La strage silenziosa
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Genova e i morti d'amianto, storia di una battaglia operaia

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La strage silenziosa

Genova e i morti d'amianto, storia di una battaglia operaia

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Prefazione di Ivano Bosco. Introduzione di Marco Imarisio: Il libro racconta la storia di una lunga battaglia operaia per ristabilire giustizia su un'amara realtà: la strage silenziosa dell'amianto a Genova. A partire dal 1994, in Liguria si sono ammalate di mesotelioma oltre 3.200 persone (più della metà nel capoluogo), ogni anno si aggiungono 130 nuovi malati e i decessi provocati dall'asbesto sono quasi 3.000. Nonostante questo, ad essere processati a Genova sono stati gli operai e non i veri responsabili. Tutto inizia nel 2008 quando un ex dipendente di un piccolo patronato autonomo denuncia un sistema di mazzette nel riconoscimento dei benefici previdenziali legati all'esposizione all'amianto. Da qui parte una inchiesta che durerà 10 anni con 1.400 avvisi di garanzia agli ex dipendenti delle principali fabbriche genovesi tra cui Ilva e Ansaldo Energia, la revoca di centinaia di pensioni e di migliaia di certificazioni di esposizione. Dall'inchiesta non emergerà nessuna "grande truffa", ma per invertire questo assunto e per ristabilire i diritti dei lavoratori, ci vorranno anni di manifestazioni e un esposto presentato nel 2014 da Cgil e Fiom alla Procura.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849857375
Categoria
Sociology

