L'ordine di Babele
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L'ordine di Babele

Le culture tra pluralismo e identità

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L'ordine di Babele

Le culture tra pluralismo e identità

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I sei capitoli di questo libro vertono su temi di scottante attualità: l'identità e il pluralismo culturale; il dialogo tra differenti culture; il rapporto tra pluralismo, democrazia e verità; la religione e la ricerca di un'identità aperta, non aggressiva, ma nemmeno remissiva; il realismo e l'utopia in una società secolare e, infine, il tema della città. Il filo rosso che li tiene insieme, sullo sfondo della crisi dell'identità europea, è rappresentato da un ideale antropologico universale, che si esprime soprattutto come trascendenza e come linguaggio. La pluralità delle lingue, al pari della pluralità delle culture, questa la tesi che ricorre in tutti i capitoli del libro, rappresenta una grande opportunità per arricchirsi reciprocamente, non un limite o la conseguenza di un peccato. È perché gli abitanti di Babele hanno deciso di sacralizzare la loro lingua che Iddio li punisce, ristabilendo l'antico ordine, ossia la pluralità. È questo L'ordine di Babele.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788849854008
Categoria
Sociologia

1.
Persona, cultura, culture: la Babele delle lingue come risorsa

NON C’È CULTURA SENZA ESSERI UMANI, ma dove ci sono esseri umani c’è necessariamente cultura. Tutto ciò che gli uomini fanno – mangiare, bere, accoppiarsi, parlare, lavorare, costruire, creare un’opera d’arte; tutto ha, più o meno esplicitamente, una dimensione culturale, diciamo pure, una dimensione simbolica1. E questo, detto un po’ bruscamente, è per via della trascendenza dell’uomo, del fatto cioè che gli uomini hanno una natura sui generis, sono insomma persone.
Ma che cosa significa questa «trascendenza», questo «essere persona»? Si tratta, come è noto, di una delle questioni più intricate e controverse della nostra cultura filosofica e che non pretendo certo di trattare in modo adeguato in questa sede. Mi limiterò pertanto ad abbozzarne alcuni aspetti, almeno per quel tanto che ritengo possa essere utile a inquadrare il discorso sulla natura culturale, simbolica, linguistica dell’uomo che svilupperò più avanti. Con un’espressione molto bella che mutuo da Hannah Arendt, direi che essere persona coincide con «il vivere come distinto e come unico essendo fra uguali» (Arendt 1964, 188). E questo non soltanto perché, pur appartenendo tutti alla stessa specie, il nostro volto, la nostra corporeità hanno sembianze diverse da individuo a individuo, ma per ragioni che hanno a che fare soprattutto con la nostra interiorità e la nostra capacità di riflessione, di linguaggio e di azione. Il nostro «essere altro» rispetto alle cose che ci circondano, così come il nostro «essere distinti» rispetto agli altri esseri viventi diventano in noi «unicità» e la pluralità umana si configura come «la pluralità paradossale di esseri unici» (Arendt 1964, 186). Come dice Robert Spaemann, «se noi definiamo determinati individui come “persone”, non lo facciamo nella misura in cui essi appartengono a una determinata classe o in quanto istantaneizzazioni di un concetto generale. Piuttosto con questo termine noi intendiamo il fatto che essi, rispetto a ciò che sono, si comportano, con la classe o la specie a cui appartengono, diversamente da come si comportano gli elementi normali di una classe con questa loro classe, cioè facendone parte. Le persone appartengono sempre a una specie naturale, ma vi appartengono diversamente dal modo in cui gli altri individui appartengono alla loro specie» (Spaemann 2005, 18-19).
Con i nostri corpi, con le nostre azioni e i nostri discorsi noi ci distinguiamo, anziché essere meramente distinti, e tuttavia eccediamo costantemente anche ciò che di noi stessi diamo a vedere; il rapporto che abbiamo con noi stessi non è mai totalmente trasparente; l’estraneo, prima ancora di essere fuori, è dentro di noi2. In tutto ciò che diciamo e pensiamo c’è qualcosa che ci sfugge, che è nostro ma anche altro, come se la natura delle nostre parole fosse quella di fissare le cose, ma anche di andare oltre. Lo stesso rapporto che abbiamo con il nostro corpo è ambivalente; da un lato sentiamo di essere il nostro corpo, dall’altro sentiamo di avere un corpo; sperimentiamo insomma una sorta di strutturale eccentricità rispetto a noi stessi, di irriducibilità al nostro aspetto fisico o alla nostra stessa biografia; tanto è vero che a chi ci domanda «chi sei?» rispondiamo in genere dicendo semplicemente il nostro nome e cognome, non certo mostrando la nostra fotografia o mettendoci a raccontare la nostra storia; d’altra parte tutto questo lo sa bene anche colui che ci pone la domanda, visto che è appunto una «persona» come noi. Quando domandiamo a qualcuno «chi sei» diamo sempre per scontato di ricevere una risposta approssimativa; vogliamo identificare colui che abbiamo di fronte, ben sapendo che ciò che egli è, come del resto ciò che io sono, sfuggono a qualsiasi determinazione che voglia essere esaustiva.
