Fuoco al Corano in nome di Allah
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Fuoco al Corano in nome di Allah

L'Inquisizione islamica contro la stampa

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Fuoco al Corano in nome di Allah

L'Inquisizione islamica contro la stampa

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La storia del libro nell'Islam, è storia della proibizione per secoli del libro stampato in arabo e turco, pena la morte. Iniziò col rogo a Istanbul nel 1538 del Corano stampato da due tipografi bresciani, cui venne mozzata la mano. La motivazione di quel divieto è cruciale: il dogma che vuole che il Corano non debba essere interpretato dai fedeli. Rifiuto dell'essenza della modernità. Da qui la voluta sterilità culturale che segnò il declino della civiltà islamica, che impedì che si formassero la cultura diffusa e quei "citoyens" che hanno invece innervato la forza espansiva dell'Occidente. Nella "non storia" del libro stampato nell'Islam è la traccia per comprendere la rivolta araba di oggi, deflagrata quando si è finalmente formata quella "massa critica" di cittadini sinora assente: i giovani formati sui libri e sulla loro critica.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849843040

III

La vera causa del divieto: il dogma del Corano increato

Il fedele può conoscere e valutare da solo la parola di Dio: questo è il punto, la ragione profonda per cui quello che con tanta energia – e successo – perseguivano gli scismatici della Chiesa cattolica, era invece punito con la morte nell’Impero ottomano e impedito di fatto in Marocco, nell’Impero persiano o nei regni Moghul dell’India (in cui la prima tipografia fu fondata comunque, per conto dei Gesuiti, a Goa nel 1556 da Juan de Bustamante che aveva un impianto tipografico in realtà destinato all’Etiopia; il primo libro stampato fu Doutrina Christam di Saverio), così come in Malaysia e Indonesia.
La tempesta di libertà di pensiero e di fede, che nell’arco di pochi decenni la stampa del libro fece scorrere negli angoli più reconditi dell’Europa, era esattamente quello che l’Islam e i califfi ottomani intendevano scongiurare.
I Firman dei sultani della Grande Porta che comminavano morte a chi stampasse, possedesse o leggesse libri stampati in arabo, non erano infatti atti di imperio politico, finalizzati a una forma parossistica di censura, ma la conseguenza logica, obbligata, della grande involuzione che tutta la civiltà islamica aveva inferto a se stessa a partire dal XII secolo e che l’aveva portata a considerare qualsiasi lettura critica, qualsiasi esegesi del Corano, un’eresia da punire con la morte. Lo scopo era quello di impedire esattamente quella diffusione della lettura del Libro Sacro, e la conseguente possibilità di critica a livello di massa, che invece la cristianità gustava, in quegli stessi anni, con tanto entusiastico successo. Il tutto, e questo è l’aspetto più grave, con una motivazione non politica ma tutta e solo religiosa, dogmatica.
La possibilità di leggere il Corano solo nella forma di manoscritto (quindi in poche copie, costosissime e rarissime, quindi solo da parte degli ulema e di pochissimi alti membri dell’élite), era garanzia che si rispettasse l’obbligo di non farne una lettura critica o allegorica, che ci si fermasse alla lettura formale della Parola di Dio.
Si trattava della conseguenza logica di due grandi fenomeni religiosi che avevano fiaccato l’intera civiltà musulmana tra il IX e il XII secolo, letteralmente eliminando ogni possibilità di esegesi, di lettura critica del Corano.
Il primo fu l’affermarsi del dogma del “Corano increato”, che pretendeva (e pretende tutt’oggi) che il testo sacro dell’Islam fosse preesistente all’uomo e a lui successivo, eterno, coincidente con l’essenza divina. Alcuni studiosi spiegano con efficacia questo dogma, paragonando quella che è per il cristianesimo la natura del Cristo, figlio di Dio, incarnato in un uomo, alla natura di un Verbo coranico, che, per i sostenitori di questo dogma, è di fatto incarnazione di Dio. Quindi eterno, quindi indiscutibile, quindi imperscrutabile, quindi non sottoponibile a esegesi, a lettura critica e ancor meno allegorica. Per di più nel contesto coranico l’uomo non è affatto creato “a immagine e somiglianza di Dio”, ma né è semplice creatura, da lui separata da un infinito inconoscibile.