Capitolo 1

Meno lavoro e sempre più morti

RACCONTANO CHE I PRIMI ad ammalarsi furono i gatti. Colonie di felini randagi che d’inverno lasciavano l’immensa zona portuale e si rifugiavano nelle fabbriche, alla ricerca di cibo, calore e umanità. La loro era una presenza amica per gli operai degli stabilimenti Ansaldo, che nelle pause dalle lavorazioni, costantemente circondati dal frastuono e dalle esalazioni, davano loro da mangiare. Attirati dal tepore, ricordano alcuni testimoni, i mici si appoggiavano su strumenti che scandivano la vita degli operai: i materassini di amianto. Gli operai li adoperavano in modo continuativo nelle lavorazioni. Erano strumenti talmente familiari che, durante le pause o gli scioperi, vi si appoggiavano sopra, per riposarsi o anche per mangiare. Lì sopra, con un gesto tipico degli animali, i gatti si facevano le unghie.
La scena successiva di questo ricordo è un cupo presagio di morte. I gatti iniziarono ad ammalarsi. Dimagrivano, perdevano il pelo, avevano gli occhi cisposi. I lavoratori cominciarono a trovarli morti e, anche allora, tale era la disinformazione, nessuno di loro immaginò quale fosse la vera causa. Nessuno colse quel macabro avvertimento. C’era chi pensava fosse il veleno per topi e chi, addirittura, si spinse a pensare a un maniaco, un sadico che uccideva i gatti, per punire chi mostrava loro un po’ di affetto.
Questa testimonianza, insieme a tante altre, molte delle quali agli atti di diversi processi, è tra quelle raccolte in questo libro. È un racconto che sembra uscito dalla penna di Don DeLillo, ambientato in una città, la Genova degli anni Sessanta e Settanta, che potrebbe tranquillamente essere una delle metropoli dell’America profonda descritta dallo scrittore: nel pieno dell’industrializzazione ed eppure già all’alba di un’incerta postindustrializzazione; nel contesto di un Paese ansioso di lasciarsi alle spalle i fantasmi della guerra, ebbro di progresso e di crescita economica, ma al tempo stesso avviato in una corsa senza soste, dove i dubbi o le domande, sulle conseguenze di alcune pratiche, non sono consentiti. Un affresco in chiaroscuro, dove ciò che oggi dà lavoro e una vita migliore è anche ciò che un domani darà la morte.
Era un altro mondo, una città che si espandeva a macchia d’olio, e nel tentativo di superare l’emergenza casa, si ricopriva di cemento. La Genova del lavoro, delle fabbriche, del triangolo industriale, arrivò a contare quasi 900 mila abitanti e sognava di raggiungere quota 2 milioni. Non si immaginavano, gli urbanisti d’allora, che l’approdo finale, quarant’anni più tardi, sarebbe stato quello di 590mila abitanti, una delle popolazioni più anziane in Europa e una crisi generale del lavoro che sembra non conoscere fine.
C’è una fotografia che vale la pena richiamare, un affresco che descrive in modo potente quel clima di sviluppo al tempo stesso euforico e caotico, visionario e contraddittorio. È una copertina della Domenica del Corriere, una di quelle tavole disegnate che raccontavano un pezzo di questo Paese. Il disegno rappresenta l’ultima opera dell’ingegner Riccardo Morandi, considerato all’epoca (e da qualcuno ancora oggi) il più grande ingegnere italiano del Novecento: un ponte maestoso, che attraversa il torrente Polcevera, un’infrastruttura avanguardistica per l’epoca, in grado di connettere l’est con l’ovest, il porto di Genova con l’Italia del Nord, la porta per collegare l’Italia con la Francia. Il viadotto attraversa il torrente Polcevera e sovrasta il cuore industriale dove si sviluppano gran parte dei fatti raccontati in questo libro. Non è semplicemente un ponte, ma una visione: la sua struttura è quasi più architettonica che ingegneristica, non vuole solo essere utile ma anche stupire. La sua particolarità è di essere sorretto dall’alto da elementi diagonali che vengono definiti stralli, tiranti con un’anima in metallo e una copertura in cemento precompresso, materiale di cui lo stesso Morandi ha registrato un brevetto. Nessuno, allora, poteva lontanamente immaginare che un giorno sarebbe potuto crollare su se stesso. Basta guardare quella copertina, le foto degli operai che lavorano in sospensione, la parata governativa che lo inaugurò nel 1967, le utilitarie che si riversano su quel ponte come su una simbolica strada di progresso destinato a non sgretolarsi mai.
Come sia andata a finire, oggi, è tristemente noto: il crollo del ponte, il 14 agosto del 2018, provoca 43 vittime, al tempo stesso il più grande disastro civile del Dopoguerra italiano e anche una tristissima strage sul lavoro. Tra i morti, infatti, non c’erano solo turisti, ma anche pendolari che andavano al lavoro e persino precari che avevano sostituito i colleghi, alla vigilia di Ferragosto, nell’isola ecologica sotto i piloni. Non è esagerato dire che il senso di sgomento provocato dal cedimento di quell’opera, così maestosa e così fragile, è accresciuto anche dal fallimento o quantomeno dalla fine simbolica di quell’industrializzazione e della successiva incapacità di mantenerla e riammodernarla. Nessun progettista oggi ricostruirebbe un’infrastruttura con quei materiali e con quel disegno, che messi insieme verrebbero considerati alla stregua di una follia. Naturalmente, sarebbe fuorviante attribuire il disastro al suo progettista: sulle responsabilità, ben più recenti e probabilmente collegate alla manutenzione, indagherà la magistratura. Il punto, che rende particolarmente simbolica questa vicenda, è che occorre fare in conti con il nostro passato recente: l’Italia in cui si costruiva il Ponte Morandi, con i suoi stralli in metallo e cemento precompresso, era la stessa in cui nelle fabbriche si faceva abbondante uso di amianto.