Il nostro vivere «come distinto e come unico tra uguali» implica dunque che anche il rapporto che abbiamo con noi stessi sia spesso opaco; la domanda «chi sono io?» non è meno difficile della domanda «chi sei tu?»; qualche volta ci accorgiamo persino che gli altri, per esempio nostra madre, ci conoscono molto di più di quanto ci conosciamo noi; per non dire dei momenti di insoddisfazione che proviamo nei confronti di noi stessi, dei desideri di cambiare, di diventare un altro. Tutto ciò potrebbe far pensare al vano desiderio di saltare sulla nostra ombra; ma in realtà esprime lo stato normale del nostro «io», il quale, contrariamente a quanto ritiene una parte considerevole del pensiero moderno e contemporaneo, recita sì volta a volta un ruolo, ma non è mai soltanto il ruolo che volta a volta recita, pensa e ha coscienza, senza essere semplicemente pensiero e coscienza. Siamo insomma persone perché siamo eccentrici; sentiamo che ciò che siamo, il nostro «io», dipende dalla «natura», se così si può dire, ossia dall’equipaggiamento genetico col quale siamo venuti al mondo, ma anche dagli altri, dalla famiglia e dalla città nelle quali siamo nati, dall’educazione che abbiamo avuto, dalle persone che abbiamo incontrato; solo successivamente intervengono, seppure in modo decisivo, la nostra intelligenza e la nostra volontà. Siamo «persone», poiché in ultimo siamo noi a sceglierci la «maschera» con la quale vogliamo apparire nel mondo. Hannah Arendt direbbe che proprio questo «elemento di scelta deliberata intorno a ciò che si mostra e si nasconde sembra specificamente umano» (Arendt 1964, 115); ed è per questo che il mondo umano, la polis, si configura come «lo spazio della presenza, nel più vasto senso della parola, lo spazio, cioè, dove io appaio agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate ma fanno la loro apparizione esplicitamente» (Arendt 1964, 211).
Questo elemento di «scelta deliberata» in ordine al nostro apparire nel mondo non vuol dire che «chi siamo», ossia la realtà della nostra persona, sia qualcosa che si trova, per così dire, totalmente sotto il nostro controllo. Lo spazio della presenza, lo spazio dove agiscono le persone, è uno spazio imprevedibile e, sebbene siamo noi a scegliere la maschera con la quale presentarci agli altri, la rivelazione di «chi si è» «quasi mai è realizzata da un proposito intenzionale, come se si possedesse questo “chi” e si potesse disporne allo stesso modo in cui si hanno le sue qualità e si può disporne» (Arendt 1964, 190). Come dice in modo mirabile Robert Spaemann, «L’identità di un uomo è per un verso quella di una cosa naturale, di un organismo. In quanto tale è identificabile in ogni momento dall’esterno. Tuttavia, per altro verso, questa identità naturale di base contiene soltanto un’anticipazione del cammino di ricerca dell’identità, che allo stesso tempo ha il carattere di una fondazione dell’identità medesima. La persona non è il risultato di questa fondazione, non la fine di questo cammino, ma il cammino stesso, la totalità di una biografia, la cui identità di base per parte sua è consolidata biologicamente. Le persone non sono ruoli, ma esse sono ciò che sono soltanto quando giocano un ruolo, il che significa animando in qualche modo uno stile» (Spaemann 2005, 82)3.
È per questo che le persone, è sempre Spaemann a sottolinearlo, «sono individui in un senso incomparabile» (Spaemann 2005, 5). Essendo qualcuno e non qualcosa, la persona trascende costantemente le condizioni biologiche o socio-culturali della sua esistenza; è irriducibile a queste condizioni; è persona, non perché ha determinate caratteristiche, poniamo, perché è intelligente, capace di intendere e di volere o perché è capace di assolvere le normali funzioni tipiche dell’individuo appartenente alla specie umana; lo è semplicemente perché appartiene alla specie umana. «L’impiego del concetto di “persona” equivale a un atto di riconoscimento di determinati obblighi verso quanti sono definiti persone. La scelta di coloro che noi designiamo in questo modo dipende certo da determinate caratteristiche di specie definibili descrittivamente, alle quali la personalità è correlata, ma la personalità non è a sua volta una caratteristica di specie, bensì uno status, precisamente l’unico status che a nessuno viene conferito da altri, poiché esso spetta a ciascuno naturalmente» (Spaemann 2005, 19).

