Libertà di cultura
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Libertà di cultura

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Libertà di cultura

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Per far rinascere la cultura e la ricerca in Italia occorre un cambiamento radicale che dia centralità alla persona e alle libere comunità che nascono nei territori. Nessun museo, biblioteca, archivio, festival o università deve essere preservato senza che siano gli individui e le comunità a volerlo. La cultura infatti non è un obbligo o un diritto, ma un desiderio. Un museo come gli Uffizi può essere domani trasformato o chiuso, e le sue opere disperse, se così vorranno gli individui e le comunità. Il peso dello Stato deve pian piano regredire e permettere che le comunità si riapproprino dei loro patrimoni e territori e trasformino le loro culture come meglio credono, senza che vi sia un supervisore superiore che ne orienti le scelte con divieti o appoggi. Per far questo occorre un cambiamento della Costituzione e delle leggi, l'abolizione delle Soprintendenze e degli Istituti centrali, e una trasformazione profonda dei paradigmi che dominano l'asfittico sistema culturale italiano.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788849839166
Argomento
Arte

1.
Cultura e ricerca

L’ITALIA È UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA, FONDATA SUL LAVORO (art. 1 della Costituzione). Anche il lavoro sporco è lavoro, anche il lavoro criminale è lavoro. Anche spacciare droga è per molti lavoro. Migliaia di palazzi sono stati costruiti in zone vietate e pericolose. Anche questo, per molti, è stato ed è tuttora lavoro.
Questo cosa vuol dire? Che la Costituzione non è una bussola da seguire. Chi la concepisce così, non capisce nulla della Costituzione.
Le Costituzioni chiamano da sempre al conflitto delle loro interpretazioni. Non sono una bussola da seguire, come se la lettura fosse univoca e condivisa. Sono lo spazio della contesa. Sono lo spazio dove i nostri interessi, visioni, ideali confliggono, si fanno guerra.
Chi le prende come dichiarazioni inequivocabili, non capisce che da sempre le parole fondative che legano una comunità, un popolo, sono parole doppie. Discorsi doppi. Dissos logos. Ovvero discorsi che non permettono che una persona si alzi e dica: «Io so cosa significano e questo deve valere per tutti». Ciascuno di noi legge o ascolta queste parole, crede fermamente di capire cosa significano, e di fatto si mette in conflitto, in dialogo, in rapporto, con chi crede che significhino un’altra cosa.
Da sempre i Vangeli, il Corano, i Ŗgveda, la Regola di san Benedetto, le rivelazioni di Gautama Buddha, il Libro di Mormon, il Libro tibetano dei morti, il Cammino di Josemaria Escrivá, le Encicliche dei pontefici, il Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, l’Avestā, le Costituzioni, in generale i testi che sono diventati fondativi per una comunità, chiamano al conflitto delle loro interpretazioni.
Invocano il conflitto, lo necessitano. Un conflitto che spesso è stato tragico, mortale per milioni di uomini, altre volte temperato dai compromessi, altre volte ancora drenato dalla sana ragionevolezza, dal buon senso, dal quieto vivere. Altre volte ancora ha fatto sorgere amicizie, ricerche e dialoghi prima di allora non immaginati.
Ma conflitto era ed è tuttora.
Sul frontone del tempio dell’Oracolo di Delfi, nell’antica Grecia, c’era scritto: «Conosci te stesso». Chi può dire di possedere il suo senso? Ogni sua interpretazione, ogni sua lettura, ogni sua messa in pratica è sempre stata una interpretazione, una lettura, una messa in pratica, che si è trovata a convivere con le altre.
«Onora il padre e la madre» è un comandamento che, dall’epoca dell’Antico Testamento, non ha mai smesso di generare diversità di letture e dunque diversità di comportamenti: come si onora il padre? Ognuno risponde secondo la propria educazione, la propria morale, i propri convincimenti. Si onora il padre obbedendogli, ma – per essere pienamente figli – lo onoreremo anche disobbedendogli, disobbedendo a certe sue pretese. Onorare, rendere onore, dare onore, dover dare onore, sono un monito e un invito così ampi che non sopportano una sola declinazione. Molti modi con cui si è onorato il padre per secoli ora sono insopportabili, e i nostri modi saranno probabilmente farseschi e inappropriati in altri tempi.
