Giovanni Amendola
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Una vita in difesa della libertà

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Una vita in difesa della libertà

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Nel volume viene ripercorsa la vita culturale e politica di Giovanni Amendola a partire dagli anni giovanili del periodo «romantico ». Collaboratore del «Leonardo» e de «La Voce» combatté la battaglia antipositivista avvicinandosi a Croce che offriva a quella «gioventù ribelle» un sistema completo di teoria della conoscenza. Completata la sua formazione al contatto con la filosofia classica tedesca, si avvicinò all'idealismo immanente fino a sviluppare una morale autonoma mutuata da Nietzsche. Passato al giornalismo professionista divenne uno dei più autorevoli commentatori politici da Roma per «Resto del Carlino» prima e del «Corriere delle Sera» poi. Comportatosi valorosamente in guerra come ufficiale di artiglieria, nel 1919 abbracciò la vita politica. Deputato della Democrazia Liberale si batté per riportare la crisi politico-sociale del paese nel quadro di una rinnovata vita democratica. Sottosegretario alle Finanze nel 1920, nel 1922 fu ministro delle Colonie nell'ultimo governo liberale. Rappresentante della nuova frontiera della «democrazia italiana» s'impegnò nella lotta antifascista ponendosi a capo della secessione parlamentare dell'Aventino nel tentativo di contrastare l'armatura totalitaria impressa dal regime. Fondatore del partito dell'Unione nazionale delle forze liberali e democratiche combatté il fascismo in nome di quella tradizione del Risorgimento in cui l'affermazione delle libertà civili e politiche erano definite come diritti dell'uomo e del cittadino nel quadro di uno Stato di diritto che si basava sul sistema parlamentare a salvaguardia del diritto delle minoranze. Più volte vittima della violenza politica, aggredito una prima volta a Roma nel 1923, subì a Montecatini il 20 luglio del 1925 l'ennesimo attentato che gli provocò gravissime ferite causa della morte sopraggiunta in esilio, il 7 aprile del 1926, a Cannes.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849858129
ELIO D’AURIA