Natura e cultura

In quanto essere vivente, l’uomo non è dunque come gli altri animali; egli riflette su ciò che fa, parla, ha coscienza di ciò che fa, ha la capacità di dire «io», di essere qualcuno e non qualcosa, immerso in un mondo dove ci sono altri uomini; si configura insomma come un mix di natura e cultura. E poiché nessuno di questi termini si dà in forma «pura», un’antropologia che voglia essere davvero adeguata alla realtà dovrebbe interpretarli in modo relazionale, evitando sia la Scilla della netta separazione tra natura e cultura, sia la Cariddi della riduzione di un termine all’altro. Ne va in ultimo della salvaguardia del nostro «essere persone». Ma è esattamente questa conciliazione relazionale di natura e cultura che oggi sembra assai difficile da operare.
Da un lato, infatti, un certo culturalismo esasperato sta letteralmente dissolvendo la natura in cultura, facendo della natura il semplice risultato dei diversi modi di guardarla. La natura è una «categoria sociale» diceva il filosofo marxista Gyorgy Lukacs (1885-1971); più che i naturali bisogni dell’uomo conta il modo con cui egli li interpreta e li soddisfa. Dall’altro lato, soprattutto nell’ambito delle cosiddette scienze naturali, stiamo assistendo a una sorta di radicale riconduzione ad unum, secondo un modello che definirei di tipo evoluzionistico-bio-cosmologico, il quale tanto più si avvicina alle cose (dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, dall’origine dell’universo al mistero della nascita della vita) e tanto più tende a risolvere tutto in una stessa natura, sottoposta alle medesime leggi. Si pensi al radicalismo di certi cosmologi, alla Hawking, i quali mirano a costruire niente meno che una «teoria quantistica della gravità», capace di mettere insieme teoria della relatività e meccanica quantistica e di offrire così una «teoria unificata completa» in grado di descrivere «ogni cosa dell’universo» e «presumibilmente di determinare anche le nostre azioni» (Hawking 1988, 25-26); oppure si pensi all’analogia biologica che domina la teoria dei sistemi sociali di Niklas Luhmann (Luhmann 1990).
Su questa strada bio-evoluzionistica ci si è spinti in effetti molto avanti. Non ci si limita più a concepire la società in analogia con un organismo vivente, secondo l’organicismo aristotelico o quello di Durkheim, tanto per fare due nomi significativi di una ricca tradizione; la società stessa, le forme socio-culturali vengono interpretate come esito ultimo di un processo di evoluzione biologica, dove il «gene» è stato affiancato da un motore evolutivo di tipo socio-culturale: il «meme». Freeman Dyson ha scritto in proposito pagine molto interessanti, la cui sintesi potrebbe essere la seguente: se per miliardi di anni il processo evolutivo è stato governato dai «geni», negli ultimi centomila anni, grazie all’homo sapiens e al suo linguaggio simbolico, abbiamo assistito alla comparsa dei «memi». Di conseguenza «i nostri modelli di comportamento sono ora in gran parte prodotti culturalmente, anziché essere determinati geneticamente» (Dyson 1989, 92). La cultura non è altro che l’ultimo stadio, lo stadio più elevato, dell’evoluzione biologica. Quanto all’uomo, egli non è altro che un derivato tecnologico, inventato da antiche comunità batteriche come strumento di sopravvivenza generica, che a sua volta potrebbe essere rimpiazzato da macchine (Gray 2003). Un po’ come nelle antiche civiltà arcaiche, tutto sembra insomma fondersi di nuovo con tutto: le stelle, gli alberi, gli animali e – perché no? – anche l’uomo e il suo mondo socio-culturale.
Tutto ciò rende quanto mai urgente una riflessione, la quale sappia ripristinare nella loro specificità e, al tempo stesso, riconciliare quelli che costituiscono, pressoché da sempre, i termini privilegiati del discorso filosofico: la natura e la ragione, la libertà e la storia. Non si può scindere la libertà dalle sue condizioni naturali o storico-sociali; allo stesso modo non si può immaginare un approccio alla natura che non trovi nella ragione, nella libertà, nella storia (concretamente unite, ma anche irriducibili l’una all’altra e quindi analiticamente separabili) il tramite, attraverso il quale la natura stessa, diciamo così, ci si schiude.
