Povera Calabria
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Friedrich Werner van Oestéren visita la Calabria nel maggio del 1908. Per i suoi spostamenti si serve di tutti i mezzi di trasporto disponibili: dal treno alla carrozza, dalla diligenza al mulo e al cavallo. entra in contatto con la gente comune, conversando per quanto glielo consentono le sue conoscenze dell'italiano, ma anche quelle dei suoi interlocutori. L'immagine della Calabria che questo viaggiatore ci lascia è un'immagine composita. Accanto alle sempre presenti suggestioni magno-greche se ne aggiungono altre: la presenza saracena nella tipologia umana, l'accostamento del paesaggio montano della Calabria al paesaggio alpino della Svizzera e dell'Austria, ma anche tratti inediti quale il paesaggio delle baracche che, nate per dare una risposta all'emergenza del terremoto, diventano residenza stabile, quasi uno "stile" abitativo. Le rovine non rimosse, non quelle classiche o quelle medievali, ma quelle prodotte dai terremoti, da ciarpame senza valore diventano cifra della frammentarietà irrelata del moderno. Anche l'"esistenza umbratile" di un povero matto di paese, il matto di Soveria, assurge a simbolo di una condizione umana più generale: la Vienna fin-de-siècle e l'arretrata Calabria per un attimo s'incontrano e si confondono.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849839821
Categoria
Travel
Povera Calabria
Friedrich Werner van Oestéren (1874-1953)
Friedrich Werner van Oestéren (1874-1953)
Al venerato Maestro
J.V. Widmann*
con devozione sincera
* Joseph Viktor Widmann, nato a Nennowitz in Moravia nel 1842 e morto a Berna nel 1911, è uno scrittore svizzero-tedesco autore fra l’altro di libri di viaggio sull’Italia fra i quali il già citato Calabrien-Apulien und Streifereien an den oberitalienischen Seen [N.d.C.].
Arrivo
Chiunque durante il viaggio lungo l’Adriatico da Venezia giù sino a Taranto mi avesse chiesto dove fossi diretto, sentendosi rispondere che desideravo visitare anche la Calabria, faceva subito una faccia preoccupata. Mentre alcune signore si spaventavano a morte, altre invece dichiaravano che avrebbero dato qualunque cosa pur di partecipare a quel «tour pericoloso». Gli uomini chiedevano se avessi con me una pistola e m’invitavano, a ogni buon conto, a esser prudente. Ne dedussi che la Calabria continuava a godere di quella brutta fama che si era guadagnata col brigantaggio, a cui io però personalmente non credevo. Accolsi perciò i loro ammonimenti e i loro consigli con un sorrisetto di superiorità leggermente ironico. Quando, a Bari, signori amabilissimi, tedeschi del Reich, austriaci e perfino qualche italiano, che avevo conosciuto in quella fiorente città mercantile della Puglia, mi raccontarono storie di briganti, anche se datate qualche decennio prima, cominciai a pensare alla possibilità, per quanto remota se non del tutto improbabile, che un caso particolarmente fortunato li avrebbe potuti portare sulla mia strada. Ma non provai alcun brivido di paura; sentii invece nascere in me una speranza, vaga e sommessa, evocata dal desiderio romantico di un’avventura purchessia ormai insolita per il nostro vecchio continente. Nel profondo del mio animo restavo quello che ero: un novello san Tommaso.
Fu in questo stato d’animo che un bel giorno di maggio del 1908 lasciai Taranto per conoscere la più romantica delle province italiane. Presi l’unico treno che mi permetteva di raggiungere Catanzaro da Metaponto in giornata senza dover cambiare. Lo chiamano «accelerato», una denominazione ingiustificata a giudicare dall’orario ferroviario: nemmeno il treno «misto» potrebbe effettuare un numero maggiore di fermate o essere più lento1. All’inizio me ne stetti da solo nel mio scompartimento, e la cosa influì molto positivamente sul mio stato d’animo, intento com’ero ad ammirare il paesaggio. Viaggiavamo in prossimità del mare su un terreno soffice di dune. A destra e a sinistra si vedevano pini di piccole dimensioni ridotti in uno stato pietoso; la metà erano cascanti, i rami bruciati dal sole in parte a terra, secchi. Per la sua tristezza il paesaggio ricordava un paesaggio carsico. Solo i fiori di un rosso splendente che proliferavano in abbondanza davano colore e vita al quadro, una vita, però, che evocava la morte. Come ebbi modo di notare a una fermata dove questi fiori erano particolarmente abbondanti, si trattava di elicrisi, semprevivi, poveri cardi insomma. Anche i fichidindia, che ora cominciavano a imperversare, non contribuivano certo a rendere il quadro più vivace. Le pale carnose con i germogli senza fiori erano di un verde spento, smorto. A un certo punto i pini cedettero il posto a una distesa arida costellata di cespugli minuti, scuri, che ricordavano un formicaio.
