I fichi rubati e altre avventure in Calabria
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I fichi rubati e altre avventure in Calabria

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I fichi rubati e altre avventure in Calabria

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Come un viaggiatore del grand tour, ne i "Fichi Rubati", Mark Rotella, italo-americano di terza generazione, affronta un viaggio, dal Pollino allo Stretto, alla scoperta di quella che continua ad essere una delle meno conosciute regioni d'Italia: la Calabria. partendo da Gimigliano, città natale dei suoi nonni paterni e in compagnia del suo mentore Giuseppe, Rotella visita città, paesi, santuari, musei. riscopre tradizioni che si vanno perdendo e annota con acume le contraddizioni che si celano dietro la selvaggia bellezza della regione. Rotella non è però solo un turista straniero curioso. Il viaggio in Calabria è per lui soprattutto un viaggio all'interno della propria anima e delle proprie radici, un viaggio di riscoperta di quella italianità che spesso in forme meticce caratterizza gli italiani emigrati in America.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788849839913
Categoria
Viaggi
PARTE QUARTA
UN VIAGGIO A SUD

Cosenza

Un tempo i fiumi Crati e Busento correvano lungo le valli per poi unirsi insieme. In quel punto, il popolo indigeno della Calabria, i Bretti, fondarono Cosenza che divenne la loro capitale. Quando i Greci cominciarono a colonizzare la Magna Grecia, sottrassero ai Bretti il controllo della città.
Successivamente, mentre costruivano a nord la via Appia, i Romani cominciarono a spostarsi attraverso la Calabria, insediandosi nel luogo dove sorge l’attuale Cosenza e costruendo la città romana. Circondata dalle montagne e dai due fiumi, Cosenza era, ed è, una serena penisola bucolica.
Dopo il sacco di Roma, Alarico il Visigoto lasciò la città nel 410 d.C. per recarsi in Sicilia dove pensava di ritirarsi definitivamente. Con un convoglio di soldati che trasportavano l’oro e il bottino, costeggiò i lidi italiani, passando poi attraverso la Sila Greca. Quando guardò dall’alto la magica Cosenza, si innamorò del luogo e decise che si sarebbe fermato lì per ritemprarsi. La sosta durò mesi, Alarico con ogni probabilità abitava in un luogo vicino il fiume dove poteva essere cullato dal suono della corrente. Ma il fiume era anche il luogo perfetto per gli insetti che causano la malaria, e Alarico probabilmente se ne ammalò. Proprio prima di morire ordinò che tutti i suoi averi fossero seppelliti alla confluenza dei due fiumi.
La Calabria ha una lunga tradizione di deviazione del corso dei fiumi. La città di Sibari rimase nascosta per secoli quando gli abitanti di Crotone deviarono il fiume Crati. Il tesoro di Alarico venne dimenticato per almeno mille anni finché nel Medio Evo non si fecero dei tentativi di deviare nuovamente il corso del fiume per un periodo sufficiente a recuperare il tesoro. Ma non venne trovato nulla – o perlomeno così fu detto – degli ori e degli argenti di Alarico.
Presi il treno locale da Gimigliano a Cosenza. La corsa durava tre ore e mezza per un tragitto che una macchina avrebbe percorso in un’ora e mezza. Il trenino di sole due carrozze alimentato a gasolio si diresse lungo la Sila Piccola a nord ovest, attraversando fitti boschi di castagni e fermandosi in villaggi con nomi tipo Cicala e Castagna. Il treno attraversava scoppiettando fattorie e campi di pecore finché non entrammo in una galleria.
Arrivati all’altra estremità, gocce di pioggia punteggiarono i finestrini, e il paesaggio venne subito avvolto nella nebbia. A destra correva un fiume. Poco alla volta apparvero degli edifici che si stagliavano contro le colline sul fondo. Cosenza è conosciuta come la città dei cinque colli.
Il treno si fermò e il controllore annunciò: «Cosenza centro». Scesi e attraversai i binari, uscii dalla stazione in un parcheggio sterrato. Oltre la piccola ma affollata strada vidi un edificio vittoriano grande quanto un isolato con un cartello con scritto «Albergo centrale». Mentre mi avvicinavo all’ingresso, pensavo che mi sarei trovato in una grande hall con divani di velluto, con i braccioli scoloriti. Invece, non appena i miei occhi si abituarono alla semioscurità dell’ambiente, vidi che i lampadari erano senza lampadine e che nella hall che portava al banco della reception c’erano due file di divani che sembravano usciti dal dormitorio di un college.
«Una stanza per tre notti, per piacere» dissi al portiere. Aveva meno di trent’anni ma aveva occhi grandi e una faccia triste con gli angoli della bocca volti in basso e così sembrava almeno dieci anni più vecchio.
