Un parco e la scuola per la speranza,
in mezzo all’orrore dei ricordi
Gweirah e Aqaba (Avsi) 31 marzo, 1° aprile
Maria Luce Loche
La strada da Amman a Gweirah, nel governatorato di Aqaba, è lunga e Marta e Leith, di Avsi, hanno tutto il tempo di spiegarmi i loro progetti destinati a siriani e giordani attivi in questo momento nel Paese. Ad esempio, in campo educativo, Back to the future, finanziato dalla Commissione europea e implementato assieme a Terre des Hommes. Oppure Forsa, finanziato dalla Cooperazione italiana, che fornisce training di formazione professionale in salute e sicurezza (i cui beneficiari sono esclusivamente giordani), ne fornirà presto uno di cucina (essenzialmente per i siriani) e un altro ancora sarà volto a spiegare agli uomini d’affari il valore aggiunto di includere disabili. O ancora, sempre finanziato dalla Cooperazione italiana, è attivo un altro progetto, in collaborazione con Young Women Christian Association, destinato alla protezione (con laboratori e formazione rispetto a temi come la violenza di genere, sessuale e domestica, l’inclusione di persone disabili, i matrimoni precoci, il lavoro minorile, abusi di vario tipo da vicini o proprietari di casa) di donne e bambine, metà siriane e metà giordane, quasi tutte capofamiglia, che ha già quasi 700 beneficiarie.
Ne comincerà un altro per supportare, psicologicamente, con attività scolastiche ed educative, i bambini che per ragioni economiche o familiari non vanno a scuola. Per ora hanno stilato una lista di beneficiari, ad alcuni dei quali si sta cercando di capire se la distribuzione di denaro contante potrebbe risolvere la situazione di vulnerabilità familiare (dunque un supporto economico per pagare l’affitto se hanno ricevuto minaccia di sfratto, o per pagargli le spese scolastiche, o se per proteggersi da abusi devono cambiare abitazione), anche in collaborazione con Caritas.
Deve ancora partire pure la distribuzione di strumenti e macchinari per persone con disabilità, in collaborazione con Our Lady of Peace.
Ci stiamo però recando verso la località di Gweirah, inserita tra le zone considerate meno sviluppate del Paese, con una disoccupazione al 60 per cento e nessuna attività produttiva: ci si limita a un allevamento di sopravvivenza e il 62 per cento delle spese municipali va agli stipendi dei dipendenti pubblici, militari compresi. Situata in una zona desertica, Gweirah manca totalmente anche di spazi verdi. Per questo nell’ambito di un progetto finanziato dalla Cooperazione tedesca, qui è stato riabilitato un parco cittadino in stato di abbandono. Stessa cosa avverrà in altri parchi a Humaymah e Zarqa. Altro sito, sarà un castello del periodo dei crociati da riabilitare come sito turistico e archeologico. La logica non cambia: coinvolgere le comunità locali già nell’individuare i bisogni che il sito dovrà soddisfare e il suo design, e poi coinvolgere ancora i locali (e i rifugiati) nella realizzazione del progetto, fornendogli un salario e insegnando loro un mestiere. I materiali utilizzati rigorosamente locali, durevoli, ecocompatibili e poco costosi. In particolare, nel parco di Gweirah, sono stati recuperati gli alberi seriamente danneggiati da un insetto ne sono stati piantati altri sessanta, oltre a 700 cespugli. Sono stati creati dei muretti (e alzato il muro di cinta esterno) per creare angoli di privacy senza chiudere gli spazi. Sono state create due differenti aree gioco, in base all’età. È stato lasciato lo spazio per un campo da calcio senza però le linee di gioco, proprio per mantenere un’ottica di apertura e versatilità: funge anche come luogo per i meeting di comunità. Sono state installate luci a energia solare. Sono state create delle aree riparate dal sole, grazie a dei teli di un pesante tessuto realizzati a mano dalle beneficiarie con un’antica tecnica beduina. Gli uomini si sono divisi invece tra gestione del «verde» e realizzazione di panchine, muretti e mattoni. Sabbia, fango, plastica e poco cemento le componenti su cui tutto verteva.
Quando arriviamo al parco ci sono tanti bimbi, in bicicletta, sull’altalena o sullo scivolo. Incontriamo subito uno de beneficiari del progetto, il giordano Fadi che mi mostra orgoglioso la panchina da lui realizzata:
L’abbiamo costruita in dieci persone, in un’ora di tempo, con sacche di sabbia e cemento. Ho guadagnato 320 dinari per 40 giorni di lavoro, inoltre grazie a ciò che ho imparato ora ho cominciato a fare dei piccoli lavori di edilizia sia nella mia casa sia in quella del vicino!