Se vogliamo evitare le secche del riduzionismo «culturalista» o di quello «naturalista», non abbiamo scelta: dobbiamo salvaguardare e riconciliare tutti i corni del dilemma. Per dirla con le parole di Giacomo Leopardi, «la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata» (Zibaldone, n. 22). Ma anche la ragione vuol essere illuminata dalla natura; anche la libertà e la storia illuminano e vogliono essere a loro volta illuminate dalla ragione e dalla natura. Nessuno di questi termini – libertà, ragione, natura, storia –, pur avendo ciascuno una sua irriducibile specificità, si trova insomma allo stato «puro».
Per motivi che in parte abbiamo già abbozzato, il discorso sulla natura dell’uomo, sul nostro essere persone, ci costringe a fare i conti con una eccentricità strutturale. La teleologia greca, per fare un esempio, trovava nell’uomo, non soltanto l’essere più perfetto, perché dotato di ragione, ma anche una sorta di zona d’ombra. A differenza di una ghianda, il cui telos la determina a diventare una quercia, l’uomo sembra infatti non avere un telos altrettanto ben definito; stando a Platone e Aristotele, il suo compimento dovrebbe consistere nel diventare un buon cittadino della polis oppure un buon filosofo, ma esiste pur sempre la consapevolezza, come avvertiva Aristotele (Politica, I, 2), di avere a che fare con un essere che sta a mezza strada tra la divinità e le bestie. In ogni caso, anziché prendere lo spunto da questa ambivalenza per cercare di capire qualcosa di più del telos dell’uomo, gran parte della filosofia moderna e contemporanea, come sappiamo, ha finito per accantonarne l’idea. La natura dell’uomo consiste in ultimo nella sua gratuita libertà, alla quale si possono certo porre dei «limiti», ma non certo perché questi siano da ritenersi conformi alla «natura umana», bensì semplicemente perché ci piace, ci è utile, ci troviamo d’accordo a farlo. Quanto al senso complessivo del mondo, oggi non si parla più di ordine o di teleologia, bensì di caos, caso o cose simili. Per usare una nota immagine weberiana, il mondo tende a configurarsi ormai come una «infinità priva di senso» (Weber 1958, 96). «The more the universe seems comprehensible, the more it also seems pointless»: così si esprime il cosmologo Steven Weinberg in un suo famoso libro (Weinberg 1977, 154).
Come questi atteggiamenti possano promuovere una riflessione non remissiva di fronte all’odierna tecnicizzazione del mondo e della vita umana è problema che qui non intendo affrontare. Né intendo affrontare l’insensatezza di quelle reazioni che tendono invece a una vera e propria demonizzazione di scienza e tecnica. Mi sembra tuttavia che proprio le sfide implicite nello sviluppo tecnologico stiano rimettendo in circolazione discorsi sull’uomo meno prometeici, meno culturalisti; discorsi che effettivamente ripropongono il tema di una natura, la quale, per il fatto di esprimersi in termini di libertà, quindi di cultura, non per questo cessa di essere «natura», quindi «limite», ma anche «fine», «telos», il cui rispetto soltanto può consentire all’uomo di essere ciò che egli è «per natura»4.
La moderna scienza della natura poggia in ultimo su una contrapposizione dualistica: quella tra uomo e natura, o, cartesianamente, tra res cogitans e res extensa. Ciò ha indubbiamente facilitato il dominio tecnico sulla natura che abbiamo conosciuto dai secoli moderni fino a oggi. Ma proprio la crescita esponenziale di tale dominio, il rischio che lo sviluppo scientifico-tecnologico diventi una sorta di fine in se stesso e la conseguente «crisi ecologica» ci obbligano ormai a rivedere il nostro armamentario concettuale. Chi più chi meno, tutti ci rendiamo conto che la nostra cultura non può continuare a considerare la natura un puro oggetto di dominio senza che questo dominio si rivolga in ultimo contro la stessa cultura, distruggendo