Sfogliò avanti e indietro due o tre pagine del registro. «C’è una camera per stasera, ma purtroppo abbiamo tutte le camere prenotate per i prossimi giorni», disse scusandosi.
«Prenotate?»
Assunse un’espressione accigliata e si scusò, «Mi dispiace». Guardò di nuovo il registro e disse: «Riprovi domani verso mezzogiorno, può essere che qualcuno annulli la prenotazione».
Mi fece vedere il mio piano usando un ascensore con un cancello davanti. La stanza aveva un letto singolo e la finestra aperta che si affacciava sul cortile. Su di un tavolino di fronte al letto c’era una piccola TV con la manopola rotta. Il bagno era pulito, con la solita doccia con la tenda e uno scarico ricavato nelle piastrelle del pavimento vicino al water. Per trenta dollari a notte, sarei potuto capitare anche molto peggio.
Chiamai Luigi, il figlio maggiore di Giuseppe, che stava preparandosi per gli esami all’Università di Cosenza, che era la nuova università della Calabria e che aveva una buona reputazione. Luigi studiava teatro ed era membro di una compagnia teatrale che mi ricordava il teatro di avanguardia della New City a New York. Mi disse che potevamo vederci il pomeriggio successivo, prima di andare a lavorare in teatro.
Avevo visitato l’università la settimana prima, di ritorno da Spezzano Albanese con Giuseppe. Costruita negli anni ’70 sulla sommità di una montagnola, l’università aveva una delle più strane strutture che avessi mai visto. Era lunga e stretta, con palazzi attaccati gli uni agli altri come le carrozze di un treno. Non c’era una piazza o altri spazi comuni. Era come se l’università mimasse la forma della Calabria.
Era il primo pomeriggio e il sole aveva preso il posto delle nuvole e della nebbia del mattino. Decisi di esplorare la città vecchia. Il fiume Busento separa la vecchia Cosenza dalla nuova, sebbene in quei giorni, grazie alla lunga siccità della Calabria, i potenti fiumi che avevano dato sepoltura ad Alarico il Goto e ai suoi tesori fossero ridotti a semplici rigagnoli, e avessero lasciato il posto a centinaia di metri di terra asciutta. L’hotel era sul lato della città nuova. Quando attraversai a piedi il ponte che porta al centro storico, venni immediatamente portato indietro nel tempo. Come molte città meridionali, Cosenza deve la sua forma ai Greci. I Romani ricostruirono la città nelle sue linee originarie, e i Normanni e gli Angioini, alternandosi di ruolo con gli Arabi, costruirono a loro volta sulla città romana. E, come molte città calabresi, Cosenza crebbe e prosperò durante il medioevo.
Nel 1509, Cosenza diede i natali a Bernardino Telesio, forse il più celebre filosofo calabrese, il quale strappò il pensiero scientifico dalle grinfie della Chiesa portando l’illuminismo dalla Calabria al resto dell’Italia.
Ma la crescita di Cosenza – e della Calabria – si arrestò quando i Borbone presero il controllo del sud Italia, tagliandolo fuori dal rinascimento che il resto d’Italia stava vivendo in quel periodo.
Poiché Cosenza arrestò il suo sviluppo durante la dominazione spagnola, la città vecchia è come una capsula del tempo, con i suoi stretti vicoli medievali e i tetti con le tegole di terracotta. Negli anni ’70 il governo diede dei soldi a chiunque volesse tornare ad abitare lì e restaurare le antiche case. Dopo solo un paio d’anni di lavoro, la luce tornò finalmente ad attraversare le vecchie porte sbarrate e le finestre murate. Alcune famiglie reclamarono le case antiche che non potevano essere date via insieme a nuove famiglie, stanche di vivere nelle nuove città, affamate di un Rinascimento che i loro antenati non avevano mai potuto vivere. Vi si trasferirono degli artisti. Aprì una libreria in uno stretto corridoio e si affermarono nuovi ristoranti. Negli anni ’90 c’erano oramai persino dei caffè che offrivano agli studenti di Cosenza un posto dove passare il tempo.
Seguii il ripido acciottolato di corso Telesio, una delle poche strade larghe abbastanza per farci passare almeno una macchina. Molte delle strade che si diramano dal corso sono vicoli che cominciano o terminano con una serie di scalini di pietra. La strada passa vicino alla cattedrale, un edificio gotico distrutto dal terremoto del 1184 e ricostruito da Federico II proprio nel periodo in cui stava costruendo il castello normanno che troneggia sopra la città. All’interno il duomo è buio e spoglio, e sentivo le orecchie ronzare a causa del profondo silenzio.
Erano passate ore da quando avevo mangiato la brioche che mi aveva dato Angela prima di salire sul treno e avevo fame. Mi ricordai che qualcuno mi aveva raccomandato per pranzo un ristorante che si chiamava «L’Arco Vecchio». Era all’inizio di corso Telesio, proprio all’ombra del castello. Il ristorante sorgeva sotto l’arco di un vecchio acquedotto.
