Calabria Citeriore
Via da Policoro a Corigliano
presso i luoghi dell’antica Sibari, passando
per Rocca Imperiale, Castel Roseto e Casal Nuovo
Lasciammo con rammarico questo bel paese dell’antica Eraclea, paese incantevole per ricchezza di siti; e, dopo essere discesi dalle alture che dominano su tutta questa bella parte d’Italia, entrammo in un bosco già celebre nell’antichità, e riverito già come foresta sacra. Si può dire ch’essa ne conserva ancora tutto il carattere: il silenzio, il cupo misterioso, che regna su immense scene, vecchie quanto il mondo, sembrano richiamarci, attraversandole, il Santuario ispirato dai Druidi.
Questa bella foresta era abitata da una folla quieta d’animali e di selvaggina di ogni specie; cinghiali, daini, cervi, caprioli, senza parlare delle martore e degli scoiattoli, dei quali vedemmo grandissima quantità saltare da albero ad albero, sulle nostre teste.
Arrivammo infine presso le rive del Siri, uno dei più grandi fiumi del Regno di Napoli, sempre seguendo la foresta, e passammo il fiume a guado su bufali che ci attendevano sulla riva.
È alla foce di questo fiume ch’esisteva altra volta l’antica Siri, una delle città più considerevoli della Repubblica dei Sibariti. Essa fu distrutta nelle guerre che questi ebbero con i Tarentini, e accadde che, a quanto si pretende, con le sue rovine fu costruita Eraclea, di cui il porto ha conservato poi il nome di Heracleopolis.
Dopo aver passato il fiume, s’incontra un luogo chiamato oggi gli Bagni, nome che gli è rimasto delle acque minerali e dei bagni che vi esistevano senza dubbio altra volta, ma di cui l’uso, le acque e le sorgive sono egualmente perduti. Di questi bagni antichi intieramente distrutti, non restano che frammenti di muri senza alcuna forma. Non si può tuttavia dubitare che questo paese non è stato altra volta assai abitato, perché vi si trovano ancora giornalmente monete romane in tutti i dintorni. A quattro miglia da là, andammo a raggiungere il nostro battello, che era venuto ad attenderci alla rada di Rocca Imperiale.
L’origine di Rocca Imperiale viene da un castello che Federico II fece costruire verso la metà del tredicesimo secolo, per difendere il paese dalle incursioni dei barbareschi. Questo riparo impegna a battersi sotto la sua protezione; e, malgrado l’incomodità del sito, vi si è formata una città che può contenere tre mila abitanti. Essa è costruita in tal maniera che la via è sempre a livello dei tetti delle case d’un’altra via; ciò che forma una città così straordinaria all’esterno come incomoda all’interno. Il nostro arrivo fu un avvenimento in questa piccola città; tutti gli abitanti si mobilitarono per riceverci ed assistere al nostro ingresso. Uno degli abitanti al quale eravamo raccomandati ci condusse al castello, che era la sola curiosità del paese, ma che non ci trattenne molto tempo.
A quattro miglia dalla Rocca, passammo il fiume o rivo di Calandro. Questo rivo separa l’antica Lucania, oggi Basilicata, dalla Calabria Citeriore. Il primo posto che trovammo fu Porto Venere. Non bisogna lasciarsi troppo sedurre da questo bel nome; perché il luogo che lo porta non è altro che una piccola ansa dove alcune roccie riunite formano un riparo per due o tre battelli di pescatori, e una piccola fontana per dissetarli.
Da Porto Venere, venimmo a Castel Roseto, che non è oggi che un vecchio castello, dove non vi è più per tutta guardia che un sol uomo, incaricato di riscuotere un pedaggio. Questo Castello, mezzo rovinato, e costruito su una roccia la cui forma ci parve molto pittoresca, fornì a uno dei nostri disegnatori il soggetto d’una veduta interessantissima. Vecchie storie di barbareschi che la gente delle osterie ci raccontarono li impegnarono a rappresentare Castel Roseto nel momento in cui corsari turchi stavano per attaccare la guarnigione.
Camminammo sempre seguendo il mare fino a Trebisacce, piccola città situata sopra un’altura, e dominata a sua volta da più alte montagne. Lasciammo il mare per giungere via terra alla città di Casal Nuovo, a ventiquattro miglia dalla Rocca. Questa strada, deliziosa al momento che noi la facciamo, cioè a dire nella più bella stagione dell’anno, dev’essere impraticabile in inverno ed all’inizio di primavera, per la quantità di torrenti che discendono dall’Appennino, e inondano senza dubbio questa contrada fino al mare.