entrambe. Non è un caso che oggi tanto si parli di salvaguardia del cosiddetto «ecosistema». Direi anzi che proprio la nozione di «ecosistema» potrebbe aiutarci, tra l’altro, a tematizzare l’essere umano (dall’inizio alla fine) non soltanto nel sistema delle «relazioni sociali», e quindi dei valori culturali, ma anche in riferimento alla sua naturalità. L’ecosistema è qualcosa che riconduce l’uomo a un ambiente (naturale e culturale) che non dipende da lui, sul quale egli influisce, ma ne è anche influenzato, rappresentando in un certo senso la condizione e quindi il condizionamento della sua vita e della sua libertà.
Come emerge in modo assai significativo nell’opera di Hans Jonas (Jonas 1990, Jonas 1988), la riflessione ecologica ripropone oggi in forma eclatante il senso della natura come «limite» della nostra libertà; un limite che ha in sé una dignità che non va calpestata. Hegelianamente potremmo dire che la cosiddetta «natura esterna» è certamente una natura «per noi», qualcosa di cui possiamo disporre per i nostri scopi; ma è anche «natura in sé», ossia qualcosa, il cui telos non si esaurisce nell’essere a nostra disposizione e che quindi, proprio per questo, chiede anche di essere rispettato. La riappropriazione dell’idea di una «natura umana» come «fine in sé», ossia come qualcosa di assolutamente indisponibile, più o meno nel senso in cui Kant diceva che occorre considerare l’uomo sempre come «fine» e mai come «mezzo», passa indubbiamente anche attraverso l’estensione di certi margini di non disponibilità anche alla «natura esterna». Parafrasando il titolo di un celebre scritto di Max Scheler, si potrebbe dire che dobbiamo riprendere consapevolezza del posto che l’uomo occupa nel cosmo.
La tanto declamata crisi della metafisica e della cosiddetta filosofia tradizionale ha lasciato invero un vuoto incolmabile nella cultura contemporanea. Venuti meno certi vincoli «naturali», abbiamo pensato che i discorsi sui valori, sulla morale o sull’etica potessero essere condotti guardando esclusivamente all’autonomia e alla libertà degli individui, come se la «natura umana» non esistesse o fosse in ultimo riducibile a libertà e autonomia. Nel frattempo, come ho già accennato, soprattutto sul piano delle scienze biologiche, si è andata sviluppando una concezione opposta, tendente a ridurre tutto l’umano, quindi anche l’intelligenza e la libertà, a formule biologiche. Ebbene trovo assai preoccupante e insieme curioso che, sul piano normativo, queste due opposte tendenze abbiano finito per produrre uno stesso esito: la mancanza di un valido criterio in grado di giustificare veramente il valore incondizionato, assoluto, della persona umana. Del resto un autore come Carl Schmitt lo aveva previsto: nel momento in cui la «dignità umana» viene scardinata dal contesto ontologico-metafisico tradizionale e diventa semplicemente un valore, anche se il più alto, proprio per questo essa rischia per rimanere vittima della logica intrinseca di ogni discorso sui valori: «rendere commensurabile l’incommensurabile» (Schmitt 1987, 29).
Si potrebbe dire che queste tendenze stanno ad indicare il fallimento di una ragione e di una natura che non sono più in grado di «illuminarsi» reciprocamente. Se poi aggiungiamo che siamo entrati ormai in una fase in cui anche il peso normativo delle consuetudini sociali ha preso a vacillare, ecco che lo scenario si presenta in tutta la sua inquietante problematicità. Non c’è più alcun limite; e nel frattempo continuiamo ad accrescere a tutti i livelli un potere tecnologico, la cui unica «misura» sembra essere soltant...

Indice dei contenuti

  1. L’ordine di Babele
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. 1. Persona, cultura, culture: la Babele delle lingue come risorsa
  6. 2. La traduzione linguistica come modello di dialogo interculturale
  7. 3. Verità, libertà e democrazia
  8. 4. Religione e identità
  9. 5. Il realismo politico e l’utopia oltre il secolarismo
  10. 6. La città rende ancora liberi
  11. Conclusione Prima e dopo Babele
  12. Bibliografia