Ora avevamo raggiunto Metaponto. Solo quel che resta di un tempio costruito forse all’epoca di Pitagora e il rinvenimento di molte monete antiche ne attestano ormai l’antichità e il periodo aureo. Da lì si dirama una linea ferroviaria che attraverso la Basilicata, passando per il suo capoluogo Potenza, porta a Napoli. Cambiammo treno. Non avevo ancora preso posto nello scompartimento del treno già pronto per la partenza che mi accorsi che il capostazione si trovava in un grave imbarazzo: mancando la vettura postale doveva trovare una sistemazione all’impiegato addetto alla consegna e al ritiro della posta per la Calabria. Alla fine una soluzione fu trovata, ma a discapito della mia splendida solitudine di poeta: per il disbrigo delle sue incombenze d’ufficio gli fu assegnato l’unico scompartimento di seconda classe esistente e i tre passeggeri ‘espropriati’ mi furono assegnati come compagni di viaggio. A raggiungermi, inerpicandosi attraverso la porta, furono dapprima un ragazzo e un adulto, tutt’e due dall’aspetto persone assolutamente normali, chiaramente del posto; poi un portabagagli spinse nello scompartimento tre bagagli a mano non particolarmente eleganti e nemmeno tanto voluminosi. E poi fu solo a fatica che riuscii a trattenere un grido che avrebbe probabilmente svelato le diverse e contrastanti sensazioni che provavo in quel momento. Apparve un cappello a punta, morbido, di colore nero, audace nella forma, di dubbia pulizia, un cappello a larghe tese che per chi proveniva dalla Mitteleuropa rientrava già nella categoria dei cappelli alla calabrese. Mio Dio, quel cappello io lo conoscevo, l’avevo già visto! Il cappello crebbe dapprima della misura di un predellino, quindi di un secondo predellino per arrestarsi poi per qualche secondo prima di conquistare la misura del terzo e ultimo predellino. Il suo proprietario, che era rimasto attaccato alla maniglia, stava cercando di liberare la tasca destra della giacca rimasta impigliata, compiendo dei movimenti maldestri che accompagnava con l’imprecazione «Diavolo! ». Guardai in faccia l’uomo che stava lottando per liberarsi: sì, era proprio lui, il Colosso di Bari! Una definizione così impegnativa mi obbliga a fornire una descrizione del personaggio, compito peraltro gradito. Vediamo un po’ se ci riesco! La testa piccola, il viso incorniciato da una barba folta grigio-bionda, sul naso minuto che contrastava con le labbra tumide, occhiali imponenti ricoperti da un secondo paio di occhiali di vetro scuro fintanto che continuava a splendere il sole abbagliante del meridione. Alto di statura, solo che l’altezza perdeva di significato a causa della larghezza ben più consistente. Proprio dal collo prendeva il via una curvatura superba che all’altezza dei reni si trasformava in una circonferenza bella tonda, il cui diametro, a calcolarlo per difetto, raggiungeva almeno un metro e venticinque centimetri. Questa circonferenza che tendeva a pendere verso il basso, assumendo la forma di una sfera, riduceva l’effetto prodotto dalle gambe che per questo motivo sembravano più piccole di quanto in realtà non fossero. Ma la loro mole era ancora abbastanza imponente e mi ricordava prepotentemente il cippo di una colonna, quel che restava di un antichissimo tempio di Poseidone, che avevo visto a Taranto. Il taglio del vestito sdrucito potenziava l’effetto prodotto dai singoli dettagli. Era a Bari che avevo notato quell’uomo per la prima volta, ma l’avresti riconosciuto fra mille e, in omaggio al luogo dove l’avevo scoperto, gli avevo conferito il titolo superbo di Colosso di Bari, un titolo che lo metteva in concorrenza col Colosso di Rodi. Appena l’uomo si fu liberato ed ebbe messo piede nello scompartimento, fui letteralmente sconvolto dal suo aspetto. «Potrebbe essere il migliore amico di Karl Moor»2, mi dissi, ma mi sbagliavo. Spesso l’apparenza inganna – e in questo caso ingannava. In quel Colosso albergava l’anima di un bambino: Ercole nei panni di Onfale3! E difatti la prima cosa che fece fu: togliersi la giacca danneggiata, tirar fuori da una valigetta una scatola lucente e riparare con calma lo strappo. Questa operazione e la timidezza con cui il Colosso, a lavoro concluso, si nutrì a pane e formaggio, gli tolsero ai miei occhi ogni alone romantico. Fu quella la mia prima delusione calabrese. Fra l’altro già l’imprecazione «Diavolo!», che non poteva provenire dall’animo di un italiano, ma doveva essere la traduzione di un modo di sentire forestiero, mi aveva fatto capire, più di tutto il resto, che il Colosso non doveva essere del posto. Stavo in allerta e, non volendo che qualcuno mi rivolgesse la parola, tenni la bocca chiusa, o, meglio, serrata su una pipetta che avevo caricato di tabacco inglese. Questa operazione e il fatto che fossi sprovvisto di barba erano in genere sufficienti a farmi passare per un britannico. Anche in questa circostanza, come ebbi modo di intuire dal bisbiglio della gente, avevo avuto successo. Ero pure convinto che il Colosso fosse un nordico, ma sicuramente non britannico.
