DELLA DEMOCRAZIA, DEI SUOI EFFETTI E DEI SUOI GUASTI
Far bastonare il popolo, dal popolo, in nome del popolo
Fossi in voi comincerei a rimboccarmi le maniche! Ma non per lavorare ancora di più, ma per cominciare a menare le mani, perché se è vero come è vero che verranno aumentate ancora le tasse, delle due l’una: o siete degli schiavi senza possibilità di redimervi (Etienne de la Boétie), oppure a un certo punto perderete la pazienza e la smetterete di accettare pedissequamente i soprusi di quel branco di maiali (più eguali degli altri per dirla con Orwell) che siede in Parlamento.
Eccolo lì – dirà qualche benpensante – siamo di fronte al solito burbero, un po’ populista, che per raccogliere qualche pacca sulla spalla e un paio di applausi la mette giù dura.
Nossignori, io sto cercando comunque di salvarmi le chiappe, nonostante voi democratici di destra e di sinistra. Il fatto è un altro, è che la storia della libertà è una storia di botte da orbi, soprattutto quando la misura diventa colma.
Avete mai letto il libro For Good and Evil? È un mappazzone di 600 pagine, scritto da Charles Adams ed edito da Liberilibri, che ripercorre la storia dell’umanità vista attraverso le lenti d’ingrandimento della fiscalità. L’autore – per farla breve – si accorge che una comunità muore quando la quantità di parassiti (tutti coloro che vivono, direttamente o indirettamente, a spese dello Stato) è superiore alla quantità di produttori di ricchezza. E dato che in Italia, quasi il 60% del famoso Pil è spesa sociale, ormai ci siamo.
Ma Adams, nel suo bellissimo e istruttivo libro, ci fa notare anche un’altra cosa: nessun tiranno ha mai mollato l’osso fino a quando non è stato preso a legnate sui denti. Nessun aguzzino di Stato (si chiami Equitalia, Esatri, Agenzia delle Entrate o come diavolo preferite) ha mai smesso di bussare alla porta dei sudditi, sino a quando i sudditi, dopo avergli aperto, hanno cominciato a rincorrerlo, bastonarlo, impeciarlo e riempirlo di piume per mostralo al pubblico ludibrio. A volte lo impalavano nella pubblica piazza.
So che suona forte quel che vi racconto, ma è così, è la storia. Quando i giornali gonfiano il petto raccontando la Rivoluzione dei gelsomini che ha contagiato il Maghreb, dovrebbero ricordare sempre ai loro lettori che quella rivolta non è avvenuta col permesso in carta da bollo concesso – deo gratias – dal comandante in capo di quei Paesi. È accaduta perché una miriade di persone con le scatole rotte ha imbracciato forconi e affini per protestare contro il potere. Certo, non avevano le pance piene come le nostre forse…
Ritornando, però, al saggio del buon Adams di cui sopra, l’autore ci ricorda anche che – dai tempi degli Egizi sino all’inizio del Novecento – il 99% delle rivoluzioni è scoppiato per questioni fiscali. Ficcatevelo in testa, cari lettori: «Non esiste libertà politica senza libertà economica» e con tutta la buona volontà, non riesco proprio a comprendere dove stia la libertà in un Paese in cui il 70% del frutto del nostro lavoro finisce nelle tasche di quella casta di nullafacenti e delinquenti, che poi ridistribuiscono a pioggia i nostri denari, estortici con la minaccia della galera, per mantenere una miriade di clientele.
Quando nel 2009 ho scritto che il 2010 sarebbe stato peggio dell’anno prima e che la crisi economica innescata da Lehman Brothers sarebbe stata permanente, qualche liberista fricchettone sorrideva. Invece, eccoci qua con gli Stati Uniti economicamente retrocessi per la prima volta nella loro storia, con la Grecia (fallita) gonfiata di denari pubblici senza risultato, con Irlanda, Spagna e Italia sull’orlo del burrone.
Dentro questo quadretto poco edificante, il Bel Paese, declassato da Moody’s, appare sempre più una landa senza futuro. È anagraficamente vecchio, è malato di welfare (che peraltro non funziona ed è fonte di sprechi colossali), è incancrenito dal sindacalismo becero e protezionista, è strangolato da una miriade di caste e ordini con le unghie affilate per rimanere avvinghiati ai privilegi di cui ingiustamente godono e, dulcis in fundo, è comandato da ominidi retrivi del calibro di Umberto Bossi (il vero arci-italiano) et similia. Questa è la statura dei leader che correte a votare.
L’Unione europea s’è già detta pronta a salvare l’Italia (per la cronaca, anche se nessuno lo scrive, se fossero stati rispettati gli originali parametri di Maastricht, l’Italia non sarebbe mai entrata nell’Unione monetaria, visto che già prima del 2000 debito pubblico e deficit erano fuori controllo). Ora, però, Bruxelles fa la faccia dura col Berlusca di turno e – a mezzo stampa – ha chiarito che il governo italico, tecnico o meno, dovrà obbedire, stare schiscio e massaggiare le tasche dei suoi abitanti. Se la stanno facendo sotto i burocrati continentali, perché sanno che se saltasse il Paese dei Pulcinella salterebbe tutto il diabolico marchingegno europeista, l’Unione sovietica e democratica europea.
