Il libro invisibile di Pietro Citati
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Il libro invisibile di Pietro Citati

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Il libro invisibile di Pietro Citati

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Mezzo secolo di giornalismo letterario sulle pagine del "Corriere della Sera" e de "la Repubblica" in cui Pietro Citati, tra i più poliedrici e avvincenti scrittori italiani del nostro tempo, coltiva una personalissima storia della letteratura mondiale. Dagli autori italiani di cui fu collega e amico al groviglio di destini umani che è il romanzo ottocentesco; dalle irrazionali disarmonie che tormentano il Novecento alla desolazione in cui è precipitata la letteratura contemporanea. Un'analisi che si fa racconto, al punto che pare impossibile distinguere il Citati critico dal Citati narratore. Nasce così un ibrido: nei suoi articoli autore e opera sono protagonista e trama di un appassionante romanzo critico. Come quello su Fëdor Dostoevskij: un libro invisibile scritto sui quotidiani, per lettori comuni, vincendo la faticosa sfida contro l'anacronistico elitarismo di parte della critica accademica. Ed emergendo dal caos irrefrenabile del giornalismo culturale con una tragica, geniale, sublime monografia.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849857320

Parte prima

La critica letteraria, una rischiosa arte «di seconda mano»

È il più poliedrico e avvincente scrittore italiano dei nostri tempi. La sua penna non ha confini: abita ogni recesso della letteratura mondiale. Di cui coglie sui quotidiani da quasi mezzo secolo i misteri inesauribili, la natura fuggevole e cangiante, sbrogliando e ricucendo infinite tele romanzesche. Scandaglia vite e scompone testi, di ogni epoca e poetica, inabissandosi nello scheletro di genialità letterarie, per poi riemergere con incastri narrativi prima di lui inimmaginabili: autori e personaggi, romanzi e testi poetici vengono spogliati, sviscerati e ricostruiti (o meglio, riscritti) con un ineguagliabile impulso narrativo che invade con prepotenza lo scopo critico dei suoi articoli. Impossibile, dunque, distinguere il Citati critico dal Citati narratore: nelle sue pagine autore e opera divengono protagonista e trama di un inedito e appassionante romanzo critico.
Critico e narratore, narratore e critico: i piani si suggestionano l’un l’altro, si accostano e si confondono, concretandosi in virtuose e mai uggiose prose giornalistiche, dallo stile limpido e leggero anche quando, con incalzante ritmo poetico, l’intensità delle sue narrazioni tocca l’acme. Uno stile mai impenetrabile che sottrae peso ai rigidi accademismi e aderisce all’immediatezza della divulgazione giornalistico-culturale. Difatti, fare critica sulle pagine di un quotidiano è cosa ben diversa dallo scrivere saggi. Oltre a un linguaggio essenziale, che potrebbe abitare qualunque contesto della quotidianità, la carta stampata implica un differente approccio intellettuale: bisogna, spiega Citati,
essere ellittici, fingere di capire quando non si ha ancora capito. […] Proprio perché non si ha tempo e lo spazio è breve, la mente scopre analogie, tenta equivalenze, si è invasi da illuminazioni […] Il giornale dà un’alacrità e una velocità intellettuali, che il saggio e il libro non consentono1.
Tuttavia, non si piega mai alle canoniche esigenze del giornalismo e porta avanti la sua ardua “indagine” in lunghi e corposi articoli, mantenendo i tratti originali della propria espressività. Fatica fisica e mentale, ma anche gioco: «credo che sia il lavoro più divertente del mondo, che consiglio a tutti gli esseri umani»2. Un lavoro per certi versi rischioso, ma un rischio che piace ai suoi numerosi lettori:
La tentazione è sempre quella di andare lontano: in luoghi e tra culture che non conosco o conosco poco, e attorno a un libro leggere altre decine o centinaia di libri, formarmi una fragile competenza, e riaffiorare dopo qualche mese con un articolo dove il piacere di avere imparato coincide con il timore di dire sciocchezze. Perché la cultura di un recensore non ha radici molto profonde: è febbrile, improvvisata, lacunosa; minacciata dal tempo e dalla impazienza del redattore-capo, che vuole l’articolo per un giorno preciso. Sui temi che conosciamo profondamente, che abbiamo esplorato in ogni piega e ombra e recesso, si scrivono libri. Ma dove si perde, allora, il frivolo e luminoso piacere dell’improvvisazione3?
Un critico letterario è come se, fugacemente, improvvisamente e per alcuni tratti, si identificasse con l’autore e con i personaggi su cui s’intrattiene («egli è qualcuno che rinuncia a sé stesso e si trasforma in un altro»4); con i di volta in volta differenti elementi di un romanzo, un poema, un racconto, una poesia. Tutto per tentare di sradicare dalla materia primigenia la loro essenza, ciò che li rende interessanti e, in fondo, li fa esistere. Riacquisito il piglio critico, prosegue poi, pazientemente, il suo cammino, per levigare e conferire una nuova e personalissima forma alla materia originaria, a quel fitto e denso crocicchio di parole, rischiarate dalla luce delle innumerevoli letture che si porta dentro come un magazzino da cui attingere. Perché prima di essere uno scrittore, il critico è, imprescindibilmente, un lettore forte: «tutti i libri che ha letto o immaginato di leggere entrano in rapporto, formando una fittissima trama di riflessi reciproci»5.