Le frasi divenute simboliche per una comunità, per un popolo, per generazioni e generazioni di uomini, sono parole che richiedono di essere seguite, messe in pratica, tramandate o contraddette secondo un modo di interpretarle, di leggerle, di dedurle, che fortunatamente non potrà mai essere univoco e sarà sempre confliggente con quello degli altri.
Chi concepisce le Costituzioni come punti di riferimento indiscussi non capisce la loro essenza. Le Costituzioni sono gli spazi assoluti della libertà, così come la Bibbia o il Corano. Tanto più vi sono vescovi, imam, rabbini, imperatori, presidenti, corti costituzionali, che richiedono di direzionare la lettura, tanto più questi testi diventano spazi assoluti di libertà. Invocano la diversità delle nostre letture. La diversità dei nostri assensi o dissensi. La diversità delle nostre reciproche convinzioni. Invocano la libertà di leggerli, tramandarli, tradurli in azione, secondo idee, valori, interessi, che sono nostri e non di altri, che sono miei e non tuoi. Infatti, da una lettura e da una esperienza del Vangelo diverse, si sono originati i più differenti ordini e movimenti religiosi: i francescani, i domenicani, i benedettini, gli agostiniani, i gesuiti, i carmelitani, i certosini, i marcioniti; sono stati realizzati scismi, inquisizioni, pratiche di eremitismo, azioni missionarie, guerre di proselitismo; sono mutati i costumi, le usanze, le liturgie, le traduzioni dei testi di riferimento.
Anche la Costituzione è lo spazio assoluto e sanissimo della nostra libertà.
Pensiamo alla prima Costituzione moderna, quella promulgata a Filadelfia nel 1787: «Noi, popolo degli Stati Uniti, al fine di perfezionare la nostra Unione, garantire la giustizia, assicurare la tranquillità all’interno, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale, salvaguardare per noi e per i nostri posteri il bene della libertà, poniamo in essere questa costituzione quale ordinamento per gli Stati Uniti d’America».
Come promuovere il benessere generale? E come decidere una volta per tutte cosa sia il benessere generale? Ogni attore in lotta, ogni forza in campo avrà un suo modo di giudicare il benessere generale.
Anche per la Costituzione italiana valgono gli stessi interrogativi.
La Repubblica promuove la cultura e la ricerca (art. 9). Quale cultura? E chi definisce, una volta per tutte, cosa sia cultura da promuovere e che cosa non lo sia? La cultura dei baroni universitari, attualmente e lautamente finanziata, è cultura? La cultura delle accademie composte soltanto da personalità cosiddette di prestigio è cultura? La cultura dei teatri che danno lavoro e soldi soltanto a pochi attori celebri è cultura? Questa è la cultura che la Repubblica promuove? La cultura da sostenere è quella della prestigiosa Accademia dei Lincei, che si sa che c’è ma non si capisce a cosa serva? La cultura da foraggiare è quella del Gabinetto Vieusseux, che si sa che è a Firenze, ma non si capisce per quale motivo ancora sopravviva? La cultura da sostenere è quella che offre generosi finanziamenti a rispettabili e ristrettissimi convegni universitari e lascia senza un centesimo progetti straordinari nati in contesti periferici e senza fama?
Questa è la cultura? Dunque, a quale ricerca e a quale cultura si riferisce la Costituzione1?