I nodi vengono al pettine, il truffone monetario è servito, la menzogna non può essere raccontata a tutti per sempre. Un mio amico, Franco, forte del suo buon senso un giorno mi ha detto: «Sai una cosa? Mi sono accorto che dove c’è lo Stato, quando non c’è furto c’è spreco!». E Franco è una persona civilissima che vive in Svizzera.
A queste parole ci aggiungo un aforisma di Oscar Wilde: «Democrazia significa semplicemente far bastonare il popolo, dal popolo, in nome del popolo». Per informazioni, rivolgetevi in Val di Susa e a quel Bava Beccaris di Maroni, oppure a qualche imprenditore che ha provato a ribellarsi al potere vessatorio del fisco.
La tragedia dei beni collettivi
di Robert J. Smith
Ciò che è di tutti è di nessuno. Ciò che è di nessuno diventa territorio di sfruttamento da parte di tutti. Una lezione, questa, che viene impartita sin dai tempi di Aristotele, ma che puntualmente rimane inascoltata. Se la proprietà pubblica (un ossimoro) fosse la panacea, non si capisce per quale motivo i Paesi più poveri, e spesso inquinati, siano sempre stati quelli socialisti. Privatizzare le balene, ai più, suona come uno slogan picaresco, quando al contrario dovrebbe essere inteso come una soluzione.
Il senso della proprietà pubblica è che le risorse sono in comune fra tutti: tutti sono proprietari e tutti le possono utilizzare. Senza dubbio, la proprietà pubblica è un mito; di fatto essa non è proprietà. Come dice F.A. Harper: «Un punto fondamentale del diritto di proprietà è quello di potersi disfare della proprietà stessa. Se io non posso vendere una cosa significa che non ne sono proprietario». Chiaramente è questo il caso della proprietà pubblica; non solo nessuno può reclamare, o abitare, la parte che gli corrisponde, ma non può nemmeno disfarsi, vendere, quella parte. Gode solo del diritto di utilizzarla, non di possederla. E quel diritto di utilizzarla è solo un privilegio, che lo Stato può abrogare quando vuole. Il biologo ed ecologista Garrett Hardin ha definito questo problema «la tragedia dei beni collettivi».
In Exploring new ethics for survival: the voyage of the spaceship Beagle, Hardin ha scritto:
Hardin intuisce il problema dei beni collettivi meglio di tutti i suoi colleghi. Nonostante ciò, anche lui, fors’anche per le intrinseche difficoltà che sottendono il passaggio da un sistema pubblico a un sistema privatistico, sembra accondiscendere ad alcune forme di controllo di tipo socialista. Gli economisti, in fatto di “risorse di proprietà comune” hanno prodotto un vasto numero di pubblicazioni inerenti i problemi causati dal sistema dei beni collettivi. La maggior parte degli ecologisti non ha ancora preso atto delle analisi di Hardin e continua a pensare che gli animali selvatici siano proprietà di tutti e che sia gli oceani, sia quel che essi contengono siano un patrimonio dell’umanità, che si tramanda come fosse un’eredità comune. Il risultato inevitabile di questo loro sistema è esattamente il contrario di quanto essi pretendono, ovvero conservare l’ambiente.
Qualsiasi risorsa comune, sia la terra o l’aria, l’atmosfera o lo spazio, gli oceani, i laghi e i fiumi, le montagne, i pesci, gli animali in genere e la selvaggina, i giacimenti di petrolio americani e molto altro ancora, può essere utilizzata contemporaneamente da più di un individuo o gruppo. Nessun individuo, per gli ecologisti, ha il diritto esclusivo su una risorsa naturale, né ha il diritto di vietarne l’uso a un altro. Per natura le risorse sono beni collettivi, e al contempo non appartengono a nessuno. E dato che tutti le possono usare, si estinguono e si sprecano rapidamente e totalmente.
La proprietà privata, all’opposto di quella pubblica, permette al proprietario di disporre del valore effettivo, e totale, delle sue risorse e, come conseguenza, l’incentivo economico che gli deriva lo porta a conservare il proprio bene per lungo tempo. Il proprietario di una risorsa (una miniera, la pesca, un bosco, ecc.) vuole poter produrre oggi, domani, ma anche fra dieci anni. E con una risorsa rinnovabile cercherà di assicurarsi una produzione permanente. Consapevoli della natura umana e delle motivazioni date dall’incentivo economico, possiamo capire perché il bisonte americano è in pericolo di estinzione, ma le mucche di Hereford e del Jersey no; perché la quaglia Atwater è in pericolo, ma le galline di Rhode Island Red o di Leghorn o di Barred Rock no.
Con le risorse in proprietà comune, invece, gli utilizzatori non possono recuperare alcun valore effettivo. In questo caso, l’unico modo per assicurare valore economico a una risorsa è quello di sfruttarla il più rapidamente possibile, prima che qualcun altro lo faccia. Ha detto Hardin: «L’oceano è un bene collettivo dove può pescare chi ne abbia voglia. La libertà dei mari significa la libertà dei beni collettivi, il che porta inevitabilmente alla rovina».