Nasce così un ibrido: il testo con il suo autore, l’interpretazione del critico con la sua biblioteca mentale. Nel caso di Citati, l’ibrido è di un’eccezionalità rara nel panorama critico-letterario italiano. Oltre a suscitare nel lettore del quotidiano un notevole interesse per il testo, l’autore e la sua produzione letteraria, Citati è come se riscrivesse egli stesso l’opera. Non inconsapevolmente, non senza originalità. Si potrebbero, difatti, leggere in questa singolare chiave autobiografica alcune sue riflessioni a proposito dei classici e delle aspirazioni del critico:
Colto da un puerile desiderio di grandezza, qualche volta un critico letterario viene assalito dal desiderio di riscrivere un classico. Prende a caso, nei suoi scaffali, l’Odissea, o il Don Chisciotte, o il Faust II. Scompone l’opera che ha prescelto nei suoi elementi primi, come potrebbe disfare un tappeto, una stoffa, o un orologio, costringendola a rivelargli i suoi segreti più riposti. La ricostruisce lentamente, tessendo di nuovo le fila del tappeto, raccontando le avventure degli stessi personaggi, ricomponendo le immagini, rimontando le rotelle del grande orologio. Alla fine, la sua mano dispone negli scaffali della biblioteca una nuova Odissea, un nuovo Don Chisciotte, un nuovo Faust II, che niente sembra distinguere dagli originali. Eppure, quante altre cose insinua segretamente in questo libro immaginario6!
Per comprendere questa sua attività maieutica occorre considerare il lavoro che conduce chirurgicamente sul testo ma anche, non con minore accuratezza, sull’extra testo:
Guardando contro luce le parole di Omero, di Cervantes e di Goethe, egli racconta la loro vita, metà vera metà fantastica: studiando le loro biblioteche, ricostruisce le tradizioni che essi saccheggiarono con la felice incoscienza del genio: calcolando ogni eco, rintraccia la struttura che ogni libro si costruisce all’insaputa del proprio autore. Quindi narra i pensieri, le immagini, i presentimenti che gli uomini raccolsero nei secoli attorno all’Odissea, al Don Chisciotte, e al Faust II; e intreccia tutte queste cose l’una nell’altra, in modo che nel suo libro gli sguardi di Omero e di Goethe incontrino gli sguardi dei loro lettori7.
Il risultato sarà uno scritto «vero come un’opera scientifica e bugiardo come un figlio della variopinta immaginazione: illeggibile come un atto accademico e insinuante come un romanzo d’avventure; folto e gremito come l’elenco del telefono, e così arioso da permettere ad ognuno di riposarsi»8.
Tuttavia, nonostante l’acutezza delle sue interpretazioni, ovvero la corposità del suo esercizio ermeneutico, reso tale dagli innumerevoli sentieri tracciati a partire dal testo (la vita dell’autore, la sua formazione culturale, lo sguardo del lettore nei secoli, l’analisi di immagini, azioni e pensieri che abitano un’opera); nonostante ciò, appunto, il critico non è altro che una figura invisibile, un’entità inesistente e arbitraria. È lo stesso Citati a non avere un’idea considerevole della critica letteraria, definendola, perentoriamente, «un’arte di seconda mano, che deve tutto al tesoro irraggiungibile della letteratura»9:
Quando guarda in se stesso, un critico capisce di non possedere nulla di proprio. Egli non ha alcuna verità da rivelare al mondo, nessuna immagine di sé da confidare al lettore, nessuna terra della quale dire, come Robinson della sua isola, “questa è opera delle mie mani”. Tutto ciò che pensa e scrive ha centinaia di padri10.
Traendo nutrimento dagli autori di cui scrive, crea ragnatele di parole che si diramano e riconducono a un qualcosa di preesistente, quasi titanico, con cui vive in un logorante rapporto di sudditanza: il testo letterario. Un sistema che, seppur aperto a innumerevoli interpretazioni, mantiene un’autonomia da cui il critico viene svuotato nello stesso momento in cui la sua funzione ermeneutica si compie:
[…] la critica letteraria è un’arte che vive e fiorisce nella misura in cui si nega, si cancella e sparisce in un’altra arte. Aspira a diventare romanzo, racconto, ritratto psicologico, osservazione e meditazione morale, aforisma, allegoria, ricamo e costruzione simbolica, storia metaforica dell’universo11.
In questo senso potremmo dire che il critico letterario è un individuo estremamente altruista, che con liturgica abnegazione dedica i propri sforzi intellettivi a tutto ciò che non gli appartiene. E in quanto tale accetta di contenere in sé un caleidoscopio di immagini, una miriade di vite possibili, illimitate opportunità realizzabili:
Egli non...

Indice dei contenuti

  1. Il libro invisibile di Pietro Citati
  2. Colophon
  3. Parte prima
  4. Parte seconda
  5. La letteratura come arte delle connessioni
  6. Indice