La catastrofe della politica nell'Italia contemporanea
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La catastrofe della politica nell'Italia contemporanea

Per una storia della seconda Repubblica

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La catastrofe della politica nell'Italia contemporanea

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La catastrofe della politica che dà il titolo al volume è quella avvenuta in Italia negli ultimi anni, quando sempre più l'etica e il diritto hanno sottratto spazi alla politica, senza peraltro che il rispetto delle leggi e la moralità pubblica e privata ne abbiano tratto particolare giovamento. La torsione etico-giudiziaria della politica è stata certamente legata alla peculiarità di una seconda Repubblica incentrata sulla "guerra civile fredda" tra berlusconismo e antiberlusconismo. Ma a ben vedere precede la discesa in campo di Berlusconi e anche la stessa stagione delle inchieste chiamate a far pulizia nel verminaio di Tangentopoli. Attraverso un'analisi originale delle trasformazioni subite dalla cultura politica del Paese negli ultimi decenni, l'autore analizza le ragioni profonde della situazione di stallo e di impotenza in cui la politica italaina si trova ormai da molti anni.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849842258

1.

Etica, giustizia, politica nell’Italia contemporanea

1. La politica nel mondo globalizzato

IN TUTTO IL MONDO CONTEMPORANEO l’autonomia della politica soffre una crisi profonda, legata a fenomeni che appaiono, e probabilmente sono, inarrestabili. Gli Stati nazionali si trovano ormai a operare in una sorta di regime politico globale. Questa global polity, come è stata definita, consiste in un insieme di regimi regolatori diversi e che si sovrappongono, dunque in una serie di interazioni e influenze più che in un sistema gerarchico. Le istituzioni globali, infatti, impongono o raccomandano ai governi nazionali l’adozione di determinate misure e decisioni; ma, al contempo, sono esse stesse istituite e controllate dai governi nazionali1.
È tuttavia indubbio che il contesto globalizzato nel quale le politiche nazionali si trovano inserite si caratterizzi per una cessione di sovranità da parte dei singoli Stati, i cui governi sperimentano la dimensione sovranazionale soprattutto come condizionamento e limite. In particolare, le politiche nazionali si sentono spesso impotenti di fronte ai grandi fenomeni economici e finanziari che si verificano a livello globale, sostanzialmente svincolati da ogni controllo. La stessa appartenenza a una istituzione come l’Unione europea, se per un verso può dare l’impressione – alle opinioni pubbliche e ai governi – di sottrarli ai limiti della dimensione nazionale, per l’altro finisce con l’accentuare ulteriormente la sensazione di impotenza. Si pensi, ad esempio, al fatto che nei paesi membri dell’Unione europea la gran parte del diritto nazionale è ormai di origine comunitaria; o, ancora, ai ferrei condizionamenti imposti all’azione dei singoli governi in campo economico, che si tratti del rispetto di un preciso rapporto percentuale tra deficit e PIL o del divieto di fornire aiuti pubblici ad aziende nazionali in difficoltà. In particolare, il cosiddetto fiscal compact prevede l’obbligo dal 2015 di tagliare ogni anno un ventesimo del proprio debito pubblico eccedente la quota del 60 per cento del PIL. Per l’Italia si tratta evidentemente di un impegno ben difficile da mantenere, visto che implicherebbe di destinare a tale riduzione parecchi miliardi di euro l’anno; ma si tratta anche di un impegno che, se in ipotesi fosse davvero rispettato, implicherebbe l’annullamento di qualunque residua autonomia politica da parte del nostro governo, poiché in democrazia la politica consiste per una gran parte nella facoltà di scegliere tra impieghi alternativi delle limitate risorse disponibili.