Casal Nuovo è una città fangosa, spopolata, e sembra devastata dal terremoto. La povertà si dipinge su tutti gli abitanti nella maniera più sorprendente. Si è stupiti di scoprire in questo soggiorno della miseria, il più bel paese che la natura possa offrire. Si può dire che questo è l’aspetto della terra promessa vista dal deserto, un’immagine dell’età d’oro e del paradiso terrestre; foreste come frutteti, e frutteti come foreste. Tutto ciò che noi mettiamo insieme con dispendio per abbellire i nostri giardini, cresce naturalmente nei dintorni di questo luogo miserabile, e vi è una bellezza sorprendente.
È nel piano che si discopre dopo Casal Nuovo che era situata la famosa Sibari. Tutta questa vallata ne dipendeva. Vi cercammo vanamente qualche vestigia antica; consultammo gli antiquari del paese per sapere se non vi era qualche medaglia trovata in questo cantone, con le quali si potesse almeno attestarne l’antica esistenza. Uno di essi ci assicurò che sì, e promise di tranquillizzarci sulle nostre ricerche comunicandoci ciò ch’egli possedeva; e misteriosamente, sulla sera, ci portò un pezzo di rame dove si leggeva in bei caratteri Baiocco, piccola moneta del Papa, e assai comune in Italia quanto lo sono i quattrini in Francia. Fummo meno stupiti del caso infinito che quel curioso faceva di un altro pezzo che ci mostrò come una grande rarità, e che si trovò ad essere un gettone del tempo di Luigi XIV.
Partimmo da Casal Nuovo col progetto e il desiderio più vivo di scoprire, s’era possibile, qualche resto della sventurata Sibari; ma percorremmo invano tutta questa campagna sotto un sole già troppo caldo in questo paese, e fummo troppo felici d’incontrare nel mezzo di questo deserto una fattoria o bufoleria ove andammo a riposare. Non potendo scorgere le più piccole vestigia di questa celebre città, interrogammo le nostre guide, la gente del paese, il paese stesso; tutto fu muto.
Risalendo fino al luogo chiamato Terra Nuova, ci trovammo presso una piccola riviera che conserva ancora veramente il nome di Sibari. Un ponte pastorale e rustico sul quale passammo, ci parve formare un contrasto così sorprendente con l’idea che ci si può fare di questo paese così vantato per il suo lusso e la sua magnificenza, che volemmo riportarne almeno un ricordo. Infine, dopo avere sodisfatto un piccolo pedaggio stabilito su questo ponte, traversammo lo spazio tra i due fiumi, ciò ci condusse fino al bordo del Crati, a poca distanza e dirimpetto a Corigliano.
Abbiamo visto, parlando delle rivoluzioni e della caduta di queste antiche colonie, come il famoso Milone, alla testa di centomila crotoniati, aveva disfatto in un sol giorno il popolo intero e tutti gli abitanti di Sibari, al numero di più di trecentomila uomini, benché sia assai difficile credere che due repubbliche, a sedici leghe l’una dall’altra, abbiano potuto, in un territorio assai poco esteso, avere una popolazione così numerosa. Ma, senza prendere alla lettera questo racconto senza dubbio esagerato da Strabone, Diodoro, e da tutti gli antichi storici, ne deve risultare, tuttavia, che queste famose colonie greche erano potentissime, e che questa Sibari, di cui non resta più oggi alcuna vestigia, doveva essere una città ricchissima e molto popolosa.
Abbiamo visto ancora che dopo il disastro e la distruzione intera di questa sventurata città, seppellita per sempre dalle onde del Crati e del Sibari riunite, i pochi superstiti di questi sfortunati abitanti mandarono a Sparta e ad Atene a chiedere soccorsi e altri coloni per formare una nuova città, alla quale diedero il nome di Thurio; ma che questi differenti abitanti non potendo accordarsi, s’elevarono dispute tra la vecchia e la nuova colonia, che i più forti scacciarono i più deboli, li obbligarono d’andare a cercare un asilo a Possidonia, o Pesto, che vi si stabilirono di nuovo, e vi fabbricarono le muraglie e i templi che vi si vedono ancora.
Dopo aver disegnato la veduta di questo Crati, sì fatale ai Sibariti, passammo il fiume su un carro a buoi, e i nostri muletti ci seguirono a guado.
Approssimandoci a Corigliano, che è a sei miglia di lì, non tardammo a riconoscere, nella bellezza e nella prodigiosa abbondanza di questo paese, tutte le delizie che avevano altra volta corrotto Sibari; e effettivamente la strada e il territorio che si attraversa per arrivarvi offre tutto ciò che l’immaginazione può concepire di più ricco, di più ridente e di più fertile.