Il dogma del “Corano increato” fu difeso da un giureconsulto che definì una delle quattro scuole della sharia: Ahmad ibn Hanbal (780-855), formidabile costruttore di una casistica dogmatica, tramutata poi in legge.
Nel corso di due secoli, questo dogma riuscì a imporsi nel corpo dell’Islam per una serie di ragioni, non ultima l’esito del più classico scontro tra la casta degli ulema e i califfi abbasidi. Naturalmente, questi califfi erano assolutamente contrari al dogma del “Corano increato” per la ovvia ragione che li privava di ogni potere di interpretazione a supporto della loro gestione politica della umma, potere già limitato da una legislazione shariatica, un corpus di leggi (riguardanti diritto di famiglia, fiscale, finanziario e anche civile e penale), che comunque si era consolidata ed era universalmente accettata – con esclusivo monopolio degli ulema – nelle sue quattro scuole giuridiche.
Prima dell’800 e di Ahmad ibn Hanbal, – fatto fondamentale – il dogma del “Corano increato” era assolutamente minoritario, tanto che anche nel campo sunnita aveva preso largo sopravvento l’influenza dei Mutaziliti. Era questa la prima scuola teologica islamica (fondata a Bassora, verso il 750, dal teologo Wasil ibn Ata), che si era formata in ambito sciita.
Essenza del Mutazilismo, oltre ad altre complesse definizioni teologiche, era la certezza che non solo fosse necessaria, ma dovuta, l’interpretazione (Tawil) del Corano nel corso dell’evoluzione della storia umana, nel solco del razionalismo di matrice ellenica e del rapporto fede/ragione. Nel corso del IX secolo questa scuola teologica conquistò anche le élites sunnite, grazie anche all’incontro travolgente con i testi della filosofia greca ed ellenistica, mediati dal grande mondo culturale dei cristiani del Maghreb (va ricordato che Sant’Agostino era un maghrebino) convertitisi all’Islam.
Non è esagerato dire che lo straordinario fiorire della civiltà arabo-islamica, la sua eccellente capacità di assumere quanto le era materialmente possibile dalle civiltà greca, romana, cristiana (ed indiana), in un formidabile sincretismo, fu dovuto solo e unicamente al diffondersi del Mutazilismo, e quindi del razionalismo, e quindi della curiosità e dell’entusiasmo per l’ellenismo e le grandi civiltà soppiantate dalla umma arabo-islamica.
Si guardi all’opera non solo matematica e astronomica (monumentale), ma anche alla produzione poetica (le Rubayyat, ovvero le Quartine) di quello che fu forse il più grande scienziato musulmano, Omar Khayyam (1048-1131). Il suo razionalismo arrivò fino a uno scetticismo cosmico radicale che lo spinse a dichiararsi “insoddisfatto del piano della Creazione”, con una radicalità quasi blasfema (che infatti gli valse la condanna di tutte le sue teorie, anche quelle matematiche, da parte del mondo sunnita ufficiale). Ma, come le Quartine di Khayyam, anche tutta la grande letteratura araba tra il IX e il XII secolo è segnata dall’esaltazione dell’amore, dell’ebbrezza, spesso dalla presa in giro sarcastica dei precetti della sharia, e tutto questo veniva accolto con favore, protetto, dal mecenatismo dei potenti e dei califfi, perché il contesto culturale che produsse il massimo di civiltà araba era appunto incardinato sul razionalismo e sul sincretismo, di cui il Mutazilismo era la massima espressione dottrinale.
Già a partire dall’800, i califfi abbasidi colsero in pieno il profondo risvolto politico del Mutazilismo e l’enorme potenziale derivante dall’esercizio della lettura critica e dell’esegesi del Corano (soprattutto là dove si definivano allegoriche – e quindi da interpretare – tante immagini contenute nelle Sure) e avocarono quindi a sé, e solo a sé, in quanto successori del Profeta e suoi vicari, il potere esclusivo dell’interpretazione del Libro, supportati in questo da teologi di corte mutaziliti.
