Liberi di morire
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Liberi di morire

Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati

  1. 266 pagine
  2. Italian
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Liberi di morire

Una fine dignitosa nel paese dei diritti negati

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Questo libro traccia un quadro molto ampio di quanto avviene nel mondo sul tema del testamento biologico e dell'eutanasia, dei dibattiti provocati nei maggiori Paesi europei da vicende simili a quelle di Pieriorgio Welby e di Eluana Englaro. La diffusione dell'eutanasia clandestina e i numerosi suicidi dei malati terminali renderebbero auspicabile anche in Italia l'attuazione di una legislazione seria. La nostra arretratezza nel campo dei diritti civili rispetto ai Paesi europei comparabili, potrebbe essere data dal rapporto anomalo che esiste tra Chiesa e Stato. Questo pamphlet vuole essere una sorta di "agenda laica" sui diritti negati.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788849832839
PARTE PRIMA
Il testamento biologico e l’eutanasia

1.
Caro Michele

Solo aspettar sereno
Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto
Nel suo virgineo seno
GIACOMO LEOPARDI
Le ragioni del mio impegno
SONO STATO FIN DA RAGAZZO un sostenitore dei diritti civili. Mi sono formato alla scuola del socialismo riformista e umanitario di mio padre, allievo di Turati e collaboratore di Matteotti. Sono finito naturalmente a militare nel Partito Socialista Italiano, cui mi sono iscritto a diciannove anni, nel 1957, ancora sotto l’influsso delle vicende dell’Ungheria ed attratto dal progetto di un centrosinistra moderno e riformatore. Dopo circa un anno – proprio nel giorno del mio ventesimo compleanno – ho avuto l’onore di «moderare», come organizzatore del circolo culturale socialista «Aldo Vergano», la conferenza stampa in cui il senatore del PSI Renato Sansone presentò il primo disegno di legge sul divorzio (il cosiddetto «piccolo divorzio»), di cui era coautore Pietro Nenni. L’anno successivo, o forse nel 1960, moderai un’altra conferenza stampa, in cui Luigi De Marchi, il famoso sessuologo, presentò una serie di nuove iniziative dell’AIED, l’Associazione Italiana per l’Educazione Demografica da lui costituita nel 1953 e rimasta fino a oggi l’istituzione che maggiormente diffonde il concetto e il costume della procreazione libera e responsabile. A organizzare, con me e altri giovani socialisti, c’era uno dei più cari amici della mia vita, Cesare Giannotti, prematuramente mancato al nostro affetto. Per dare un’idea della passione politica e civile che lo animava, ricorderò che Cesare, allievo ufficiale di complemento, dedicava le ore in cui era «di picchetto» a illustrare la Costituzione ai suoi soldati.
Dopo un breve periodo di politica attiva, in cui tra l’altro strinsi amicizia con Marco Pannella perché nel 1964 costituimmo, con altri compagni comunisti, socialisti e socialdemocratici, il cusi (naufragato come tutti gli altri tentativi compiuti in più di mezzo secolo di realizzare l’unità della sinistra italiana), iniziai la mia attività professionale nelle relazioni esterne. Non cessai mai di militare nel PSI, collaborando soprattutto, a causa del mio lavoro all’IRI, con la sezione economica del partito, ma negli anni Settanta ebbi a lungo, come molti altri compagni, la doppia tessera socialista e radicale e mi impegnai nelle indimenticabili campagne prima per ottenere il divorzio e l’aborto, poi per respingere i referendum abrogativi delle rispettive leggi. Fra il ’75 e il ’79 sono stato tra i protagonisti della rivolta dei giovani dirigenti dell’IRI contro il vertice manageriale che negli anni Settanta stava portando alla rovina il primo gruppo industriale d’Italia, e per questa battaglia ho pagato un prezzo non indifferente.
Solo un accenno ai miei rapporti con la Chiesa cattolica. Mio padre era incrollabilmente ateo, ma rispettosissimo dei credenti; mia madre una cattolica molto tiepida. Quando mio padre, a gennaio del 1946, fu nominato prefetto politico di Milano per la sua fama di antifascista e di comandante partigiano, la mia famiglia vi si trasferì. Milano era allora una città ad altissimo rischio, con scontri sanguinosi, da un lato fra bande di criminali comuni, dall’altro tra fazioni contrapposte di ex partigiani ed ex repubblichini. Quando mio padre prese possesso del suo ufficio, fu accolto in corso Monforte da una scritta colossale («A piazza Loreto c’è posto per tutti»). E dopo pochi giorni una bomba esplosa di notte di