Me ne stetti nel mio cantuccio indisturbato a guardare con calma il paesaggio di cui la persona che mi stava di fronte non mi toglieva la vista. Quanto dovette essere insicura un tempo la costa della Calabria sino all’estremità del Golfo di Taranto e oltre, lo si intuisce dalle torri di guardia distribuite in gran numero lungo il litorale; torri cilindriche venerande, qualcuna con annessa una piccola costruzione in muratura ormai semidistrutta, vuota, memore di antiche ruberie normanne e di incursioni turche. Su una di queste torri potei scorgere il mio primo brigante calabrese, un predatore che si sollevò da terra stridulo e volò alto nel cielo disegnando ampie volute. Lungo il terrapieno della ferrovia crescevano rigogliose le agavi mentre dal verde scuro del fogliame mi salutavano i mandarini e le arance. A sinistra, ora lontano, ora tanto vicino che quasi credevi di poterlo toccare con le mani, il mare meravigliosamente azzurro e splendente di sole; a destra s’incominciava a scorgere Rocca Imperiale. Il paese è costruito su una rupe spoglia, non elevata, scoscesa, dal profilo irregolare dalla base alla sommità, che si staglia nitida dall’oscurità delle montagne che affiorano nello sfondo. Era l’altopiano calabrese. Intravidi perfino una cima innevata: fu come se a salutarmi fossero le montagne della mia patria. Le catene di montagne andavano infittendosi come pure andavano infittendosi le macchie di agavi e di cactus che si stendevano alti dal mare ai monti per quanto si spingesse lo sguardo. Il mio Colosso scese alla stazione di Rossano, una località che possiede cave di marmo e di alabastro. Forse quell’uomo non era altri che Thor4, il possente dio germanico dal martello magico? All’improvviso fu come se nello scompartimento si fosse fatto un gran vuoto. Solo ora mi rendevo conto dell’imponenza della massa corporea della persona che era stata seduta di fronte a me.
Nel frattempo era sceso anche l’altro signore. Nello scompartimento surriscaldato ero rimasto da solo col ragazzo. Il mio compagno di viaggio era conosciuto in tutta la linea. Non c’era stazione nella quale, appena si affacciava dal finestrino, il capostazione, o il suo aiutante, non mostrassero di conoscerlo e non lo salutassero cordialmente, chiedendogli da dove veniva e dove fosse diretto, e di come stavano in salute lui e i suoi familiari. Ben presto imparai a memoria le risposte alle domande che gli facevano e fui anche informato su tutto ciò che lo riguardava. In una di queste conversazioni avevo sentito una storia che aveva finito col suscitare in me un grandissimo interesse. Già a Taranto avevo letto che in quel tratto due giorni prima si era verificato un incidente ferroviario che aveva provocato un morto e dodici feriti. Il giornale diceva anche che stavano lavorando al ripristino della linea liberandola dai detriti. Ora venivo a sapere che il macchinista e il fuochista, per paura di dover rispondere dell’incidente e per paura della pena, si erano dati alla fuga e avevano preso la strada dei boschi. Mi si schiudeva a questo punto uno scenario romantico: quei due uomini potevano forse prendere il posto del brigante Musolino, che stava trascorrendo i suoi ultimi giorni nel fondo di un carcere in preda alla pazzia, e dare vita a una nuova epoca del brigantaggio in Calabria. Quando però nei pressi di Crucoli vidi salire due carabinieri armati di tutto punto, le mie fantasticherie romantiche subirono un drastico ridimensionamento: Dio mio, al giorno d’oggi è difficile fare anche il brigante! A Crucoli (così si chiamava la stazione dove si era verificata la disgrazia) c’erano ancora tracce dell’incidente. I due vagoni si trovavano leggermente danneggiati su un binario secondario mentre gli operai stavano riparando le rotaie.