L’amianto è un componente presente in natura, che è stato molto utilizzato nell’industria a partire dai primi del Novecento. È versatile, a basso costo e molto resistente, al calore, al fuoco, agli agenti chimici, all’usura, può essere utilizzato come isolante termico e per il rumore. Ciò che è alla base delle sue proprietà tecnologiche, la sua fibrosità, è anche all’origine delle gravi patologie che è in grado di provocare. È costituito da fibre sottilissime, che possono diventare letali se inalate. In un centimetro lineare si possono affiancare 250 capelli umani, 1.300 fibre di nylon o 335 mila fibre di amianto. La malattia più nota, con cui c’è una correlazione diretta, è il mesotelioma maligno. Un male incurabile, la sopravvivenza media dalla diagnosi è di poco superiore agli 8 mesi. A 5 anni è al di sotto del 20 per cento nella fascia di età compresa tra i 45 ed i 54 anni, diminuendo in maniera netta con l’aumentare dell’età. A rendere questo materiale particolarmente insidioso, è il tempo di latenza della malattia: può manifestarsi tra i 15 e i 50 anni dall’esposizione, ma raramente lo fa prima di 25 anni. Un elemento che ha avuto un forte peso nella difficoltà di circoscrivere il nesso di causalità tra alcune condotte scellerate e le successive morti. Il mesotelioma è il morbo più noto, ma non l’unico. Altre malattie fra le più conosciute, segnalate da diversi studi, sono l’asbestosi, tumori in altre parti del corpo e, in particolare, il carcinoma polmonare; fra le possibili cause di questa patologia ci sono infatti anche altri fattori ambientali, fra cui il fumo delle sigarette; ma la fibra d’amianto ha l’effetto di accrescere in modo esponenziale il rischio. La scoperta della nocività della sostanza non è recente. Nonostante ciò, alcuni tra i Paesi più evoluti sulla legislazione ambientale hanno cominciato a varare piani di superamento solo a partire dagli anni Ottanta.
Un punto importante da fissare è che in quel lasso di tempo, tante industrie, pubbliche e private, hanno ricavato lauti profitti dal suo utilizzo. Senza tenere in considerazione il rischio a cui venivano esposti i lavoratori. Nel processo Eternit, alcuni testimoni hanno raccontato di come un volantino aziendale degli anni Settanta, visto il rischio di sviluppare tumori per colpa dell’amianto, invitasse a smettere di fumare. Per restare invece ai confini di Genova, in questo libro è riportato un documento interno di Ansaldo, in cui tutti i riferimenti alla fibra d’amianto sono stati letteralmente «sbianchettati» e sostituiti a penna con la più rassicurante lana di vetro.
È un fatto incontrovertibile – scrive in una relazione del 2000 Rosaria Carcassi, esperta di amianto della Azienda sanitaria 3 Liguria – che prima del 1983 la quasi totalità degli interventi su amianto avvenisse in Italia con altissimo rischio per gli stessi addetti che lo manipolavano e per quanti si trovassero nelle vicinanze (allo stesso piano di un caseggiato, sopra o sotto un impianto chimico, sulla stessa nave, ecc.). Certamente la comunità scientifica aveva lanciato qualche allarme ben prima – la conoscenza “scientifica” della cancerogenicità dell’amianto sul polmone data dagli anni Trenta – ma tali conoscenze hanno stentato per 50 anni a indurre un processo di regolamentazione.
Il caso Genova, e l’idea di questo libro, nascono da una duplice condizione. Da un lato, come vedremo, i dati collocano il capoluogo ligure e più in generale la Liguria, per via del lascito delle sue industrie, fra le aree più colpite del Paese da malattie dovute all’amianto, con una media quattro volte superiore a quella italiana. Tuttavia, mentre a Torino, Milano, Trieste, Taranto, solo per citare alcuni casi, a finire sul banco degli imputati (con alterne fortune) sono stati i presunti responsabili delle cattive pratiche industriali, a Genova, negli anni in cui forse si poteva ancora fare seriamente qualcosa, fra il 2004 e il 2014 l’unica inchiesta portata a termine è stata quella a carico di oltre 1.400 lavoratori, accusati di truffa. Secondo un’interpretazione accusatoria, ebbero consapevolmente accesso a benefici pensionistici legati all’esposizione all’asbesto a cui non avevano diritto. In realtà, come si vedrà, sono davvero stati esposti alla fibra killer. C’è anche chi, dopo essere stato indagato, si è ammalato ed è morto. Per questo, alcuni dei testimoni intervistati in questo libro, hanno definito questa vicenda «un’indagine al contrario». Un modo per dire che – ancorché nessuno escluda l’esistenza in assoluto di abusi, perlopiù casi isolati, e di pratiche dubbie (la cui responsabilità, come vedremo, era forse da ricercare più in alto che in basso) – è come se a un certo punto in questa vicenda sia stata smarrita la stella polare: l’amianto c’era sul serio e la gente si è ammalata, e continua ad ammalarsi, per davvero.