Al centro della contemporanea crisi della politica e della sua autonomia sta anche lo spazio crescente acquisito dalla dimensione del diritto: «In molti paesi democratici – è stato osservato – la vita quotidiana è caratterizzata dalla prevalenza delle norme giuridiche rispetto a quelle etiche e sociali, rispetto ai principi di opportunità e alle regole proprie della politica»2. Questo è avvenuto per la progressiva crisi che, nelle società occidentali, ha colpito le autorità sociali – dagli insegnanti ai medici, dai capifamiglia ai comandanti militari – che un tempo, come ha scritto Alessandro Pizzorno, erano in grado «di emanare norme e farle rispettare», facendo sì che l’intervento del giudice si rendesse necessario solo in un numero limitato di casi. Da decenni il fallimento delle autorità sociali, nella loro capacità di regolare i comportamenti e sanzionare l’inosservanza delle regole, ha spinto a ricorrere sempre più alla funzione giurisdizionale: «Coloro che usavano essere soggetti alle varie autorità sociali e osservarne le norme […] sono ora in grado di citare in giudizio quella particolare autorità sociale, o decisione di essa, che lede i loro interessi, e lo fanno di più in più frequentemente»3. Un tale fenomeno di «resa dell’autorità sociale alla legge»4 ha favorito il minor peso della politica in quanto attività di governo e direzione della società, un’attività cui sempre più spesso partecipa di fatto la magistratura. È in relazione a questa trasformazione della politica in senso giurisdizionale che si è appunto parlato di una «judicialization of politics»5.
Il fenomeno della «giuridicizzazione della politica» non riguarda soltanto l’ordinamento interno degli Stati: il mondo globalizzato si presenta, infatti, come ambito ideale per l’espansione della dimensione giuridica, come dimostra tra le altre cose la formazione di uno spazio giuridico globale attraverso l’esistenza della Corte penale internazionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’Unione europea e degli altri organismi di giurisdizione ultrastatale, il cui numero è rapidamente aumentato a partire dalla fine del XX secolo6. Proprio il tema dei diritti umani e della loro garanzia, del resto, favorisce la giuridicizzazione della politica sia a livello internazionale sia entro ciascuno Stato, almeno con riferimento agli Stati democratici. In particolare, la giuridicizzazione della politica è in essi favorita dalla centralità che ha ormai assunto il tema dell’attuazione di nuovi diritti: i diritti sociali ma anche, sempre più, i diritti legati all’identità e alla realizzazione individuale (dalla procreazione assistita al matrimonio omosessuale). In tal modo viene aperta la strada a un sempre maggiore intervento del sistema giudiziario, chiamato non solo ad accertare se un determinato diritto è stato violato, ma anche a garantire le condizioni perché quel diritto possa avere effettiva attuazione. L’incidenza politica del sistema giudiziario, in qualche misura inevitabile, è stata dunque accresciuta dalla tendenza del costituzionalismo contemporaneo a considerare il giudice come «un custode, […] un guardiano dei diritti fondamentali dei cittadini», che vanno difesi «dai potenziali abusi delle istituzioni politico-rappresentative e delle maggioranze che le controllano»7. Questa incidenza politica è, per giunta, accentuata dalla parallela tendenza ad ampliare l’elenco dei diritti fondamentali.
Incalzata e costretta nell’angolo dall’espansione della dimensione giuridica, la politica vede ridotti i suoi spazi di autonomia anche in conseguenza del «radicalismo etico» che caratterizza le democrazie contemporanee: come ha osservato Pierre Manent, «per noi l’azione umana non ha più legittimità né intelligibilità a meno che non possa essere ricondotta a una norma universale, o a un principio “etico” universale – a meno che non possa essere descritta come un’applicazione specifica dei diritti universali dell’essere umano»8. È un radicalismo che si fonda appunto sull’ideologia dei diritti umani, che per certi versi appare come sostitutiva della religione tradizionale; in concreto, almeno in Occidente, delle confessioni cristiane che ormai hanno allentato la loro presa sulle strutture valoriali e di comportamento delle società democratiche secolarizzate. Tutto ciò sottrae ulteriormente autonomia alla sfera politica. È superfluo notare, infine, come nel mondo contemporaneo sia soprattutto la lotta alla corruzione che si incarica di mostrare quanto eticizzazione e giuridicizzazione della politica siano ormai fenomeni correlati e in gran parte anche sovrapponibili, legati per di più alla dimensione globalizzata che è propria del nostro tempo.