Mi passavano davanti agli occhi vigneti, alberi di fico, uliveti. All’improvviso il mio sguardo fu catturato da un’altra immagine: da una lingua di terra che si spingeva nel mare stava emergendo lentamente una piccola città. Le case grigie, rese splendenti dal sole tanto da accecarti, si stagliavano nell’azzurro profondo del mare quasi calmo. Vista dal mare questa città deve avere un aspetto ancora più gradevole, con la lunga teoria di colline che s’innalzano lentamente nello sfondo verso gli alti crinali dei monti lontani. Si trattava di Crotone, l’antica Kroton della Magna Grecia, che nulla aveva contribuito a rendere tanto celebre quanto il breve soggiorno di Pitagora in quella città, ma che aveva goduto di grande fama in tutta la Grecia anche grazie a un’amministrazione dello stato equilibrata, all’eccellenza dei suoi medici, oltre che per aver dato i natali a molti vincitori dei Giochi olimpici. In seguito, quando era già semidistrutta, aveva servito per qualche tempo da piazza d’armi al grande figlio di Amilcare e nel sec. X fu testimone di una vittoria dell’imperatore tedesco Ottone II sui Greci e sui Saraceni e, subito dopo, della sconfitta inflittagli da quegli stessi avversari. Dell’antica Crotone resta oggi solo un monumento diventato il simbolo della città. Sul Capo che da lei prende nome, esposto alla furia delle intemperie, si erge in malinconica solitudine l’antica colonna dorica di Crotone, ultimo resto di un tempio famoso dedicato a Giunone e che ora cattura il nostro sguardo e il nostro animo.
Il sole intanto stava per tramontare mentre la luce del crepuscolo cominciava ad avvolgere il paesaggio. Non riuscivo più a distinguere nulla e per il resto del viaggio sino a Catanzaro Marina, che raggiunsi alle otto di sera, fu solo buio e sogno. Quando scesi dal treno, nel cielo già splendeva la luna piena. Sul disco della luna che aveva un colore pallido fra il giallo e il bianco, si potevano distinguere tutte le macchie scure di cui gli uomini che non credono agli dèi si servono per dare un volto all’astro celeste. Nel punto in cui la luce della luna lambiva il mare, esso splendeva di un argento abbagliante. Non ero ancora giunto alla meta del viaggio. Altro cambio di treno. Una linea secondaria porta dalla città di mare al capoluogo, da Catanzaro Marina a Catanzaro Sala, e da lì alla vicina costa occidentale della Calabria. Vidi solo che la linea attraversava un paesaggio collinare incassato, quasi già montagna, quand’ecco che, mentre mi affacciavo dal finestrino, comparvero al mio sguardo, splendenti, in alto davanti a me, le luci della città.
Dopo dieci ore di viaggio, ero giunto finalmente a destinazione. Mi restava solo da affrontare un breve tratto di strada in carrozza. Salii su una carrozzella tirata da due cavalli nella direzione delle luci che mi facevano intuire nel buio la prossimità e la posizione elevata della città. Catanzaro! L’Europa conosce il nome di questa città che non aveva mai udito prima del terribile terremoto che colpì la Calabria nel 1905 – credo fosse in autunno – mietendo vite umane e distruggendo l’opera degli uomini. Per la mia generazione quel nome resta indelebilmente legato al ricordo di quei tristi eventi. Anche per me, già nel...

Indice dei contenuti

  1. Povera Calabria
  2. Colophon
  3. Introduzione di Teodoro Scamardì
  4. Povera Calabria