La portata politica essenziale del Mutazilismo apparve lampante nell’827, quando il califfo abbaside al-Mam’un dichiarò il Mutazilismo dottrina ufficiale del califfato islamico e diede grande impulso alla Scuola Peripatetica e allo studio della filosofia greca, fondando nell’832 la Casa della Sapienza. L’essenza tutta politica dello scontro tra la dottrina del “Corano creato” e quella del “Corano increato” fu tale che tra 833 e 847 i califfi abbasidi scatenarono due persecuzioni di massa contro i sostenitori della seconda dottrina, nel corso della quale Ahmad ibn Hanbal fu ridotto in catene per anni. Ma la reazione della casta degli ulema, capillarmente presente in tutte le pieghe della società araba, che si vedeva sostanzialmente espropriata di ogni potere in campo religioso (salvo quello giuridico, nell’applicazione di una delle quattro scuole shariatiche), unita alle caratteristiche del tutto elitarie del Mutazilismo e alla stessa crisi della dinastia abbaside, ebbe buon gioco nello sconfiggere – sul lungo periodo – la teoria del “Corano creato” così come nel rendere nulla la penetrazione del Mutazilismo.
Il califfo abbaside al-Mutawakkil (847-861) si fece pienamente interprete della rivolta degli ulema, operò una contro svolta ultra ortodossa rispetto al suo predecessore al-Ma’amun e rinnegò formalmente la dottrina del “Corano creato”, accompagnandola con una serie di provvedimenti radicali: radiò dalla corte califfale tutti gli esponenti del Mutazilismo, reintrodusse la jizya (la tassa di sottomissione) per cristiani ed ebrei (imponendo loro anche regole di vestiario, inclusa la stella gialla, che una tradizione autoflagellante attribuisce invece agli europei medievali) e arrivò sino a distruggere il più sacro memoriale degli sciiti, il mausoleo di Hussein a Kerbala.
L’impulso dogmatico dato dalla corte califfale ottenne i suoi risultati nel corpo delle scuole coraniche e tra gli intellettuali musulmani, cosicché iniziò a scemare nel complesso della umma l’influenza della dottrina del “Corano creato” e del Mutazilismo, che scomparvero nel nulla nel corso dei secoli successivi (definitivamente nel corso del XII secolo).
Per rendersi conto della radicalità di quello scontro sulla natura del Corano, quindi sulla possibilità o meno di sottoporlo a esegesi e interpretazione, e della persistenza fondamentale, ancora oggi, delle sue conseguenze, basti pensare che, pochi anni fa, nel 1985, un grande teologo musulmano, Mohammed Taha (definito da alcuni “il Lutero dell’Islam”), sostenitore della dottrina del “Corano creato”, fu impiccato per eresia a Karthum, in Sudan (col pieno plauso dell’Università coranica di al Azhar, la più antica e autorevole, indicata spesso in Occidente quale faro dell’Islam moderato).
Il cappio fu stretto al collo di Taha perché egli cercava di riproporre e aggiornare la dottrina del “Corano creato”. Sosteneva appunto che i versetti della Rivelazione a cui i musulmani devono guardare erano essenzialmente quelli dettati da Maometto alla Mecca (i più elevati, peraltro, intrisi di afflato ecumenico) e che i versetti (feroci contro cristiani ed ebrei, quanto i primi erano ecumenici) temporalmente successivi, dettati alla Medina durante le lunghe guerre condotte da Maometto contro gli oligarchi della Mecca che lo avevano costretto alla egira (emigrazione), dovevano invece essere interpretati, sottoposti a lettura critica, e spogliati delle contingenze umane che li avevano determinati. Va notato che questi versetti costituiscono le fondamenta delle dottrine jihadiste di al Sayyed al Qutb, Abu Ala al Mawdudi e di tutti i teologi del fondamentalismo che ha poi prodotto al Qaida, così come del fondamentalismo sciita dell’ayatollah Khomeini,, dell’ayatollah Khamenei, del presidente Ahmadinejad e dei teorici di riferimento dei Pasdaran iraniani (i militari guardiani della rivoluzione islamica).
Tornando alla storia dell’Islam, definitiva, infine, nell’ espellere dal dibattito teologico islamico qualsiasi ipotesi di razionalismo, di continuità col pensiero greco ed ellenistico e di esegesi critica del Corano, fu la monumentale opera di Mohammad al-Ghazali (1058-1111), che tuttora influenza in modo determinante la quasi totalità dell’Islam sunnita, tutta tesa – purtroppo vittoriosamente – a contrastare ogni possibilità di applicare la ragione e la razionalità alla fede (nodo perfettamente colto da Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona sull’Islam).
L’opera di al-Ghazali più determinante per l’Islam successivo ha un titolo illuminante e, purtroppo, definitivo: L’incoerenza dei filosofi (Tahafut al-Falasifa). La critica basilare della stessa legittimità della filosofia, la sua condanna perché nemica della fede, portò alla codificazione – tuttora imperante nell’Islam contemporaneo – della assoluta separazione tra fede e ragione, e quindi al divieto definitivo di qualsiasi esegesi e lettura critica del Corano.