Una ricostruzione più realistica di quella che è a tutti gli effetti una strage «silenziosa», ignorata per anni dalle indagini penali, ha cominciato a emergere dalle cause civili, intentate dalle famiglie delle vittime. Solo alla fine di questo percorso, un nuovo procuratore, Michele Di Lecce, che ha dedicato buona parte della carriera a questi temi, ha avocato a sé circa 450 fascicoli frammentati, dispersi, dimenticati, rimasti fino ad allora sostanzialmente fermi. Un input fondamentale per l’apertura di questa inchiesta è arrivato grazie ad una sorta di controinchiesta dei lavoratori, e da un circostanziato esposto della CGIL e della FIOM, che hanno portato a individuare centinaia di casi.
C’è un dato numerico da tenere presente leggendo questo libro: dal 1994 a oggi, a Genova e in Liguria (principalmente a Savona e La Spezia), i malati di mesotelioma sono stati oltre 3.000. Il tasso di mortalità registrato è del 95,7%. Non solo lavoratori, ma anche tante donne, spesso le mogli che quotidianamente lavavano le tute da cantiere. Questo è il fatto statistico su cui interrogarsi per provare a capire perché in un luogo in cui l’incidenza delle vittime e il numero di malati da amianto sono tra i più alti d’Italia siano finiti sotto inchiesta non le cause di malattie ed i decessi, ma presunti abusi nel riconoscimento dell’esposizione al rischio; non i capitani d’industria, che si sono arricchiti con quelle produzioni, ma la manovalanza, che è stata esposta per anni alla fibra cancerogena. In una devastante inchiesta durata dieci anni, intermezzata da oltre cinquanta manifestazioni sindacali, e da una fortissima pressione mediatica, sbilanciata in quel momento sulla narrazione offerta dall’ipotesi accusatoria di quell’inchiesta. «Truffatori», in alcuni casi malati e morti durante l’inchiesta con l’assurdo parallelo dei cortei di protesta e della partecipazione ai funerali delle vittime come ricorda Armando Palombo, rappresentante FIOM CGIL della RSU dell’Ilva.
Questo numero di vittime è in ogni caso una stima al ribasso, perché i medici, inevitabilmente, non possono tenere conto di altri tumori, cosiddetti multifattoriali, per i quali l’esposizione all’amianto aumenta sensibilmente il rischio, una circostanza ormai riconosciuta dalla giurisprudenza civilistica. Si tratta di vittime ancora senza giustizia perché non ci sono state indagini concrete sulle cause e sui luoghi di queste malattie e decessi. E, nonostante il cambio di rotta relativamente recente, è una strada ancora tutta da percorrere quella per arrivare a un processo.
Questo libro non vuole essere una celebrazione, ma un tentativo di ricerca della verità, senza la quale non può mai esserci giustizia. La cronaca di una lotta ancora in corso e di un’azione giudiziaria che, a oggi, ha trascurato per anni quello che altrove è stato considerato l’obiettivo principale: le responsabilità della contaminazione che ha colpito migliaia di lavoratori.
Secondo i dati del RENAM (Registro nazionale dei mesoteliomi), in Liguria si registrano ogni anno mediamente 130 nuovi casi di mesotelioma. La Liguria pesa per il 3% della popolazione lavorativa dell’intero Paese, eppure concentra ben il 15% di tutti i casi di mesotelioma in Italia.
Queste vittime – come molte altre morti sul lavoro – fanno meno rumore di altre. I tempi lunghi della manifestazione della malattia, fino a 50 anni dall’esposizione, spiega forse in parte la scarsa attenzione al problema. Le vittime liguri sono distribuite in una realtà variegata di aziende grandi e piccole. Secondo l’ONA (Osservatorio nazionale amianto), presieduto dall’avvocato Ezio Bonanni, in Italia ci sono ancora «40 mila tonnellate di materiale con amianto sparse ovunque e per i suoi effetti si continuerà a morire per i prossimi 130 anni».
All’ex Italsider (poi Ilva) di Genova un accordo deve a tutt’oggi essere reso operativo per bonificare la vecchia centrale elettrica dismessa (nel 2005) nell’area a caldo con centinaia di tonnellate di amianto. Da qui bisogna partire, dalle vittime, dai lavoratori «sani», che sanno di correre il rischio di trovarsi dopo anni «il gancetto di una fibra agganciata all’alveolo di un polmone». È vero che – come rileva Valerio Gennaro, epidemiologo dell’Istituto sanitario dei Tumori e responsabile ligure del Registro nazionale dei mesoteliomi – «per fortuna non tutti gli esposti all’amianto si ammalano o muoiono; ma è altrettanto vero che tutti i morti registrati per mesotelioma sono stati provocati dall’amianto».
Tra le interviste più significative raccolte, c’è quella di Giuseppe Guastamacchia1, ex lavoratore Ansaldo spirato mentre questo libro era in lavorazione: «Dopo sedici anni dalla pensione c’è stato questo incidente [la malattia, N.d.R.] … Adesso vivo di speranza…».
Questo libro è dedicato anche a lui.
E a tutte quelle vittime di una città con sempre meno lavoro e meno industrie, e sempre più malattie e processi.

