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Vita, storia, politica nel biopic italiano

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Vita, storia, politica nel biopic italiano

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Andreotti, Berlusconi, Moro, Mussolini: ciascuno incarnazione di una specifica immagine del potere, tutti protagonisti di film che hanno segnato l'immaginario recente. Il cinema biografico è in continua espansione e il mondo della politica cattura sempre di più il suo interesse, soprattutto in Italia. Anziché considerarlo un semplice fenomeno commerciale, questo libro propone di pensare il biografico-politico come l'espressione più tipica del cinema contemporaneo: è qui infatti che si possono comprendere con chiarezza gli incroci tra estetica e politica, le strategie di costruzione del senso comune, le forme di autorappresentazione di una comunità nazionale. E se l'intreccio originale di vita, storia e politica definisce il carattere peculiare del pensiero italiano, il cinema biografico-politico è allora il luogo più fecondo per riflettere sulla memoria storica e sul futuro della nazione.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849859799

Capitolo 1
Biopolipics: storia e politica della vita mediale

Elisabetta II, Adolf Hitler, Tony Blair, Silvio Berlusconi, Giulio Andreotti, Jacqueline Kennedy, Abraham Lincoln, Margareth Thatcher, Benito Mussolini, Nelson Mandela, Aldo Moro, George W. Bush: ecco una piccola lista – ma già sufficiente a indicarne l’incidenza sul panorama filmico – di recenti biografie audiovisive dedicate a figure che condividono un tratto ben definito, l’essere cioè ciascuna l’incarnazione di una specifica immagine del potere. A ben guardare non si tratta semplicemente di rappresentanti della scena politica mondiale, soprattutto novecentesca, ma di personaggi dotati di un’identità visiva riconoscibile, cesellata nel tempo, che si sovrappone alla mera apparenza esteriore e in qualche modo a loro sopravvive, dopo la morte politica e fisica. C’è infatti nei loro corpi e nella nostra memoria qualcosa che eccede la semplice funzione o la carica ricoperte, un sovrappiù stratificato che in qualche modo garantisce la fissazione di specifici tratti attraverso un processo di schematizzazione più o meno raffinato ed elaborato. Tratti che possono essere interiori, esteriori o accessori e che sono concepiti per essere – almeno idealmente – imperituri, analogamente al doppio corpo sovrano della teologia politica medievale1. La canottiera di Bossi, la barba di Rasputin, la felpa di Salvini, la camicia bianca di Renzi, i tailleur della regina Elisabetta o il ciuffo di Trump2: un lungo campionario di attributi iconografici che sono alla base ai processi di riconoscimento e identificazione da parte degli osservatori di queste immagini che costituiscono ormai il piano principale dell’ordine discorsivo.
Nella storia dell’arte e della cultura occidentale, tali attributi iconografici sono sempre stati la componente fondamentale per la rappresentazione di due tipologie umane: santi e sovrani. E, notoriamente, dovevano accompagnarne il racconto della vita e delle gesta e garantirne la presenza in assenza3, anche e soprattutto in termini di efficacia simbolica. La natura agiografica di queste produzioni definiva uno spazio persuasivo chiaramente scevro da ogni riferimento critico; non che tutto ciò sia necessariamente connaturato al regime biografico, ma basta scorrere rapidamente l’elenco dei biopic prodotti nel periodo aureo delle biografie filmate, Hollywood tra il 1927 e il 1960, per accorgersi che l’intento celebrativo è il vero architrave che li sorregge: il film biografico diventa così uno dei mezzi principali per (ri)scrivere la storia privandola di molti degli aspetti controversi e per fornire un modello conformante per il presente4. Questo quadro generico è stato ampiamente rimesso in discussione dai film stessi, a partire da Quarto potere di Orson Welles (1941), e nel corso dei decenni i biopic statunitensi hanno di volta in volta sviluppato un’attitudine critica, parodistica o decostruttiva, oggi elementi imprescindibili di una buona parte di essi5. Ciò non toglie che molti esempi recenti e fortunati sembrino ricalcare il modello agiografico, seppur mitigato da elementi di segno opposto, sollecitando alcune domande: quale ruolo si profila all’orizzonte per il cinema, nel momento in cui gioca sul terreno scivoloso della riproduzione esplicita – quasi una duplicazione – della realtà? Si tratta di un’abdicazione della sua potenza configurativa in favore di un’ostensione iconica, o al contrario, di una presa d’atto dell’inevitabilità del carattere mediato dell’incontro sensibile con il mondo esterno attraverso un rilancio delle proprie prerogative? Le risposte avanzate nelle pagine seguenti non saranno necessariamente univoche, piuttosto si presenteranno come ipotesi che proveranno a delineare alcune linee di sviluppo delle immagini contemporanee.