Il maître stava apparecchiando i tavoli. Un bel ragazzo robusto venne fuori dalla cucina, pulendosi la bocca con un tovagliolo.
«Siete aperti a pranzo o solo per cena?» chiesi, vedendo che non c’era nessun altro nel locale, nonostante fosse mezzogiorno.
«Apriamo all’una», disse l’uomo con un ampio sorriso.
«Vedo», dissi.
«Forse le piacerebbe fare un giro in città», disse, guardando la mia guida turistica.
«L’ho appena fatto».
«Ha già visto il castello?» chiese.
«No», risposi in un modo che poteva apparire brusco. La maggior parte dei ristoranti italiani cominciano a servire il pranzo all’una ed ero contrariato del fatto che quest’uomo che nel frattempo si era rimpinzato di quello che, ne ero sicuro, doveva essere un pasto delizioso, mi stesse dicendo di aspettare ancora un’ora. «Pensavo di farlo dopo mangiato».
«Sono circa quindici minuti a piedi da qui. È bello».
Annuii, e dissi che ci saremmo rivisti entro un’ora.
La camminata di quindici minuti si rivelò essere lunga più di mezz’ora. Non c’era anima viva lì intorno, sebbene proprio dall’altro lato della strada, quasi vicino al castello, ci fosse un complesso condominiale nuovo. Camminai fino a un pianoro dal quale si poteva godere della vista della città, che era aggrappata su tre lati della montagna, ma era sovrastata dalla nuova città che riempiva la vallata e si srotolava sui fianchi dei cinque colli.
Su un lato dello spiazzo c’era parcheggiato un furgone. Quando mi girai per andare verso il castello mi accorsi che c’erano due persone all’interno. Un uomo era chinato su una donna con una maglia rossa, i capelli scuri con riflessi biondi le cadevano sulle spalle e sullo schienale del sedile e lui le massaggiava i seni. Non mi avevano notato o, se lo avevano, fatto sembravano non curarsene molto. Lei gli affondò le dita tra i capelli.
Il castello era silenzioso. Non c’era nulla che pendesse dalle pietre scheggiate delle mura, e si poteva vedere il cortile ricoperto d’erba. Si udiva il suono metallico di una radio o di un televisore provenire da dentro. Seguii il suono attraversando due stanze, finché arrivai in una stanza lunga e buia, dove un ragazzo sui venti e qualcosa, vestito con quella che sembrava un’uniforme museale, sedeva su una sedia di legno guardando una piccola TV. La luce della TV gli illuminava la faccia, mentre una stufetta emanava una luce rossa che gli si rifletteva sui piedi.
Molto lentamente, come se stesse raccogliendo tutte le sue energie, l’uomo alzò la testa e si volse a guardarmi.
Io mi avvicinai: «Devo pagare a lei?»
L’uomo aprì la bocca e sollevò le sopracciglia: «cosa?»
«Devo pagare a lei?»
Agitò la mano come se stesse scacciando una mosca, facendomi segno di andarmene: «No, no, vada pure». Ritornò alla stessa posizione di prima di fronte alla TV. Vidi che stava guardando uno dei tanti giochi italiani che mostrano donne in topless o malamente vestite. In questo particolare spettacolo, una bionda con un seno prosperoso, vestita con uno striminzito costume da bagno si abbassava su un tavolo di vetro soffiando su uno stuzzicadenti e cercando di farlo rotolare lungo un semplice labirinto. Una delle macchine da presa era posizionata sotto il tavolo di vetro.
Attraversai una serie di camere vuote, sentivo i miei stessi passi echeggiare e riverberare in cortile, dove il sole batteva sulle erbacce e i detriti. Fui sorpreso di scoprire che c’era qualcun altro. Una donna era seduta al sole e faceva uno schizzo di un pezzo delle mura. Ci scambiammo un sorriso, e lei tornò al suo disegno ancora sorridente. I suoi capelli lunghi e neri le cadevano sulle spalle e le coprivano il volto ma lei con un gesto li riavviava dietro le orecchie.
Trovai un arco che si affacciava proprio sullo spiazzo antistante il castello. Il furgone era ancora lì ma l’uomo si era spostato dal suo posto ed era salito sopra la donna.
Mi girai indietro ma la donna con il blocco da disegno era andata via.
Appena entrai nel ristorante, inspirai il ricco odore della carne alla griglia e del pomodoro. Il giovane robusto mi venne incontro per salutarmi.
«Siete aperti adesso?»
Mi guardò e mi disse: «Certamente, perché non avremmo dovuto esserlo?»
Chiesi al cameriere di portarmi le specialità del giorno.
Innanzitutto mi portò un litro di vino rosso della casa, e subito dopo un antipasto con polpette di maiale fritte seguite da verdure ripiene: zucchine ripiene di uova e prosciutto, servite cald...

Indice dei contenuti

  1. I fichi rubati e altre avventure in Calabria
  2. Colophon
  3. Introduzione di Roberto Messina
  4. I fichi rubati e altre avventure in Calabria
  5. PARTE PRIMA GIMIGLIANO
  6. PARTE SECONDA A NORD AI CONFINI DEL MONDO
  7. PARTE TERZA GIMIGLIANO
  8. PARTE QUARTA UN VIAGGIO A SUD
  9. PARTE QUINTA GIMIGLIANO
  10. Ringraziamenti
  11. Note
  12. Indice