| Stile libero a cura di Chiara Gelato |
Crediti fotografici Stile libero – pp. 154, 155: Noi credevamo, 01 Distribution; pp. 159, 160: Il giovane favoloso, 01 Distribution; p. 164: Beppe Fenoglio, foto di Aldo Agnelli; pp. 165, 166: Il partigiano Johnny, Fandango, foto di Chico De Luigi; p. 167: Lavorare con lentezza, Fandango; pp. 170, 171: Se sei vivo spara, fotogrammi per gentile concessione dell’archivio Fototeca e Manifestoteca del Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale; p. 174: La grande bellezza, Medusa Film, foto di Gianni Fiorito; pp. 175, 178: La dolce vita, Cineriz; p. 185: Il generale Dalla Chiesa, Mediavivere – RTI Mediaset; Aldo Moro – Il presidente, TaoDue Film – RTI Mediaset; p. 186: La meglio gioventù, Bìbì Film Tv – Rai Fiction; p. 187: Romanzo criminale – La serie, Cattleya – Sky Cinema; p. 188: Gli anni spezzati – Il commissario, Albatross Entertainment – Rai Fiction; p. 189: Gli anni spezzati – Il giudice, Albatross Entertainment – Rai Fiction; Gli anni spezzati – L’ingegnere, Albatross Entertainment – Rai Fiction; p. 190: La nave dolce, Microcinema Distribuzione, foto di Vittorio Arcieri; p. 191: Diaz, Fandango; p. 193: American Hustle – L’apparenza inganna, Eagle Pictures; Anime nere, Good Films, foto di Francesca Casciarri; p. 194: Anita B., Good Films; Anni felici, 01 Distribution, foto di Emanuela Scarpa; A proposito di Davis, Lucky Red; The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca, Videa CDE; p. 195: Captain Phillips - Attacco in mare aperto, Warner Bros; C’era una volta a New York, Bim; Diana – La storia segreta di Lady D., Bim; Dietro i candelabri, 01 Distribution; Le due vie del destino – The Railway Man, Koch Media; p. 196: The German Doctor - Wakolda, Academy 2; Grace di Monaco, Lucky Red; Hannah Arendt, Ripley’s Film, Nexo Digital; Ida, Parthenos; Italy in a Day – Un giorno da italiani, 01 Distribution; p. 197: Jersey Boys, Warner Bros; La mafia uccide solo d’estate, 01 Distribution; Monuments Men, 20th Century Fox; Noah, Universal Pictures, foto di Niko Tavernise; p. 198: Philomena, Lucky Red; Pompei, 01 Distribution; La ragazza del dipinto, 20th Century Fox; Storia di una ladra di libri, 20th Century Fox; p. 199: The Wolf of Wall Street, 01 Distribution; Yves Saint Laurent, Lucky Red; 12 anni schiavo, Bim; p. 200: 300 – L’alba di un impero, Warner Bros.
CINEMA1
Mario Martone e la Storia come sistema aperto. Passaggi, deviazioni e consonanze del dittico ottocentesco
di Daniela Ceselli
Anche se in questa sede analizzeremo le ultime due opere di Mario Martone, Noi credevamo (2010) e Il giovane favoloso (2014), scegliendo l’ottica del rapporto del regista con la Storia, è necessaria tuttavia una breve premessa. Sin dagli inizi della sua attività teatrale, Martone lavora attorno e all’interno di questo ampio nucleo tematico, e lo fa a molti livelli e in più direzioni, perché la storia innerva e penetra il suo mondo, ne intensifica la capacità visionaria e la libertà d’espressione, ne scandisce le direttrici, offrendo la forma del racconto, indirizzando spesso la metodologia di ricerca, improntando l’attitudine registica a ritagliare il reale e riconfigurarlo filmicamente. La sua, è la Storia cara agli studiosi e ai teorici di Les Annales, rispetto alla quale sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività proviamo ad individuare alcuni punti di contiguità.
1. La capacità di interrogare le fonti (la scelta delle epistole nel caso del biopic su Leopardi, la storia non ufficiale per Noi credevamo). Analogamente a quanto fanno gli storici moderni, Martone parte da ipotesi, che nascono da un preciso impianto ideologico, vengono esplorate, approfondite, dialettizzate nel corso dell’indagine sul passato e dischiudono l’orizzonte ad una personale, intima visione del mondo e delle sue contraddizioni.