fronte alla Prefettura suscitò nei miei genitori una certa comprensibile agitazione. Così fui mandato (ero al secondo trimestre della seconda elementare) nella scuola più vicina alla Prefettura, dove un agente di PS poteva accompagnarmi a piedi e proteggermi da eventuali pericoli. Era una scuola di suore in via del Conservatorio, i cui insegnamenti provocarono parecchia confusione nella mia mente di bambino cresciuto in ambiente laico. Così a 8 anni, dopo la prima Comunione, a mia madre che mi chiedeva come fosse andata la confessione risposi: «Bene. Sono entrato in Chiesa. C’era Dio seduto e mi ha assolto dai miei peccati». Il secondo incidente avvenne nell’aprile del 1948, quando mio padre, che era candidato nel Fronte Popolare, mi pizzicò mentre nascondevo dei volantini elettorali della DC (del genere «I comunisti mangiano i bambini») che le suore mi avevano incaricato di distribuire.
Una seconda, e ultima, occasione di contatti con la Chiesa mi capitò attorno ai 14 o 15 anni. Lasciata la Prefettura, la mia famiglia abitava in corso Matteotti, molto vicino alla chiesa di San Carlo, in cui predicava – idolatrato dalle più eleganti signore di Milano – l’affascinante padre Davide Maria Turoldo. Non ricordo come mi capitò di seguire, con altri miei coetanei, alcune sue lezioni. Ne fui incantato, ancora di più perché Turoldo mi dimostrava apertamente la sua simpatia. Per qualche mese ebbi quasi una crisi mistica, fino al giorno in cui mi capitò di confessarmi con un prete di cui non dimenticherò mai l’atteggiamento odioso di inquisitore. Ora, è probabile che tra i miei piccoli peccati ve ne fosse qualcuno di carattere «sessuale». Certo è che il confessore minacciò la possibilità di non assolvermi e la certezza delle pene dell’inferno e quasi mi buttò fuori dalla chiesa. Dove, infatti, non rientrai mai più se non – e sempre malvolentieri – per matrimoni o funerali. Di quel breve periodo mi resta il ricordo incancellabile di Turoldo, rinverdito qualche anno dopo dal suo bellissimo libro di poesie Gli occhi tuoi lo vedranno. E l’amarezza di vedere questo coraggioso portatore dei più bei messaggi di Cristo emarginato dalla Chiesa, come del resto lo è stato, sia pure meno brutalmente, il cardinale Carlo Maria Martini, che non a caso nel 1992 volle celebrare personalmente i funerali di Turoldo.
Ho accennato a questi due aspetti della mia vita – l’impegno per i diritti civili e il non felice rapporto con la Chiesa – perché contribuiscono a spiegare le scelte che ho compiuto dopo la morte di mio fratello Michele.
Il suicidio di mio fratello Michele
Il suicidio di Michele è stato l’evento più tragico della mia vita, ormai prossima al traguardo dei 74 anni. Conoscendolo assai bene, sono stato subito certo che la sua scelta, oltre che un atto di grande coraggio, è stata anche una muta denuncia della situazione intollerabile di un malato nelle sue condizioni, cui viene negata l’eutanasia. Perciò ho scelto di rendere nota la vicenda di Michele e poco dopo di impegnarmi in una battaglia in favore della eutanasia.
Io sono nato nel 1938. I miei due fratelli nel 1930 (Nicola) e nel 1932 (Michele). I miei rapporti più intensi sono stati quelli con Michele. Nicola per me era un uomo, da cui ho preso due grandi passioni, la letteratura e la montagna, e di questo gli sono molto grato. Malgrado anche con Michele vi fosse differenza di età, lo sentivo quasi come un coetaneo, con cui giocare da bambino e poi, con il passare degli anni, con cui fare qualche ardito viaggio in Cinquecento ai confini dell’Europa e con cui dividere qualche interesse comune: il cinema e la lirica in particolare.
Michele era scapolo e viveva con nostra madre, rimasta vedova nel 1974. Era legatissimo alla famiglia (i fratelli, le cognate, i nipoti e, nei suoi ultimi anni di vita, i figli dei nipoti), un po’ nervoso e insofferente, come molti scapoli attempati, ma affettuosissimo, disponibile e generoso: qualità che coglieva a pieno solo chi lo conosceva bene, perché un po’ nascoste dalla sua timidezza e dal suo riserbo. Le sue amicizie erano soprattutto quelle dell’adolescenza, maturate per lo più nei lunghi mesi di vacanze estive a Torricella Peligna, il nostro paesino di origine in Abruzzo.
La sua malattia è esplosa come un fulmine a ciel sereno. Ai primi di luglio del 2003 eravamo in vacanza assieme in Abruzzo. La mattina era andato al mare (un’altra sua grande passione, che aveva Capri come luogo simbolo); nel pomeriggio aveva fatto una analisi del sangue di routine (Michele faceva controlli medici con grande regolarità); la sera l’ospedale lo ha chiamato per dirgli che i valori erano alterati in modo molto preoccupante.