La Costituzione chiama il conflitto, vuole il conflitto, ovvero richiede che confliggano visioni diverse di ricerca, di cultura, di sperimentazione, che si contendono la preminenza di quell’articolo. Ovvero richiede che persone, gruppi, comitati, istituzioni, associazioni confliggano pacificamente, democraticamente, tra di loro e con gli organi di rappresentanza, per portare avanti quella cultura, quella loro idea di cultura, che la Repubblica, a loro giudizio, deve assolutamente legittimare, sostenere e incentivare. È di certo un conflitto mosso da poteri, tattiche, guadagni, aspirazioni, audacia, ma anche da un sano e osmotico confronto sul destino di ciò che viene chiamato cultura e sul futuro del Paese2.
L’art. 9 della Costituzione («La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione») è l’articolo per eccellenza del conflitto. Perché tutto è cultura, e ogni processo ha in sé un movimento di ricerca. Non vi può essere un solo ambito umano che non produca ricerca, che non sia azione di ricerca. Anche cucinare ha una sua fortissima connotazione di ricerca tecnica, e di sicuro è un atto culturale, un gesto di cultura. Tanto è vero che per distinguere la Liguria dalla Puglia, spesso si menzionano le pietanze che vengono prodotte differentemente dalle due regioni, al pari del diverso patrimonio storico-artistico e del marcato accento della lingua che le distanzia. Anche intagliare il legno è un gesto culturale e produce ricerca tecnica. Nel Seicento si realizzavano con l’intaglio forme e decorazioni per mobili, ballatoi, balaustre, che nel Trecento non erano minimamente pensate. Cosa ha mosso questo avanzamento di perizia artistica se non una ricerca progredita gradualmente, di bottega in bottega, di influenza in influenza, di regione in regione?
Dunque l’articolo 9 è uno dei più confliggenti che i padri della Costituzione, nel 1947, potessero pensare e firmare. Loro conoscevano la conflittualità insita in una dicitura così anfibia, come il promuovere lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Quale cultura? Quale ricerca? Lo sapevano, e consapevolmente approvarono l’articolo.
Sapevano che pochissime attività umane sono così poco gestibili, così poco individuabili e normatizzabili come la ricerca.
La ricerca è da sempre la conoscenza dell’invisibile, dell’intentato. È zona di frontiera. È zona nebbiosissima, nel senso che è difficile dire: «Quello fa ricerca, quell’altro invece no». Perché la ricerca, il ricercare, il tentare l’intentato, tentare l’invisibile, ciò che non è stato ancora visto o provato, è un gesto che può riguardare tutti, in ogni ambito in cui si applicano le nostre mani, la nostra mente e la nostra volontà. Non c’è uno spazio della ricerca, da isolare da un non spazio della ricerca, perché ogni lavoro, ogni perizia, ogni parola, può divenire – ed è – processo di ricerca tecnica. Un oncologo che studia le modalità di proliferazione di un tumore, per capirne le cause e prevenirlo, fa forse più ricerca di chi raccoglie i diari delle persone di paese una volta scomparse? Il medico cerca la cura e la prevenzione di un tumore, quell’altro accudisce la memoria collettiva di un luogo. Sono ricerche entrambe, e sono indubitabilmente entrambe gesti di cultura. La cultura infatti è termine che viene dal latino colere, coltivare.
I vari difensori dell’esistente diranno che la ricerca viene effettuata dagli organismi di ricerca ufficialmente riconosciuti e avallati nel tempo. Diranno che la ricerca non si improvvisa e viene fatta da specifici e determinati organismi, da specifici e determinati consigli scientifici e umanistici. Che, selettivamente, quella è la ricerca che va promossa e sostenuta.
Ma in verità questi difensori difenderanno soltanto una ricerca, una ricerca possibile, tra le tante, i cui metodi e i cui riferimenti presumibilmente sono stati collaudati e si sono solidificati nel tempo. Difenderanno, insomma, il modo di fare cultura dei padri3.