2. Una catastrofe della politica?

Come è naturale, i fenomeni globali appena richiamati condizionano e limitano anche la politica italiana. Ma nel nostro paese alcuni di quei fenomeni si sono manifestati in modo particolarmente accentuato, tanto che si può parlare – almeno a giudizio di chi scrive – di una vera e propria catastrofe della politica. Questo, ovviamente, se intendiamo la politica come un’attività e un ambito di giudizio dotati di un’autonomia che non può essere compressa oltre un certo limite.
Nella realtà italiana è la torsione in chiave etico-giudiziaria della politica che si è manifestata in modo particolarmente accentuato. Per conseguenza, la valutazione etica e giudiziaria ha finito spesso con l’annullare la specificità del giudizio politico. Questo appare evidente dallo scontro durissimo – si è parlato al riguardo di una «guerra civile fredda» – che ha dominato per vent’anni la vita del paese in relazione alla figura di Silvio Berlusconi. Non che la condotta di quest’ultimo, sia detto una volta per tutte, non si prestasse largamente a critiche di tipo morale o giudiziario; il punto è che la parte maggioritaria dell’opposizione antiberlusconiana è soprattutto su questo terreno che si è mossa, rinunciando di fatto a una critica di natura politica9.
La gran parte dell’opinione pubblica e, soprattutto, degli intellettuali e commentatori che criticavano Forza Italia o il PDL non ha posto al centro della propria critica i contenuti politici del messaggio berlusconiano: dal grande tema del taglio delle tasse alla riduzione della presenza dello Stato nell’economia, dal richiamo alla funzione positiva della famiglia alla valorizzazione del merito individuale e a tante altre cose10. Per lo più l’antiberlusconismo non ha preso in esame questi o altri contenuti politici, per criticarli oppure per sfidare il centrodestra a mantenere certe promesse fatte dal suo leader (ad esempio, in tema di riduzione della pressione fiscale). Ha invece elaborato una rappresentazione e una critica del fenomeno Berlusconi in chiave sostanzialmente criminale-giudiziaria ed etica, trasformando l’una e l’altra in una strategia politica. Così, i successi elettorali del fondatore di Forza Italia sono stati spiegati unicamente con la disponibilità e l’uso spregiudicato delle sue televisioni, con la necessità di salvare le proprie aziende o comunque di farne gli interessi, con i rapporti segretamente intrattenuti con poteri di tipo criminale.
Per spiegare come mai milioni di italiani abbiano potuto votare per un simile leader – paragonato da autorevoli commentatori al malfattore brechtiano Mackie Messer – non si è evocata dunque una spiegazione politica, che includesse motivazioni attinenti agli interessi degli elettori: di rado, ad esempio, si è ipotizzato (è solo una tra le ipotesi possibili) che i voti ricevuti da Berlusconi nascessero anche dalla speranza, pur ripetutamente andata delusa, di vedere ridotta la pressione fiscale o la presenza eccessiva dell’apparato statale e della sua fitta rete di regole spesso irrazionali. Al contrario, mi pare che la spiegazione prevalente sia stata di tipo moralistico e giudiziario11. Fondendo eticizzazione e giuridicizzazione della politica, si è fatto ricorso alla vecchia tesi dei difetti profondi degli italiani; una tesi che crede di individuare in alcuni antichi «vizi nazionali» la causa di molti nostri problemi attuali. In questo caso, si tratterebbe di difetti e vizi imputabili a una parte sola del paese, quella dei votanti per il centrodestra, che sarebbe composta da chi evade il fisco e non rispetta le leggi, non si cura del bene comune ed è interessato solo al perseguimento del proprio interesse egoistico12.
Si potrebbe attribuire il fenomeno di cui stiamo parlando alla particolare durezza dello scontro tra sostenitori e avversari di Berlusconi. Ma in realtà il prevalere di un’ottica moralistico-giudiziaria, e la conseguente incapacità a riconoscere ciò che è specifico dell’azione politica, si possono ormai riscontrare perfino in relazione a fatti piuttosto lontani nel tempo, di fronte ai quali dovrebbe essere più facile valutare le cose con maggiore distacco. Mi limito a richiamare il caso molto noto del cosiddetto «armadio della vergogna» (e già l’espressione è indicativa della sostituzione di un giudizio morale al giudizio storico)13. Nel 1994 si scoprì l’esistenza, presso la sede della procura generale militare in Roma, di un armadio nel quale per decenni erano stati occultati 695 fascicoli riguardanti le stragi tedesche nell’Italia del 1943-45, ciò che di fatto aveva comportato l’insabbiamento dei procedimenti contro i responsabili di alcuni fra i più feroci atti di violenza compiuti dalle truppe germaniche ai danni della popolazione civile e non solo. Per indagare sulle cause e sugli autori di quell’occultamento venne poi costituita nel 2003, con il voto favorevole di tutte le forze politiche, una Commissione parlamentare d’inchiesta che nasceva però all’insegna di un equivoco. A leggere gli interventi dei politici che ne sostennero la nascita o i commenti dedicati a tutta la vicenda si sarebbe stati indotti a considerarla come uno dei tanti «misteri d’Italia», a vedervi insomma una delle circostanze in cui poteri occulti e servizi segreti avevano agito nell’ombra, per interessi inconfessabili ma comunque in contrasto con la vita democratica del paese. In realtà, i primi e maggiori responsabili dell’insabbiamento, già negli anni Quaranta e Cinquanta, non erano stati personaggi oscuri ed equivoci, bensì ministri degli Esteri come Carlo Sforza e Gaetano Martino, ministri della Difesa come Randolfo Pacciardi e Paolo Emilio Taviani. A ispirarli non era stato alcun sentimento di indulgenza nei confronti dei responsabili delle stragi compiute dai tedeschi durante la guerra, bensì una valutazione politica di quali fossero gli interessi del paese. Nell’ottobre 1956, ad esempio, Martino e Taviani convennero sulla necessità di non chiedere l’estradizione di uno dei responsabili della strage di Cefalonia: una tale richiesta avrebbe infatti potuto essere sfruttata propagandisticamente dall’URSS e dalla Germania comunista che avevano orchestrato una durissima campagna contro quel riarmo della Germania federale che l’Italia e i suoi alleati consideravano vitale14. Ma considerazioni del genere, ispirate a un criterio di opportunità politica, ormai risultano pressoché incomprensibili per un’opinione pubblica e un ceto politico-intellettuale che tendono spesso a ridurre anche il giudizio storico a un semplice vaglio di legalità o di moralità.