Il biografico e il politico

Definire il film biografico sembra un’impresa ardua, soprattutto per la sua apparente immediatezza. Ellen Cheshire sintetizza bene questo paradosso, nel momento in cui introduce in esergo la definizione semplice e generica proposta da George F. Custen, «film che rappresenta la vita di una persona reale, passata o presente»6, per constatare poco oltre che «definire un bio-pic è notoriamente difficile; a differenza della maggior parte degli altri generi non esiste uno specifico repertorio di codici o convenzioni»7. In realtà, questa vaghezza consente anche una libertà creatrice positiva, tanto dalla parte del consumo che della produzione. Tra questi, il primo è che il termine biopic diventa un contenitore sufficientemente ampio e flessibile capace di includere pressoché qualsiasi racconto e dunque in grado di modularsi secondo le attese degli spettatori o semplicemente le mode, in una miscela di pubblico e privato, retroscena e già noto, che indubbiamente mantiene un grande fascino. Anche perché si tratta di un filone che si basa principalmente su un elemento consustanziale alla prassi cinematografica: la capacità del cinema di far rivivere il passato e presentificare l’assenza, uno dei suoi tratti più tipici e incisivi, l’alchimia che preserva il “sogno a occhi aperti”, e non stupisce certo che lo sviluppo tecnologico non potesse bastare da solo a preservare la magia della settima arte. La proliferazione delle biografie cinematografiche sembra pertanto essere una conseguenza della necessità di mantenere viva l’illusione referenziale attraverso un’artigianalità raffinata che sfrutta ancora le tecniche delle maestranze: trucco, costumi, scenografia. Oltre ovviamente alla qualità della performance attoriale, che sempre più frequentemente orienta l’interpretazione verso un’aderenza virtuosistica che porta all’esasperazione il precetto dell’immedesimazione.
La macchina hollywoodiana, nelle sue grandi produzioni, pare orientarsi così lungo due grandi direttrici: il racconto del fantastico più o meno futuribile, che sfrutta a piene mani le innumerevoli possibilità offerte dalla tecnologia digitale, e la riproposizione della storia più o meno recente, che invece porta al massimo grado la professionalità delle maestranze. Simulazione contro illusione. Il destino di entrambe è profondamente intrecciato, considerando che queste due tendenze sono sorte sostanzialmente in concomitanza con l’affermazione dell’arte filmica: così, se negli anni ’50 e ’60 la rozzezza degli effetti speciali inficiava l’effetto di verità della messa in scena fantastica, il filone storico-biografico si orientava con grandi produzioni verso epoche lontane, sancendo il successo del genere peplum (e delle figure dell’antichità, Spartacus di Stanley Kubrick del 1960 e Cleopatra di Joseph L. Mankiewicz del 1963, ad esempio), e incorporando, data la distanza temporale e culturale, parte di quel fantastico che non poteva rivolgersi con pieno profitto al futuro ma piuttosto al passato. Il perfezionamento e l’impiego della tecnologia digitale permette oggi di costruire mondi inventati ma pienamente veridici dal punto di vista del grado di realtà percepita8, mentre il biografico si rivolge con sempre maggiore insistenza verso una storia recente e addirittura contemporanea, in modo da stabilire una prossimità temporale tra spazio della rappresentazione e spazio della ricezione9.
Vi sono molte altre ragioni che contribuiscono a determinare la versatilità dell’“oggetto biopic”, che si riflette nella sua facilità di produzione e nel successo di pubblico. Se il cinema americano ha dettato per moltissimo tempo le regole del gioco biografico, oggi questo è un fenomeno pienamente transnazionale: Neruda e Jackie (entrambi del 2016) del cileno Pablo Larraín, rispettivamente sul poeta cileno (Luis Gnecco) e su Jacqueline Kennedy (Natalie Portman), The Lady (2011) del francese Luc Besson, che racconta la battaglia di Aung San Suu Kyi (Michelle Yeoh), The Queen (2006) dell’inglese Stephen Frears con Hellen Mirren e Martin Sheen sul conflitto tra la regina Elisabetta II e Tony Blair all’indomani della morte di Lady Diana, Mandela: la lunga strada verso la libertà (2013) di Justin Chadwick con Idris Elba, The Sun (2005) di Aleksander Sokurov con Issei Nogata nei panni dell’imperatore Hirohito, Soegija (2012) di Garin Nugroho con Nirwan Dewanto sull’eroe indonesiano e vicario apostolico Albertus Soegijapranata, Felix Manalo (2015) di Joel Lamangan con Dennis Trillo sul Primo Ministro della Chiesa di Cristo in Thailandia, oltre all’ingente produzione statunitense, almeno da Young Mr. Lincoln (1939) di John Ford a Vice (2018) di Adam McKay con Christian Bale nelle vesti di Dick Cheney, solo per citare alcuni esempi afferenti tanto a cinematografie quanto a memorie nazionali sparse sui cinque continenti.