Ma la forza della ricerca – nell’arte, nella medicina, nella letteratura, nell’architettura, come in tutte le altre attività umane – è sempre stata questa: ereditare la lezione dei padri, ereditare la loro lezione ormai riconosciuta, e trasformarla, metterla in crisi, svilupparla in estremo, anche distruggerla, tradirla in pieno. Dunque la ricerca che la Repubblica e la Costituzione promuovono non è solo quella ufficializzata, quella ormai canonizzata in istituzioni, organizzazioni, studi di settore approvati e tramandati, ma anche la ricerca non ancora riconosciuta, non ancora ufficializzata, ovvero quella di confine, d’avanguardia, più irregolare, più spuria, più indefinibile, più oltraggiosa, all’inizio anche irrisa, dileggiata.
«La Repubblica promuove la ricerca» significa che promuove e accetta non solo l’assetto costituito della ricerca e della cultura, ma anche i processi che lo mettono in crisi, i protagonisti, le figure, le realtà che mettono in radicale discussione il modo con cui si è fatto ricerca e cultura prima di loro. Ogni artista, scienziato, perito, artigiano, sia che studi la mappa genetica dell’essere umano sia che ceselli una pietra preziosa in un filo d’oro, in modo consapevole o inconsapevole intuisce bene l’energia corrosiva della ricerca: sei riconoscente verso il maestro, verso la tradizione, verso ciò che ti ha forgiato, ma questa riconoscenza è la base della sua messa in crisi.
L’articolo 9 della Costituzione, affermando di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, non fa altro che sottolineare la dimensione sanamente confliggente che esiste nel termine «cultura» e nel termine «ricerca»: entrambi i termini abbracciano così tante declinazioni di se stessi, così tante conflittualità al loro interno, che non resistono dentro una sola delle loro declinazioni, non resistono all’interno di una sola delle loro forme. L’articolo 9, dunque, promuove la tradizione e il suo superamento, promuove la tradizione e la sua continua metamorfosi. Promuove l’esistente e, di fatto, ciò che lo uccide. Promuove ciò che per convenzione viene chiamato cultura, ma anche ciò che finora è considerato incultura, barbarie. La Costituzione non dice: «La cultura è» oppure «La ricerca è». La Costituzione splendidamente non ne dà una definizione, non ne limita il campo. Dice che compito della Repubblica è sostenere cultura e ricerca. Ma delineare cosa esse siano, cosa esse rappresentino, come esse si applichino, questo è il nostro lavoro di cittadini, di persone. Sarà la dialettica conflittuale, mai omogenea, mai prevedibile, a contrapporre, affiancare, avvicendare o privilegiare le diverse visioni di cultura e ricerca che gli individui, i gruppi, le associazioni, le scuole, i diversi istituti porteranno sulla scena pubblica.
L’articolo 9 viene infatti ripetutamente ricordato da coloro che vogliono consolidare il loro modo di fare cultura e ricerca, ma viene anche ripetutamente ricordato da coloro che, volendo legittimare le proprie convinzioni e il proprio ruolo, affermano che la Repubblica, per Costituzione, non privilegia alcuna specifica linea di cultura e ricerca, in quanto non ne impone né definizioni né contorni. L’articolo 9 è proprio lì a mettere ciascuno di essi sulla linea del cedimento, del superamento della loro posizione in altro.
Questo articolo è un grande spazio aperto dove tradizioni e innovazioni (entrambe al plurale perché non esistono come monoliti, ma come percorsi) si intersecano, si scontrano, si fanno guerra.
Non puoi mettere in crisi una tradizione se non amandola, amandola fervidamente, ma così fervidamente che ti senti a disagio quando questa tradizione non contempla e non ascolta il tuo contributo, la novità del tuo contributo; perciò amandola necessariamente la forzi, la metti in discussione; e tanto più metti in discussione in modo radicale la tradizione quanto più dimostri di amarla, di esserle visceralmente riconoscente. Per far spazio a ciò che essa non ha contemplato e non ha ascoltato e che la tua novità vuole mettere in campo, arrivi all’atto estremo, ma salutare, importantissimo: combattere chi ami, combattere la lezione dei padri, combattere chi ti ha dato origine, chi ti ha costruito il pensiero, le parole. Non c’entra Freud, il parricidio. C’entra il fatto che ami così fervidamente la tradizione che non puoi permetterti di tacere la tua novità. Maestà e miopia sono le forze della tradizione. Da sempre. È potente il lascito dei padri, ma è anche miope verso il nuovo, il germinante, il nascente.