In piena coerenza con questa posizione, al-Ghazali, minò alla base qualsiasi possibilità di sviluppo della scienza in ambito islamico, con conseguenze devastanti per tutta la civiltà musulmana successiva; il suo rifiuto della filosofia si basava infatti su una concezione del mondo secondo la quale tutti i fenomeni e la relazione causa/effetto non sono spiegabili, definibili, raccordabili, verificabili con leggi concrete, materiali, ma sono invece e unicamente espressioni della onnipotente volontà di Dio.
Praticamente, da al-Ghazali in poi la scienza musulmana letteralmente scomparve perché a partire da quel momento fu considerato inutile che un filosofo, o uno scienziato, in termini moderni, cercasse di definire una legge della natura (per esempio il fenomeno della gravità terrestre), quando questa in qualsiasi momento poteva essere stravolta, modificata, invertita dalla imperscrutabile volontà divina. Pare incredibile, ma questa è l’essenza del pensiero al-Ghazali, che spiega come mai con lui si chiuda la gloriosa fase in cui l’Islam fu mediatore, anche sul piano scientifico, tra il pensiero greco-romano e un mondo musulmano sincretico. Sino a oggi, non più scienza islamica, ma solo – poca – elementare tecnica, semplice manipolazione della natura. Se si vuole sapere come mai da allora in poi, anche durante il folgorante Impero ottomano, egemonico nel Mediterraneo per secoli, non si sia mai fondata o sviluppata una scuola scientifica nel mondo musulmano, in nessun settore (fisica, matematica, astronomia, chimica), la spiegazione, purtroppo, va ricercata – occorre ripeterlo – nell’influenza determinante del pensiero di al-Ghazali.
Invano Averroè (1126-1198) tentò di sconfiggere la radicale deriva antirazionalista di al-Ghazali, criticando alla base L’incoerenza dei filosofi in un monumentale e decisivo (ma solo nella cristianità, grazie soprattutto a Tommaso d’Aquino, mai nell’Islam) testo non a caso intitolato L’incoerenza dell’incoerenza (Tahafut al-Tahafut). Come sanno e scrivono tutti gli islamisti, l’influenza di Averroè, e del giusto rapporto tra fede e ragione, fu nulla; ha scritto in proposito Henry Corbin, uno dei più grandi islamisti contemporanei1:
Qualcosa è terminato con Averroè, qualcosa che non poteva più vivere dentro l’Islam, ma che doveva orientare il pensiero europeo.
L’assoluta estraneità dell’influenza averroista e razionalista sul pensiero islamico successivo è pienamente confermata dall’islamista italiano Massimo Campanini:
Averroè è stato uno di quei pensatori per i quali la fortuna postuma ha nettamente sopravanzato la sua fortuna immediata. La sua filosofia di impianto aristotelico, potenzialmente razionalista, e la sua riflessione sui rapporti tra religione e fede non ebbero in pratica (nonostante alcuni studiosi si sforzino di dimostrare il contrario) alcuna eco nel mondo islamico a lui contemporaneo e immediatamente successivo2.
Per quanto riguarda la sorte del Corano, inteso come libro, le conseguenze ovvie di questa opera di re staurazione dogmatica furono semplici: si rafforzò la tendenza a considerare lo stesso supporto materiale – il manoscritto – come indegno della Parola di Dio e a considerare legittimo, e comunque da perseguire con ogni sforzo, il suo apprendimento integrale a memoria, nel solco della tradizione dei primi fedeli del Profeta. Questa, non a caso, era la posizione sostenuta con veemenza da ibn Hanbal, posizione perfettamente coerente con la natura divina, eterna, immutabile del Verbo, ripresa poi nel corso del corso del XIII secolo da Abdelsalam ibn Taymmiyyah (1263-1328), teologo ultrafondamentalista di straordinaria presa sull’Islam contemporaneo (non solo sul mondo wahabita-salafita, ma anche sui Fratelli Musulmani, e su tutta la galassia fondamentalista e terrorista).
Ancora oggi gli Hu...

Indice dei contenuti

  1. Fuoco al Corano in nome di Allah
  2. Colophon
  3. Prefazione
  4. I Il Corano dei Paganini a Istanbul: un'immane fatica bruciata
  5. II Il Firman contro la stampa e la grande occasione persa
  6. III La vera causa del divieto: il dogma del Corano increato
  7. IV Colonianismo e modernizzazione
  8. V Conseguenza del rifiuto dei libri: ONU, i paesi arabi sono incolti
  9. Postfazione
  10. Bibliografia
  11. Indice