Corigliano non è tuttavia che un grande villaggio sovrastato da un vecchio castello piazzato sulla vetta di una roccia; ma la sua posizione, il suo suolo, e l’aria profumata che vi si respira, come i suoi prodotti, lo mettono al di sopra di tutte le descrizioni che se ne possono fare. Ogni passo offre un nuovo punto di vista sempre più pittoresco, e nello stesso tempo più gradevole, in cui il grazioso è unito al grande, e ove i dettagli la disputano all’insieme. Si farebbe un volume assai variato di vedute di Corigliano.
Disegnammo una prima veduta della città, arrivandovi, e sul bordo d’un torrente che passa al piede stesso della montagna al sommo della quale essa è situata e costruita in anfiteatro. Mai questo bel disordine della natura che si cerca tanto d’imitare nei nostri giardini a l’inglese si è mostrato con più fascino che in questo luogo delizioso. Ovunque frutteti agresti irrigati da ruscelli erranti a loro arbitrio, vi fanno crescere gli aranci all’altezza di querce. È attraverso questo fogliame fitto di limoni, di melograni e di fichi, che si scorgono, furtivamente, tutti i punti di vista della città, che si compone sia con il vasto fondo del mare, sia con le forme larghe e imponenti dell’Appennino gelato. Questo giardino delle Esperidi è tanto gradevole che utile, e così abbondante che pittoresco; vi si raccolgono tutti i grani che la terra può produrre, un vino squisito, e il migliore che vi è in Italia; i pascoli vi sono grassi e fertili, la pesca abbondante, e tutti i frutti più deliziosi, più perfetti che in alcun luogo del mondo.
Era impossibile che un paese di delizie come quello di Corigliano, e così ricco sopratutto in siti e in panorami, gli uni più aspri degli altri, non avessero un incanto particolare per noi; così, malgrado il desiderio che avevamo di non perdere un giorno per giungere in Sicilia prima dei grandi calori, formammo egualmente il progetto di soggiornarvi, e l’affabilità dell’agente del Principe di San Mauro, al quale eravamo indirizzati, finì per determinarci.
Eravamo sopratutto sorpresi di vedere che questa Calabria, di cui avevano fatto tanta paura, era il luogo ove durante tutto il nostro viaggio, avevamo visto esercitare l’ospitalità con la più larga franchezza e cordialità. Si può dire, e senza esagerazione, di questi felici e tranquilli abitanti, che, da quando si entra nelle loro case, esse divengono vostre; quelli non hanno più nulla per loro, e senza fasto vi mettono davanti tutto ciò che può piacervi, tutto ciò che voi potete desiderare.
Il nostro dispiacere solamente era di non aver potuto trovare il luogo ove s’immaginava che aveva potuto essere la Sibari tanto vantata, e che era perduta per noi nella piana, come Turio. Il nostro oste, al quale facemmo parte del nostro rammarico, ci offrì di accompagnarci per fare nuove ricerche l’indomani.
La vigilia di questa escursione, impiegammo il tempo che ci restava a percorrere e disegnare Corigliano sotto tutti gli aspetti possibili. Dopo aver preso a prima vista l’insieme di questa piccola città, volemmo averne una veduta tale e quale si presenta verso la metà della strada che vi conduce, ed alla metà della montagna; lasciando sulla sinistra un piccolo Convento di Cappuccini, avevamo, a destra, l’aspetto di una parte della città e di qualche costruzione rustica, disseminata qua e là sulle rocce che terminano nella maniera più pittoresca.
Uscendo da questa strada cava, specie di torrente e di frana selvaggia che circonda Corigliano dal lato dell’entrata, si è veramente stupiti del quadro incantevole che si spiega alla vista.
Il contrasto che produce la bellezza di questo paese incantevole all’uscita di questa gola e di questo succedersi di montagne che si perdono nello spazio, è, senza contraddizione, uno dei più belli aspetti di cui si possa godere in nessun paese del mondo.
Ne fummo così sorpresi, che il nostro paesaggista fu subito incaricato di disegnare lo stesso sito donde si gode di questa vista ammirabile e dove il primo piano, disposto dalla natura in gradini, e come per servire da cornice al quadro, non può essere meglio paragonato che a un verziere o a un giardino dell’Eden. Non ci si può fare un’idea dell’abbondanza e dell’eccellenza della frutta di tutte le specie che c...