2. Il desiderio di garantire un certo livello di scientificità nell’indagine, seppur condotta nei termini di discorso artistico. Martone ha una concezione della storia come sistema aperto, mai dogmaticamente conchiuso, in cui il “certo” viene sostituito con l’“infinitamente probabile”, il “rigorosamente misurabile” con l’“eterna relatività della misura”, “la certezza e l’universalità come un problema di gradi” e di intensità nel sentire il peso degli eventi, la responsabilità individuale, i valori in gioco, la certezza delle convinzioni, l’intenzionalità conscia e inconscia nel conseguimento degli obiettivi.
3. Il rifiuto del concetto positivista di progresso lineare. Martone ci sembra faccia propria un’idea di storiografia eterodiretta, multidisciplinare, espansa, a cui l’artista (coadiuvato dallo sceneggiatore e suffragato dalle capacità performative degli attori) sceglie di rivolgersi con piglio rabdomantico e vocazione alchimistica, selezionando, decostruendo e trasformando materiali, documenti, testimonianze, per lasciar emergere dal flusso degli eventi lampi di verità, zone di opacità, plaghe di menzogna, accensioni di appassionata dedizione.
4. Come uno storico moderno, Martone sospende il giudizio freddamente moralistico nell’approccio all’evento a garanzia di una più profonda dimensione etica nella narrazione delle vicende collettive e individuali.
5. Martone, infine, prende le distanze dalla storia tradizionale, l’histoire événementielle, basata sugli avvenimenti politici più esteriori e visibili, per interessarsi ad una “storia minima”, segreta, fuori dall’ufficialità accademica e dalla retorica convenzionale. E lo fa lavorando il tempo come durata interna, sviluppando una sorta di movimento che, dal retroterra strutturale, culturale e sociale - attraverso episodi e situazioni particolari, apparentemente meno significanti delle “eroiche sorti e progressive” - apra squarci di luce sui singoli individui, le loro scelte e la loro capacità di intervento sul reale, spesso fittizia (si pensi al poeta Leopardi, al patriota Domenico), e sul senso stesso della storia nazionale con il suo intreccio di compromessi, tradimenti, trasformismi, fallimenti1.
Noi credevamo è un’opera che si inserisce nella lunga teoria dei film storici sulla storia nazionale. Li definiamo così, fuori da ogni parametro di genere, collocazione temporale e puntualizzazione stilistica, nel tentativo azzardato di identificare un’area che includa Blasetti, Visconti, Vancini, Rosi, i fratelli Taviani, ma anche film come La grande guerra. E tuttavia, in questo caso, tra il neorealismo ante litteram del Blasetti di 1860 e le sobrie, rigorose, ricostruzioni dei film in costume di de Oliveira o Straub-Huillet, prevale una dimensione rosselliniana: ravvisabile nell’urgenza di porre al centro della vicenda epocale l’individuo e la sua flagrante umanità, senza sentimentalismi o patetismi, in modo rigorosamente asciutto. Rossellini rivive nell’economia essenziale del gesto cinematografico di Martone: il film recupera la lezione del maestro di Paisà, ma anche dei suoi lavori televisivi e dei tardi e incompresi capolavori come Viva l’Italia e Vanina Vanini. Da lui l’idea che il cinema serva come mezzo di conoscenza, che abbia un valore culturale, che sia un’apertura della coscienza, che sia un cinema in senso umanistico. Martone stesso dichiara: «Ho sempre pensato di voler fare un film con un impianto rosselliniano. Nel senso che volevo utilizzare, secondo la lezione di Rossellini, gli elementi della Storia in quanto tali, evitando rielaborazioni artificiali. Ad esempio, i dialoghi di Mazzini nel film, per gran parte, derivano fedelmente dai suoi scritti»2.