Nonostante la quantità di pesci nei mari diminuisca giorno dopo giorno, i pescatori di molti Paesi cercano di incrementare il loro pescato acquistando mezzi sempre più sofisticati per localizzare, conservare e trasportare la loro merce sui mercati. Una società dedita allo sviluppo tecnologico definisce questo comportamento come il modo giusto di fare le cose. Una logica tipica delle società in cui la proprietà delle risorse è comune. Le conseguenze sono state descritte con precisione da Paul e Anne Ehrlich nel libro Population resources environment: una sola nave-fabbrica rumena, equipaggiata con le attrezzature più moderne, ha pescato nelle acque della Nuova Zelanda, in un sol giorno, tante tonnellate di pesce quanto quelle di tutta la flotta neozelandese, composta da 1.500 barche. Una rivista norvegese ha scritto, nel 1966, che «la pesca industrializzata di aringhe è arrivata alle Isole Shetland dove 300 imbarcazioni norvegesi e islandesi, equipaggiate di sonar, hanno pescato quantità favolose di aringhe». La rivista chiedeva: «Si vendicherà l’industria della pesca britannica usando le stesse tecnologie per incrementare la propria pesca di aringhe? In questo caso cosa accadrà alle Isole Shetland nell’immediato? Si uniranno agli altri pescatori per approfittare dell’abbondanza di aringhe o vedranno diminuire le proprie risorse di pesce a causa delle nuove tecniche adottate da norvegesi e britannici?». La risposta è ovvia. Nel gennaio del 1969 i giornali britannici annunciarono che l’industria dell’aringa sulla costa orientale del Paese era finita. Le nuove barche supertecnologiche avevano pescato anche le aringhe più giovani, sfuggite alle maglie larghe delle reti britanniche, interrompendone la procreazione.
Logicamente, non dovremmo lasciare alla tecnologia la soluzione dei problemi dell’eccessiva pesca oceanica. Serve un cambio politico. Il miglioramento tecnologico, nelle proprietà comuni, non fa che avvicinare il giorno della rovina finale.
La prima reazione alla possibilità di rovina e distruzione, quando di mezzo ci sono le risorse comuni, è l’appello alla coscienza e alla responsabilità. L’appello, ovviamente, non sortisce alcun effetto. Durante gli anni 1950-1951 sono state pescate circa 7.000 balene azzurre. L’anno successivo la pesca è scesa a 5.000 esemplari. Durante il 1955-1956 era scesa a soli 2.000 capi. Tre anni dopo a 1.200 e ha continuato a diminuire. La storia di tutte le altre specie di balene è simile. Il loro numero si è talmente ridotto che, salvo Giappone e Russia, tutti gli altri Paesi hanno smesso di pescarle in alto mare. La commissione internazionale per la pesca alle balene (International Whaling Commission) si riunisce ogni anno e suggerisce il numero di esemplari da catturare per l’anno successivo. Ogni anno, Giappone e Russia ignorano le raccomandazioni e pescano molto di più. L’anno dopo, le balene sono meno, i suggerimenti dell’Iwc ancor più restrittivi; la spirale non si interrompe mai. L’unica arma rimasta alla Iwc è l’appello alla coscienza altrui. Dovremmo condannare Giappone e Russia perché non rispettano gli appelli dell’Iwc? Dovremmo diffamarli [come qualche ambientalista peraltro pretende, N.d.A.] per il loro “egoismo”? Se lo facessimo non faremmo altro che dimostrare che non abbiamo capito nulla delle lezioni dateci dalla teoria dei beni collettivi. Ogni Paese, implicitamente, ragiona così: «Dobbiamo pescare le balene prima che qualche altro nostro competitore lo faccia. Le balene non verrebbero salvate dalla nostra moderazione. Nostre azioni unilaterali di stop alla pesca favorirebbero solo i nostri concorrenti, che approfitterebbero della ricchezza rimasta». Insomma, in presenza di risorse comuni, le persone di buon senso non agirebbero in altro modo.
La casta ci deruba di notte
Ringo Starr affermò: «Tutto ciò che il governo tocca si trasforma in merda!». Il batterista dei Beatles non conosceva la casta italiana, la quale riesce sì a trasformare in cacca tutto ciò che riguarda i cittadini, ma – guarda il caso – salvaguardando sé stessa e, soprattutto, i suoi benefit.
Non stiamo parlando della porcata che ha a che fare con la difesa a oltranza degli ordini professionali e delle camarille di cui il deputato pidiellino Paniz (avvocato) va orgoglioso, ma dei denari che la banda di malfattori con residenza tra Montecitorio e Palazzo Madama estorce quotidianamente ai milioni di sudditi che orgogliosamente essi chiamano italiani.
La notizia, peraltro, l’aveva svelata Franco Bechis, su «Libero», e dopo averla letta fa subito montar la voglia di sguainare il forco...