mantenimento dell’esistente. L’autentica redenzione dalla povertà nei paesi visitati da Papa Francesco verrà, se e quando verrà, non dall’esterno, ché le piante di serra non reggono alle prime intemperie, ma dal vigore di nuove classi dirigenti che sappiano sottrarre le loro società alla micidiale alternativa tra feroci tirannidi o caos e guerra civile. E non c’è nulla di realisticamente più efficace a tale scopo che un po’ di ricchezza, poca o molta che sia, da difendere e da trasmettere ai propri figli per non vederli fuggire via.

Francia 2016: l’impasse

di Michele Marchi
Il drammatico 2015 della Francia, e in particolare della sua capitale, si è chiuso con l’ultimo atto elettorale prima delle elezioni presidenziali del 2017. Al termine del voto regionale del dicembre 2015, si è di fatto aperta la lunga campagna per scegliere l’inquilino dell’Eliseo. Sarà François Hollande a succedere a se stesso? O addirittura Hollande non si presenterà per un nuovo mandato? Si verificherà una nuova alternanza e il centro-destra riconquisterà la presidenza? E cosa dire delle possibilità di Marine Le Pen, ad oggi l’unica candidatura certa per l’appuntamento della primavera del 2017?
Obiettivo di questa breve nota non è quello di diffondersi in previsioni, utili soltanto per essere smentite e causare brutte figure a chi le ha avanzate. L’idea è quella di delineare un quadro il più possibile esaustivo della situazione politica francese, per fornire qualche spunto di riflessione utile ad interpretare l’evoluzione dei prossimi mesi.
Prima di tutto bisogna allora soffermarsi un attimo sulle regionali del 2015. C’era molta attesa anche perché si votava per la prima volta dopo la riforma che ha modificato in maniera sostanziale il quadro amministrativo, con una serie di accorpamenti che hanno portato le regioni da ventidue a tredici. Il verdetto è stato ambiguo, nel senso che nessuno dei tre principali soggetti politici, cioè PS, LR e FN, si è potuto attribuire la vittoria finale. In definitiva per tutte e tre le forze politiche il passaggio elettorale è stato caratterizzato da un bilancio in chiaroscuro.
Les Républicains di Sarkozy, che in tutte le regioni avevano stipulato accordi preelettorali con le forze centriste, hanno vinto le elezioni, ma non in maniera così netta come ci si attendeva. Se nel 2010 la destra post-gollista evitò la sconfitta totale mantenendo l’Alsazia, questa volta le regioni controllate sono sette su tredici. Ma non bisogna dimenticare che in tre di queste la vittoria è giunta con il concorso determinante del PS, che ha ritirato il proprio candidato dopo il primo turno, per evitare triangolari quasi certamente vincenti per il FN (questo è avvenuto nel Nord-Pas-de-Calais, in Provence-Alpes-Côte d’Azur e in Alsace-Champagne-Ardenne-Lorraine).
I socialisti hanno da un lato dovuto affrontare il voto sanzione nei confronti del presidente della Repubblica e del suo governo e dall’altro fare i conti con la frammentazione a sinistra, considerate le moltissime candidature ecologiste e della sinistra estrema. Solo gli appelli all’unità e alla desistenza tra il primo e il secondo turno hanno permesso al PS di salvare almeno la faccia, insieme a 5 regioni, un “bottino” comunque magro se confrontato con il 21 su 22 del 2010. Anche in questo caso, come per le altre elezioni locali durante la presidenza Hollande, il trend negativo del PS è stato confermato.
Mai come in questo caso però il proverbio dei “due litiganti con il terzo che gode” non è adatto a descrivere il quadro. Nel senso che il FN ha ottenuto un risultato storico, addirittura al secondo turno 700 mila voti in più rispetto al primo e 400 mila in più rispetto al record di Marine Le Pen al primo turno delle presidenziali 2012. Eppure questo exploit non è bastato per conquistare almeno una delle presidenze regionali. Inoltre l’aumento di quasi il 10% dei votanti tra il primo e il secondo turno, ha mostrato che il processo di normalisation operato da Marine Le Pen non è ancora completato. L’idea del barrage da opporre alla destra estrema da parte dei partiti “repubblicani” ha ancora una certa presa. Una parte consistente di francesi che al primo turno non si era recata a votare, ha optato per il voto al secondo, una volta valutate le reali possibilità di vittoria del Fn. Prima o poi il Front dovrà interrogarsi su una situazione che lo vede aumentare costantemente il seguito elettorale, senza avere un aumento proporzionale di peso negli incarichi istituzionali. Basti pensare che gli ottimi risultati ottenuti alle elezioni locali dell’ultimo triennio (comprese le recenti regionali), si sono concretizzati nell’elezione di alcuni sindaci e un po’ di membri delle assemblee locali. Allo stesso modo la classe politica nella sua completezza dovrà chiedersi fino a che punto si potrà sostenere un sistema che sembra virare verso una sorta di tripolarismo, ma che man...

Indice dei contenuti

  1. Rivista di Politica Gennaio-Marzo 2016
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Numero 1 Gennaio-Marzo 2016
  5. Materiali per una storia del pensiero politico italiano
  6. Notizie sugli autori
  7. Abstracts