Il film è il risultato di una lunga gestazione (circa sette anni) e di uno straordinario lavoro intertestuale. Nozione che, in questo caso, non coincide propriamente con una migrazione di contenuti, personaggi, temi da un testo all’altro, ma, sulla scia del dialogismo bachtiniano, rinvia ad un processo di relazioni di scambio, di incroci e slittamenti tra differenti superfici testuali, più estensivamente a una dinamica di sistemi segnici differenziati e pratiche significanti eterogenee, ove, più della consistenza effettiva del materiale trasportato, è rilevante il «processo di trasformazione del materiale»3. Come è noto, il film prende il titolo dall’omonimo romanzo di Anna Banti (per il quale la scrittrice si era ispirata alla storia del nonno), pubblicato nel ’67 e ingiustamente misconosciuto dalla critica. Rappresenta un grandioso affresco dell’Italia risorgimentale: dalla violenta repressione borbonica dei moti del 1828 alle vicende di Aspromonte nel 1862 con il fallimento della spedizione di Garibaldi per liberare Roma. Il film non segue un unico arco narrativo (diversamente dalla drammaturgia progressiva di Senso di Visconti, ma anche dalla drammaturgia operistica di Novecento di Bertolucci), ma si presenta come un mosaico di momenti, scanditi cronologicamente (alcuni dei quali puramente visivi) che, proprio nella misura in cui vengono isolati e indagati, acquistano un valore emblematico: la rivolta nel Cilento soffocata nel sangue; la morte dei Capozzoli, briganti cospiratori legati alla Carboneria; il giuramento di fedeltà alla Giovane Italia; la migrazione dei mazziniani a Parigi; il salotto della principessa Cristina Belgioioso, cenacolo di intellettuali, artisti e sovversivi; il fallito assassinio di Carlo Alberto durante i moti savoiardi del 1834; la prigione di Montefusco; l’attentato a Napoleone III; la spedizione in Sicilia e l’esecuzione dei garibaldini disertori per mano dei bersaglieri sabaudi. Si tratta di pagine di storia, se non proprio sconosciute, ai più non note o dai più “rimosse”, come sostiene il regista, non per questo meno illuminanti, in cui il libero gioco dell’immaginazione dell’artista, lavorando sul doppio binario del documentale/fattuale e del verosimile romanzesco, riconfigura gli eventi, attribuendo loro pregnanza, tragicità, spirito profetico, ma anche ordine e chiarezza, in linea con un’idea brechtiana di dramma didattico. Con perizia chirurgica, come i lacerti di un corpo afflitto e vibrante, il corpo del film, i momenti sono ricomposti drammaturgicamente in sede di sceneggiatura e indagati nel grande teatro delle immagini, in forma mai meramente spettacolare o calligrafica, uniti dalla coerenza di uno stile rigoroso ed essenziale e dalla sobrietà di una recitazione robusta e partecipata, in cui le tensioni fisiche trattenute sono contraddette dalle accensioni degli sguardi e della parola. Eventi organizzati secondo una scansione ritmica, fatta di alternanze e variazioni: il dinamismo di un complotto, l’immobilità di un dialogo, l’impeto folle del gesto assassino, il tempo sospeso dell’istituzione carceraria, l’azione mancata, la sconfitta subita, il senso di colpa mai sopito, la convinzione personale. Martone, lontano dalla tentazione dell’affresco corale che, come suggerisce Giona A. Nazzaro, è un modo molto preciso per uniformare i conflitti e le differenze in un linguaggio unico, diserta la classica narrazione drammatica, intessuta di turning points e proiettata verso un climax, per preferire la dimensione situazionale, sovente il Kammerspiel, e la approfondisce con rigore, mostrando i personaggi alle prese con conciliaboli, dispute anche violente, intrighi, prigionie, disincanto. La Storia dei manuali resta sullo sfondo, anche quando racconta eroici furori come quelli che diedero vita alla Repubblica romana. La compattezza narrativa cede il posto al frammento, alla marginalità, alle tracce perdute e ritrovate, ai destini degli umiliati e offesi, ai losers; e poco importa che siano nobili e intellettuali e solo in minor misura appartenenti alle masse popolari. Il cinema infrange lo schermo della rappresentazione invisibile e della narrazione univoca per privilegiare una modalità di racconto che sia da un lato democraticamente orizzontale e dall’altro, come operazione formale, vertiginosamente verticale4; domina la scelta compositiva l’importanza del pensiero dialettico, cioè della virtù intellettuale che consiste nel saper collegare fra loro i fatti e le co...