Giovanni Amendola martire della libertà e della democrazia

La democrazia come la intendiamo in Occidente è quella forma dell’organizzazione sociale che riesce a conciliare la forza dello Stato con la legittimità popolare e l’autorità che promana dalle leggi con la libertà dei singoli individui1. Realizzazione recente, essa è stata esposta ad ogni sorta di pericoli che, in varie epoche, ne hanno fatto presagire la fine. In realtà, la democrazia è sopravvissuta alle potenti scosse di cui è stata oggetto nei poco più di due secoli di vita, nonostante le definizioni che di essa sono state date, da quelle che partivano dal liberalismo classico di ieri, sino a giungere al libertarismo di oggi e alle più recenti teorie sulla postdemocrazia. Tutte hanno dovuto convenire che quando si parla di democrazia va specificato il tipo di democrazia di cui si parla. Alla democrazia che, facendo proprie le regole del liberalismo, dà luogo alla democrazia-liberale, si contrappone il suo opposto: la democrazia totalitaria2. Si tratta di un confine molto sottile che va sottolineato per evitare il pericolo di una trasformazione del concetto di democrazia che di fatto segnerebbe la sua fine3.
Ma possono morire le democrazie?
Nel Novecento, secolo delle ideologie, il pericolo maggiore per le democrazie è stato il totalitarismo. Esso ha rappresentato l’insidia maggiore del primato democratico del governo della volontà generale liberamente espressa dai cittadini. L’insidia è consistita nel fatto che l’affermarsi della società di massa si è prestata a essere manipolata da agguerrite élites politiche, finalizzate a conseguire la conquista del potere. Questo male del XX secolo si affermò in alcuni Stati europei – in special modo in Russia, in Italia e in Germania, e successivamente anche in Spagna e in Portogallo – all’indomani della Prima guerra mondiale. Si aprì una stagione politica tumultuosa che spinse i partiti a radicalizzare le loro posizioni e che segnò la fine, segnatamente in Italia, delle istituzioni rappresentative della volontà generale che, nel sessantennio post-unitario, si erano consolidate attraverso la libera partecipazione alla discussione sui pubblici affari.
Chi usò per primo il termine totalitarismo, già nel maggio del 1923, definendone i caratteri e le dinamiche in senso moderno, fu Giovanni Amendola al tempo della battaglia politica apertasi in Italia nei mesi di trapasso dal liberalismo al fascismo. L’occasione fu la discussione fra le forze politiche in margine alla proposta del governo fascista di modifica della legge elettorale in senso maggioritario. Quella battaglia assunse, sin dall’inizio, i caratteri di una lotta per la sopravvivenza stessa delle libertà democratiche così come si erano venute costruendo dal momento dell’unità del Paese. In quelle circostanze Amendola aveva voluto richiamare la coscienza pubblica sul vero significato del fascismo e sui pericoli che si profilavano all’orizzonte circa la sopravvivenza di quelle libertà democratiche. «È bene che l’attenzione degli italiani si fissi con un po’ di calma su questo fenomeno: mentre il governo fascista sta considerando il sistema “maggioritario” che deve, sul terreno elettorale prendere il posto della proporzionale. Sistema “maggioritario”? Qualcuno che ha cercato di indovinarne i connotati […] ha proposto di chiamarlo invece sistema “minoritario”: noi […] incliniamo ad attribuire importanza anche maggiore alla realtà elettorale di tutte le domeniche, dubitiamo assai che non si debba finire per chiamarlo, con più verità, sistema totalitario»4. Il meccanismo era stato messo in atto dal governo in occasione di alcune elezioni suppletive di amministrazioni locali in vista dell’attuazione della nuova legge di riforma elettorale. Esso consisteva nel fatto che, con la connivenza tra il prefetto e il segretario politico fascista, si confezionava una lista di maggioranza composta da «tre quarti o quattro quinti o cinque sesti, o comunque si voglia, di lupi fascisti, e per la rimanente quota parte di fiduciose pecore non rognose»5 e da una lista di minoranza composta di candidati comunque favorevoli al governo. I cittadini liberi e indipendenti interessati a candidarsi venivano opportunamente diffidati, con le minacce o con la violenza fisica, di farsi includere in una qualsiasi altra lista diversa da quella governativa. In tal modo, con la conquista della maggioranza e della minoranza degli eletti, emergeva evidente «il paradosso di una maschera dittatoriale»6 che nascondeva un sistema all’apparenza democratico.
Nel clima insurrezionale aggravatosi nei mesi immediatamente precedenti l’avvento del fascismo, Amendola aveva più volte richiamato i principi generali che stavano alla base di una democrazia parlamentare. La costruzione di un moderno Stato di diritto rappresentava la «coscienza stessa dei cittadini» che si esprimeva «attraverso gli organi rappresentativi» e nella difesa delle sue leggi, le quali erano, a loro volta, espressione della volontà popolare chiamata a partecipare attivamente alla vita politica7. «Perché la democrazia in tutti i suoi anni di governo, esponendosi di volta in volta alle accuse di debolezza e di incapacità, o di tirannia e di sopraffazione, ha creduto […] che dalla libertà nasca il progresso civile della nazione; e può dimostrarlo, con l’evoluzione della monarchia costituzionale, con le garanzie della pubblica amministrazione, con la legislazione sociale, con la conquista del suffragio universale»8. La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica attraverso le elezioni tendeva a esprimere una maggioranza di governo che salvaguardasse il ruolo delle minoranze le quali avevano la speciale funzione di critica e di controllo dell’esercizio del potere. La condizione del funzionamento del sistema consisteva nella condivisione delle scelte che stavano a fondamento di un moderno Stato di diritto, così come era venuto delineandosi nel dibattito apertosi fra Sette-Ottocento, durante la lunga stagione di governi liberali in Inghilterra e nella prima metà dell’Ottocento in Francia negli anni della Restaurazione9.
Nel momento in cui il fascismo dichiarava che l’obiettivo del suo programma politico era quello di distruggere i partiti democratici e con essi lo Stato liberale come «mentalità e ideologia», per sostituirlo con un solo partito nazionale che proclamava la violenza delle squadre armate, Amendola riaffermò il diritto dello Stato di difendere i suoi cittadini. A differenza dei cedimenti di gran parte delle forze politiche che, venendo a compromessi con il fascismo, s’illudevano di poterlo «costituzionalizzare», volle riaffermare la sua fede nel processo democratico che per lui non era, «come per alcuni nostri colleghi, un’etichetta, una maschera, una delle quindici o venti coccarde che si portano in tasca, da levare o da mettere, a seconda che spiri un vento propizio o una tempesta contraria»10, ma un modello di convivenza civile che rivendicava «le funzioni e la sovranità dello Stato democratico» il quale, attraverso la coesione delle sue forze, difendeva le sue ragioni a salvaguardia della «salvezza dello Stato liberale»11. Contro la violenza come metodo di lotta politica fra partiti nazionali e antinazionali12, Amendola denunciò il proposito del partito fascista di «sovrapporsi e sostituirsi alla Stato». La denuncia che egli fece degli attentati e delle violenze era «contro l’autorità delle leggi, contro la carta fondamentale del regno, contro le pratiche espressioni e le stesse idealità ispiratrice del liberalismo e della democrazia»13. La pregiudiziale di legalità risuonava come la parola d’ordine per il funzionamento di una corretta dialettica politica attraverso la quale un partito poteva candidarsi all’esercizio del potere esclusivamente attraverso la via maestra del consenso elettorale. Per conferire forza morale e legittimità politica al consenso popolare attraverso le elezioni «bisogna rinunciare al metodo della violenza. O gli elettori o le squadre di azione. O il partito insurrezionale o il partito di governo. O il colpo di mano o il suffragio universale. A meno che non si aspiri, traverso il colpo di mano, a ottenere un simulacro di suffragio universale, che è la negazione della universalità e della libertà del suffragio»14. Lo svelare pubblicamente i soprusi commessi a giustificazione della sicurezza e dell’ordine diveniva l’imperativo categorico in nome del quale egli elevava a difesa della democrazia il principio che il corretto funzionamento nella direzione dei pubblici affari era espressione di una maggioranza del Paese contro minoranze violente. L’incapacità di reazione dello Stato contro gruppi armati rappresentava l’anticamera di una dittatura nazionale che era in contraddizione con quel governo nazionale che il fascismo proclamava di voler realizzare. «Si può concepire un governo nazionale, non una dittatura nazionale»15 la quale, con il pretesto di combattere il bolscevismo, giustificava l’obiettivo di instaurare una dittatura in Italia16.
L’aspetto più significativo della posizione di Amendola era la stretta connessione tra il concetto di Stato e quello di democrazia che egli legava con quella di Stato nazionale. Lo Stato di diritto coincideva con la democrazia parlamentare, ancor più in un momento in cui il sistema politico si stava trasformando in regime e nei confronti del quale «il silenzio significherebbe acquiescenza, e l’acquiescenza finirebbe per significare adesione» alle premesse della dittatura del partito unico17. L’appello alle diverse anime dei partiti della democrazia affinché serrassero le fila e non cedessero di fronte all’attacco di forze eversive di destra e di sinistra, aveva il chiaro significato dell’estremo tentativo di incanalare l’azione politica lungo le vie della legalità costituzionale. Nel momento in cui era diffusa la convinzione di una società civile non più in grado di esprimere una classe politica capace di interpretare i problemi del Paese perché indebolita dalla crisi economica e dal discredito in cui era caduto l’istituto parlamentare, Amendola faceva appello alla mediazione dei partiti, quali collettori delle istanze che salivano dal basso del sistema sociale, per trovare nella legittimità del Parlamento la loro composizione.
Il lento e continuo sgretolamento delle istituzioni rappresentative, la crisi economica e finanziaria, il ristagno della produzione industriale, lo svilimento del credito, lo svuotamento dei poteri centrali, la sedizione delle autorità locali, lo scadimento della legge e il prorompere di minoranze faziose non si potevano affrontare tollerando «usurpazioni e imposizioni da parte di nessuno: di singoli o di categoria, ormai assuefatti, volta a volta, con la imponenza del numero o con l’intimidatrice efficacia della violenza»18. Era una presa di posizione coraggiosa, questa di Amendola, nel momento in cui, nell’estate del 1922, il predominio della piazza esprimeva la volontà sovvertitrice dello Stato «che irride alle istituzioni dei sessanta anni di nostra risurre...