Dopo un rapido consulto con amici medici, la mattina dopo, partendo all’alba, l’ho accompagnato in macchina all’ospedale di Pescara, dove c’è un centro di ematologia di eccellenza. Prelievo effettuato alle otto, con preghiera di tornare per i risultati verso le 13. Quel giorno a Pescara c’erano 40 gradi all’ombra. Dopo un giro in piazza Salotto, un cappuccino e una delle migliori bombe alla crema d’Italia (un’altra piccola passione che ci accomunava), ritorno in ospedale e attesa angosciosa. Alle 12,30 il primario, prof. Giuseppe Fioritoni, ci riceve e ci parla con grande sincerità. La diagnosi è infausta: leucemia mieloide acuta, una delle forme più gravi di leucemia. La prognosi è tutt’altro che incoraggiante: si possono tentare due cicli – molto pesanti – di chemioterapia di 15 giorni l’uno, intervallati da una settimana di riposo. Vi è un 30 per cento di possibilità che la chemio faccia effetto e blocchi la malattia. In quel caso, all’età di Michele (71 anni), l’attesa di sopravvivenza media è di circa 5 anni. Il primario insiste molto per tentare, anche tenendo conto dei continui progressi nei risultati delle cure. Non dimenticherò mai la partecipazione, il garbo, l’umanità di quel medico e dei suoi collaboratori. Michele non vuole curarsi. Vuole tornare a casa e lasciarsi morire. Mio fratello Nicola è all’estero, non riesco a raggiungerlo per telefono. Resto solo a dover convincere Michele, pur avendo io stesso molti dubbi sulla scelta. Michele rimane in ospedale mentre io torno a Torricella a prendere quanto serve per la sua degenza. Cominciano i quindici giorni peggiori della mia vita. Con un caldo infernale, ogni mattina oltre un’ora di macchina da Torricella a Pescara e altrettanto per tornare la sera, sempre attanagliato da un’angoscia senza limiti. Nell’arco della giornata, due brevi incontri con Michele, con la tenuta degli ambienti sterili in cui si effettua la chemio. Ogni giorno, lui, già magrissimo di natura, perde peso. Non riesce a mangiare nulla, neanche i suoi cibi prediletti perché la sua gola è massacrata. E poi, nelle ore di attesa tra una visita e l’altra, lo spettacolo del dolore nei corridoi dell’ospedale. Insopportabile la vista dei bambini, resi calvi dalla terapia, e dei loro familiari, che tentano di simulare una normalità persa per sempre. Ce la faccio solo grazie a Laura, mia moglie, che vuole molto bene a Michele. Come molte donne, appare fragile, ma è più forte di noi. Ha sempre una parola di incoraggiamento, anche se è stanca e pessimista in fondo al cuore.
Michele torna a casa per la settimana di intervallo e le cose vanno un po’ meglio. Torricella è a 900 metri di altezza, nel giardino della nostra casa fa abbastanza fresco, gli amici vengono a turno per non lasciarlo mai solo, per distrarlo dai suoi pensieri. Poi il ritorno a Pescara per il secondo ciclo di chemio. Questa volta sono Nicola e sua moglie, Caterina, che fanno instancabilmente la spola fra Torricella e Pescara, mentre Laura ed io ci rifugiamo per due settimane, come ogni anno, in un paesino in Austria dove l’indispensabile riposo è assicurato.
Quando torniamo a Torricella Michele è appena rientrato e sembra un miracolato. La terapia ha avuto successo pieno, le sofferenze sono finite. Ricomincia a mangiare, riprende peso e colorito, non si stanca mai di parlare con gli amici che vengono a festeggiarlo.
A settembre torniamo a Roma. Michele è felice come poche volte lo è stato. Da poco ha comprato un miniappartamento molto grazioso al pianterreno della stessa palazzina in cui per anni ha abitato assieme alla madre. Così può farle compagnia ma, quando vuole, si può appartare nella pace della sua casetta. Alle pareti, le fotografie di Capri, le riproduzioni di qualche quadro romantico dell’Ottocento italiano, una locandina di Senso, una grande foto di Maria Callas: la sintesi delle sue passioni.