Secondariamente, è una formula che consente di affrontare qualsiasi tema in qualsiasi modo, traducendo pienamente in campo audiovisivo l’idea di romanzesco letterario10. Attori (My Week with Marylin di Simon Curtis del 2011, con Michelle Williams nei panni della Monroe), registi (Hitchcock di Sacha Gervasi del 2012 con Anthony Hopkins), scrittori (A Quiet Passion di Terence Davies su Emily Dickinson, 2017), musicisti (Ray di Taylor Hackford con Jamie Foxx, 2004), pittori (Turner di Mike Leigh sul grande pittore inglese, 2014), sportivi (The Fighter di David O. Russel, con Christian Bale e Mark Whalberg, 2010), soldati (American Sniper di Clint Eastwood del 2015, con Bradley Cooper che interpreta Chris Kyle, il più letale cecchino americano della storia), cittadini comuni (Erin Brockovich di Steven Soderbergh con Julia Roberts, 2000), addirittura accademici (Hannah Arendt di Margarethe von Trotta che si concentra sulle vicende del reportage sul processo Eichmann a Gerusalemme, 2013), e ovviamente politici: non c’è ambito degli interessi umani che non possa essere oggetto di messa in scena.
In terzo luogo, il film biografico dà origine a una produzione capace di attraversare i confini di stile: si pensi ad esempio alla distanza che separa da un lato I’m not there (2007) di Todd Haynes, dedicato a Bob Dylan e ispirato alla sua poetica, con sei attori diversi a rappresentarne altrettante sfaccettature, o American Splendor (2003) di Robert Pulcini e Shari Springer Berman, incentrato sul disegnatore Harvey Pekar e sulla sua opera fumettistica, con Paul Giamatti e lo stesso Pekar, e dall’altro Snowden (2016) di Oliver Stone, ricostruzione minuziosa della (breve) carriera dell’analista informatico divulgatore di informazioni segrete, o The Iron Lady (2011) di Phyllida Lloyd, agiografia “leggera” di Margaret Tatcher, che ha dato grande lustro all’interpretazione virtuosistica di Meryl Streep. Se le opere biografiche in passato erano state accusate di una rigida fissità formale, oggi al contrario sembra che possano incentivare la sperimentazione, anche perché si presume che gli eventuali passaggi oscuri possano essere colmati da una conoscenza pregressa o al limite a posteriori.
Inoltre, il biopic travalica anche le separazioni tra medium e regimi discorsivi: è infatti un oggetto pienamente crossmediale e transmediale – basti ricordare le serie Narcos (2015-2017) e The Crown (quest’ultima la produzione originale più costosa di Netflix sinora, iniziata nel 2016) oppure, in ambito italiano, le numerose ricostruzioni della figura di Aldo Moro e del suo sequestro – in grado di offrire materia tanto per opere pienamente di finzione e intrattenimento (Evita di Alan Parker con Madonna del 1996) quanto per il documentarismo d’autore (The Fog of War di Errol Morris, con protagonista lo stesso Robert McNamara attorno al quale il film ruota, del 2003).
In ultimo, il cinema biografico recente presenta una grande flessibilità circa l’arco temporale descritto, consentendo tanto l’affresco storico e la messa in prospettiva sulla lunga durata, come J. Edgar (2011) di Clint Eastwood che traccia l’intera parabola esistenziale di Hoover (interpretato da Leonardo Di Caprio), quanto il restringimento della focale su una tranche de vie gravida di significato (Il divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti di Paolo Sorrentino con Toni Servillo del 2008, che affronta il biennio 1991-1992 come punto di svolta della carriera politica di Andreotti), quanto infine su un singolo episodio che diviene il crocevia di raccordo tra un passato e futuro (ad esempio, Sully ancora di Eastwood con Tom Hanks del 2016 sul famoso atterraggio d’emergenza dell’aereo dell’US Airways nel fiume Hudson).
Tutte queste ragioni, che contribuiscono evidentemente al successo del biopic nell’ambito della produzione e del consumo, ne determinano al contempo l’incertezza perimetrale. Anche restringendo il campo al biografico politico, più propriamente l’oggetto di queste pagine, le difficoltà non sembrano attenuarsi: che cosa si intende esattamente con “politico”? Si fa riferimento a una dimensione operativa, programmatica o tematica? Oppure è necessaria la compresenza di questi tre aspetti per poter indicare un film come “biografico-politico”? La questione non è di facile definizione; in termini ampi e generali, i film biografici politici ai quali si farà riferimento in questo libro sono film che convocano in modo esplicito personaggi appartenenti alla realtà extra-filmica e legati alla gestione, all’esercizio o alla critica del potere per trasporne i tratti fisiognomici e comportamentali – sufficientemente riconoscibili per attestarne con sicurezza il modello pregresso di cui sono in qualche modo una copia – all’interno dello spazio della rappresentazione.
L’ambito della politica è ovviamente il principale archivio dal quale attingere per mettere in scena tali personaggi, ma anche il mondo dell’industria, dell’amministrazione, dell’esercito e della malavita organizzata possono rientrare nel...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Introduzione.Raccontare la vita, analizzare il potere
  6. Capitolo 1 Biopolipics: storia e politica della vita mediale
  7. Capitolo 2 Vita
  8. Capitolo 3 Storia
  9. Capitolo 4 Politica
  10. Capitolo 5 Per un pensiero filmico italiano
  11. Bibliografia
  12. Note
  13. Correlati