Indice dei contenuti

  1. Giovanni Amendola una vita in difesa della libertà
  2. Colophon
  3. Presentazione di Elio d’Auria
  4. Indirizzo di saluto di Gerardo Bianco
  5. Giovanni Amendola martire della libertà e della democrazia
  6. Gli studi universitari in Germania: Kant, Hegel, Schopenhauer e l’incontro con Croce
  7. L’ingresso nel giornalismo: la corrispondenza politica del «Resto del Carlino» e del «Corriere della Sera»
  8. L’impegno civile: la collaborazione di Amendola con le riviste fiorentine: «Il Leonardo» e «La Voce»
  9. Giovanni Amendola filosofo
  10. «Il Mondo» di Giovanni Amendola: una scuola di vita e di democrazia. Proprietà, formula giornalistica, eredità
  11. Giovanni Amendola e Gherardo Marone tra amicizia e impegno politico (Napoli 1919-1926)
  12. Giovanni Amendola ministro delle Colonie: «Lasciatemi solo davanti agli arabi»
  13. La situazione economica del primo dopoguerra
  14. Meuccio Ruini, Giovanni Amendola e il «partito democratico»
  15. L’analisi del fascismo in Giovanni Amendola
  16. Amendola, la riforma della politica, l’idea di partito e la formazione di una «nuova classe dirigente» (1919-1925)
  17. Giovanni Amendola e la «Nuova democrazia»
  18. Indice