La «gola profonda»

Tutto inizia quasi per caso. Sono le 20.30 del 20 dicembre del 2006. Negli uffici del commissariato di San Fruttuoso si presenta uno strano personaggio. Si chiama Roberto Piaggio, è accompagnato dalla moglie, e dice di essere molto spaventato. Si è rivolto ai poliziotti perché ha paura di un creditore che non gli dà tregua, lo è andato a cercare in casa in modo insistente, al punto che, adesso, teme per la propria incolumità. Chi è e cosa fa quest’uomo?
Quando comincia a raccontare gli agenti capiscono di essere di fronte a una storia più grande di loro. Piaggio lavora per un patronato cattolico chiamato ACAI, che ha sede nel centro di Genova. Per oltre due anni, dice, fra il 2003 e il 2005, ha falsificato sistematicamente certificati di esposizione all’amianto. A ogni persona, spiega, chiedeva dai 1.000 ai 3 mila euro, soldi che sarebbero andati a ungere gli ingranaggi di una complessa catena di funzionari responsabili delle certificazioni: «L’artificio prospettato e attuato è consistito nell’ottenere dalla direzione dello stabilimento Fincantieri di Genova Sestri delle false attestazioni recanti periodi lavorativi in settori a contatto con l’amianto che poi faceva approvare dall’ente previdenziale riuscendo così a fare ottenere ai correi periodi pensionistici».
Quanto è esteso questo traffico, gli domandano i poliziotti? In tre anni, sostiene il testimone, avrebbe aiutato in modo indebito una trentina di lavoratori. Tutto è filato liscio finché uno dei clienti di Piaggio, dopo aver pagato e non aver ottenuto il trattamento pensionistico promesso, è andato a minacciarlo, nel tentativo di farsi ridare indietro il denaro.
Piaggio cerca protezione e, forse, non si rende nemmeno conto della reale portata delle...

Indice dei contenuti

  1. La strage silenziosa
  2. Colophon
  3. Prefazione di Ivano Bosco
  4. Introduzione di Marco Imarisio
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Conclusioni
  10. Note
  11. Indice