3. Il potere dei giudici

La tanto accentuata propensione italiana a ricondurre il giudizio politico quasi interamente sotto la sfera della morale e del diritto non può essere spiegata soltanto, come ho già accennato, con la peculiarità rappresentata dalla discesa in politica di Berlusconi. È ovvio che la presenza del fondatore di Forza Italia come leader del centrodestra non ha potuto che favorire ampiamente – per motivi sui quali credo non occorra soffermarsi – la torsione del giudizio politico in chiave etico-giudiziaria. Non la spiega però nelle sue effettive radici.
Nell’Italia di oggi, ha osservato Luciano Violante, per una parte rilevante della magistratura «il fondamento delle iniziative penali non è più soltanto l’applicazione delle singole leggi […], ma il controllo di legalità, inteso non come ricostruzione della legalità violata ma come verifica che la legalità non sia stata per caso violata». Questo ha alterato profondamente il rapporto tra potere giudiziario e potere politico. In primo luogo, il fatto che i magistrati si attribuiscano il controllo di legalità, nel senso appena citato, «significa trasferire sul potere giudiziario un complesso di funzioni e di attività prevalentemente amministrative e politiche di amplissimo respiro»15. In secondo luogo, una volta che si sia affermata l’idea che il magistrato non è tenuto a intervenire dopo aver ricevuto una notizia di reato, ma può farlo anche «solo per accertare se un reato sia stato commesso»16, è l’intera politica che si trova messa sotto scacco dalla magistratura. In un certo senso, anzi, è tutta la società che si trova soggetta al protettorato di una magistratura che ha assunto (ma, sia chiaro, con il consenso di una grossa parte dell’opinione pubblica) la funzione di un generale controllo di legalità e di moralità (Pizzorno ha parlato di un «controllo della virtù») sulla vita del paese17. Come ha recentemente osservato un giurista, Gaetano Insolera, più che di un’invadenza della magistratura, «è opportuno parlare di una modificazione, in termini di costituzione materiale, della ripartizione dei poteri disegnata dalla legge fondamentale»18.
L’alterazione nei rapporti tra magistratura e politica, con la connessa riduzione di autonomia della seconda, è stata certo conseguenza dei modi in cui crollò vent’anni fa il vecchio sistema dei partiti: non per un’azione di riforma che provenisse dai ranghi della stessa politica, ma per la reazione della magistratura di fronte al sistema di diffusa corruzione emerso con Tangentopoli. Una reazione che, se non fu certamente l’unica causa del crollo (si ricordino i referendum abrogativi del 1991 e del 1993, attraverso i quali si affermava di fatto il principio elettorale maggioritario), fu quella decisiva. In realtà, però, le radici di quell’alterazione nei rapporti tra magistratura e politica sono precedenti. Fu soprattutto negli anni Settanta, infatti, che i magistrati italiani diventarono dei veri e propri attori politici, in relazione a due fenomeni differenti ma che entrambi, dal nostro punto di vista, spingevano nella stessa direzione.
In primo luogo, occorre tener conto della presenza di una nuova generazione di magistrati che, per una serie di riforme dell’ordine giudiziario realizzate negli anni Sessanta e Settanta, si trovavano in una condizione di pressoché totale indipendenza dal potere politico; una condizione, questa, che probabilmente non aveva l’eguale in alcun altro paese democratico19. Collegata a questa indipendenza ri...

Indice dei contenuti

  1. La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea
  2. Colophon
  3. Premessa
  4. 1. Etica, giustizia, politica nell’Italia contemporanea
  5. 2. Berlusconismo e antiberlusconismo. La «guerra civile fredda» della seconda Repubblica
  6. 3. Se alla sinistra non piacciono gli italiani
  7. 4. Montanelli e gli italiani
  8. Note
  9. Indice