Perciò la combatti, la lezione dei padri; per questo la metti in crisi; per questo la vuoi rigenerare, la vuoi scuotere, la vuoi giustiziare. Non per ucciderla (non è possibile). Ma per liberarla, per darle una forma che prima non aveva e che contempla te, la tua presenza, che prima non c’era4.
Non accetti che la tradizione escluda la tua novità, la novità della tua persona, delle tue parole, della tua visione, così come non ti accontenti che il tuo sia un amore mediano, tiepido, balbuziente, che si accomoda nella tradizione, salvaguardandola, conservandola nella sua maestà e miopia. Non la vuoi conservare, non ti riesce conservarla. La vuoi squarciare. L’amore per lei e per te, te lo chiede.
Per questo l’articolo 9 della Costituzione è l’articolo per eccellenza che richiama il conflitto; perché il ricercare, sia esso scientifico, tecnico, umanistico, morale, è sempre un movimento nuovo, un’energia, una forza nuova che chiede di essere compresa, legittimata, sostenuta al pari della tradizione precedente che non le dava spazio e assenso.
Chi attacca i padri in nome di un nuovo modo di fare cultura e ricerca, si appella all’articolo 9 della Costituzione, in virtù di ciò che esso dice. Chi vuole consolidare l’esistente, contro i barbari che arrivano, si appella ugualmente all’articolo 9 della Costituzione, in virtù ugualmente di ciò che esso stesso dice.
Ecco perché questo articolo e gli altri undici fondamentali sono diventati fondativi di una comunità. Perché in essi il senso contempla una pluralità di sensi che permette il gioco democratico del conflitto, degli ideali contrapposti, della propria affermazione all’interno di una regola costituzionale che include altre visioni, altri punti di vista, ma non esclude e non può escludere il mio.
La Costituzione, di per sé, non presidia, non tutela alcuna idea di cultura, altrimenti diverrebbe un manifesto politico, un’agenda politica che alla cultura affida una specifica definizione e una specifica funzione.
Chi non capisce questo discorso doppio della Costituzione, questo dissos logos, non entra neanche con un centimetro del proprio intelletto nella comprensione di questo testo basilare per la nostra comunità.
Dunque, quali conseguenze si porta dietro? La prima conseguenza è che il nostro Paese è pronto, costituzionalmente, ad accogliere le più sovversive delle trasformazioni culturali, di ricerca e di sperimentazione. Nessuna trasformazione può essere inibita. Nessuna trasformazione è, a prescindere, rifiutabile. Nessuna tradizione può, in nome della Costituzione, inibire a lungo la sua metamorfosi, giacché se le forze nuove avranno potere, pressione, maggioranza e capacità per imporsi, tale trasformazione sarà inevitabile.
Oggi noi riteniamo che sia un gesto di cultura aprire un museo, tenerlo aperto, accudirlo. Ma costituzionalmente non possiamo negare la possibilità che un giorno prevalga un’altra idea di cultura, per la quale i musei sono luoghi da chiudere, da smantellare e le loro opere d’arte da disperdere, o allestire altrove. Oggi per noi è quasi una bestemmia l’idea che un museo chiuda e le sue opere vengano disperse. Ma costituzionalmente non possiamo negare l’eventualità ...

Indice dei contenuti

  1. Libertà di cultura
  2. Colophon
  3. 1. Cultura e ricerca
  4. 2. Paesaggio e patrimonio storico-artistico
  5. 3. Comunità
  6. 4. Memoria e comunità
  7. 5. Superare la Costituzione
  8. 6. Principi «montagna», patrimoni e Costituzioni transitori
  9. 7. Una proposta politica
  10. 8. Liberi di essere diversi
  11. Nota dell’autore
  12. Note
  13. Indice