Passano pochi mesi sereni, in cui Michele riesce a tornare una volta alla Scala e una volta al San Carlo di Napoli. Poi, a febbraio, uno dei controlli periodici rivela valori tragicamente sballati. Parliamo con il primario di Pescara, che ci conferma quanto avevamo già pensato: a Roma c’è il centro di Mandelli, il primo in Italia per la leucemia, a cui l’ospedale di Pescara manderà tutta la cartella clinica di Michele e i protocolli di cura. Ma, dopo un paio di brevi ricoveri, i medici appaiono pessimisti. Finché, la mattina del 17 marzo, il capo del reparto in cui Michele è ricoverato chiama me e mio fratello Nicola e ci dice che ormai non c’è più nulla da fare. La malattia ha ripreso il suo corso in forma ancora più aggressiva, le condizioni generali di Michele sono tali che un nuovo ciclo di chemio lo ucciderebbe. «Purtroppo – ci dice il medico – qui i letti servono per i malati che hanno qualche possibilità di guarire. Perciò è necessario che riportiate vostro fratello a casa, dove la nostra organizzazione di volontari (medici e infermieri) gli assicurerà l’assistenza domiciliare e le cure palliative, se dovessero servire». Sapevo dell’esistenza di questa forma di volontariato, ma non conoscevo i particolari: medici e infermieri che ogni giorno, con il traffico infernale di Roma, trovano il modo di assistere i loro malati a casa, nelle primissime ore del mattino e la sera, prima e dopo una giornata intensa di lavoro in ospedale. Penso sia giusto parlare di questa realtà, di questa straordinaria umanità.
Nel pomeriggio riportiamo Michele a casa, nell’appartamento al quarto piano in cui abita nostra madre. Ha 95 anni, la sua arteriosclerosi è molto avanzata e la assiste una signora peruviana, Marta, che ha le capacità di una esperta infermiera. Michele è abbastanza sereno, anche se ha di nuovo problemi con il cibo ed è tornato a una magrezza impressionante. Dopo la sua faticosa cena, Nicola ed io torniamo alle nostre case nella speranza di alleviare con il sonno la stanchezza e lo sconforto.
La mattina verso le sette arriva la telefonata maledetta: Michele è morto, si è gettato dal terrazzo della sua camera, al quarto piano, nel cortile del garage.
La polizia chiede a Nicola, che abita più vicino e quindi arriva qualche minuto prima di me, di procedere al riconoscimento del cadavere. Poi Marta ci racconta che la sera precedente, dopo che noi eravamo andati via, Michele aveva avuto per la prima volta un episodio di incontinenza. Lei lo aveva spogliato, lo aveva lavato, gli aveva messo uno dei pannoloni di mia madre e lo aveva rimesso a letto.
Vicino al letto, un biglietto: poche parole per chiedere scusa dei problemi che ci aveva procurato e per raccomandarci di volerci bene. L’ultimo messaggio di un uomo che si era sempre preoccupato più per gli altri che per se stesso.
In questo capitolo del libro, così personale, mi fa piacere riportare alcuni brani di una lettera che mia figlia Claudia scrisse a tutti noi di famiglia con questo titolo: Un’ultima lettera che scrivo a Michele, zio, fratello e figlio, e che desidero condividere con il resto della famiglia.
Quando qualcuno, come te, è malato senza praticamente speranza di guarigione, tanti parlano di battaglie, e usano metafore del campo bellico, che io non vedo in nulla attinenti al dramma di chi, senza potersi difendere, deve sopportare il dolore, la sofferenza, a volte l’umiliazione nella consapevolezza che a nulla potrà valere tutto ciò. Non riesco a pensare a te in questi termini. Io, negli ultimi mesi, ti ho visto tanto cambiato. Era come se tu avessi capito, proprio ora che ti sentivi così precario, un senso profondo della vita. Ho visto mutare il tuo atteggiamento nei confronti degli altri. Non che prima tu non fossi affettuoso – questo non ti è mai mancato – ma forse sembravi più schivo e diffidente; talvolta impedito nel goderti la compagnia degli altri da piccoli e tutto sommato insignificanti dettagli. Ho notato come tu sia diventato più aperto e ricettivo; come, in ogni momento del tuo viaggio disperato, abbia conservato l’interesse per la vita degli altri, e questo veramente è stato il tuo grande coraggio, forse la tua forza, e spero, almeno in parte, la tua ancora. È proprio per questo che nel leggere, nell’ultima lettera che ci scrivi, la tua preghiera di volerci bene gli uni con gli altri e la tua affermazione, detta in modo così apparentemente asettico e proprio per questo ancora più definitiva, che nulla è più importante nella vita, non vedo nulla di retorico, ma leggo anzi il messaggio più essenziale, ciò che veramente hai voluto tentare di lasciarci. Io ti saluto col dispiacere che non vedrò più la tua figura esile apparire silenziosa, e con l’angoscia di chi non ha potuto salvarti o aiutarti, perché in fondo in queste tragedie si è intimamente, disperatamente e irrimediabilmente soli; ma di questo siamo stati, insieme a te, vittime i...

Indice dei contenuti

  1. Liberi di morire
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione di Emma Bonino
  5. Introduzione. Perché questo libro
  6. PARTE PRIMA Il testamento biologico e l’eutanasia
  7. PARTE SECONDA I diritti negati, una agenda per i laici