Anche in questo caso, come sempre, beneficiari giordani e siriani. Tra loro anche Hilam, scappata nel 2012 da Aleppo, vive in Giordania assieme al marito, quattro figlie, un figlio e un fratello del marito. Altre due figlie, due gemelle, sono rimaste in Siria. Accanto alla donna, nella sua casa di Gweirah, siede anche la piccola Zaz Zac, così si fa chiamare la figlia di quattro anni. È lei a mostrarmi subito il regalo fatto a sua madre in occasione della Festa della mamma. Me lo fa vedere sul telefonino della donna, bottigliette piene di non so cosa, ed è estremamente fiera e orgogliosa della scelta. Dato il mio entusiasmo, mi mostra in rapida successione anche un dolce e poi una torta, quella del compleanno della donna. Ci sono con noi anche il fratellino di tre anni, mentre la sorella di un anno e otto mesi, che ha la febbre alta e la porterà in ospedale dopo aver parlato con me, è in casa di una vicina. Cominciamo dunque la nostra chiacchierata. È scappata per le bombe e per l’incolumità dei suoi figli, dopo l’arrivo ad Aleppo di Jaish el Hurr. «Hanno danneggiato la mia casa, hanno saccheggiato e bruciato tutto. Poi le bombe l’hanno buttata giù!»
Qui in Giordania ricevevano inizialmente un coupon da 90 dinari al mese, ma poi quando ha chiesto di aggiungere i nuovi nati alla lista familiare, l’Unhcr ha tagliato il servizio per mancanza di fondi. I figli nati qui non hanno neppure un certificato di nascita, perché occorrerebbe prima il suo certificato di matrimonio. Lei lo ha lasciato in Siria assieme agli altri documenti che attestavano la composizione della sua famiglia. Registrare in Giordania il matrimonio, invece, costerebbe 2500 dinari. Ovvio, non li ha.
In Siria era una parrucchiera, qui lavora saltuariamente e stagionalmente nei campi, da prima dell’alba alle tre del pomeriggio in genere. Ricorda però con molto piacere i quaranta giorni in cui, dalle otto alle 15, tesseva per il parco di Gweirah.
È stata una bella esperienza. Mi hanno pagato e insegnato un mestiere. In famiglia sono l’unica persona che può lavorare, e spero di avere presto un’altra opportunità!
Suo marito, di lavorare non è più in grado. Almeno per ora. Era andato a Damasco, a chiedere il passaporto per lei e per le due figlie nate in Siria, che ora hanno sette anni. Una volta ottenuti i documenti, mentre stava tornando a casa con il bus, a un checkpoint è stato prelevato da un ufficiale militare che lo ha portato nel suo ufficio dove lo ha torturato dalla mattina alla sera.
«Gli ripetevano che avrebbe dovuto piuttosto unirsi all’esercito, invece di scappare» spiega la donna. Che prosegue:
Una volta rientrato a casa, quella sera stessa, aveva gli occhi neri e i segni degli schiaffi sul volto. Di notte, nel letto aveva un mal di testa insopportabile e solo a quel punto mi ha rivelato di avere subito per cinque volte l’elettroshock e di essere stato pestato con il calcio del fucile. Ora è al sicuro, ma la sua mente si è fermata a quei momenti e non sta bene.
Non pensa a tornare in Siria né ad andare altrove:
Qui abbiamo trovato una nostra dimensione, la lingua e la mentalità dei giordani sono molto simili alle nostre. In Siria vive ancora la sorella di mio marito, ad Aleppo e la sentiamo su WhatsApp. Ci hanno detto di non tornare, perché la situazione è difficilissima, con i bombardamenti che proseguono, la carenza di medicine e servizi sanitari, di cibo, di sicurezza e di qualunque cosa.
Le chiedo quale sia il suo sogno: «Rimanere con i miei figli e mio marito, e lui speriamo possa rimettersi!». Mi rendo conto che la casa in cui ci troviamo e per cui pagano 70 dinari al mese di affitto, un ampio cortile di cemento, due stanze per dormire, il bagno esterno, la sala e una cucina maleodorante, ha il tetto di lamiera. Il che significa nessun riparo dal freddo in inverno e una cappa di calore in estate.
So che suo fratello è morto in Siria e provo a chiederle cosa gli sia successo. Incomincia a rispondere, ma viene distratta dal figlio che gioca con le suonerie del cellulare. Quando prova a riprendere il filo, scoppia a piangere. L’intervista si ferma qui, non è il caso di andare oltre. Per quel che riguarda il fratello, riesco a sapere che lavorava come autotrasportatore per una grossa ditta. Si trovava con 150 colleghi in un ristorante lungo l’autostrada. Uno di loro, che si era allontanato per recuperare qualcosa dal suo camion, assistette a una strage: riuscì a vedere uomini di Daesh arrivare e uccidere a colpi di arma da fuoco tutti i presenti nel ristorante, personale compreso.
Dopo tre giorni, il sopravvissuto andrò a raccontare l’accaduto ai genitori dell’uomo. È accaduto a Palmira tre anni fa.
Non volevo far piangere sua madre, così dopo aver salutato e abbracciato la donna, vado in auto a prendere uno dei pupazzetti inviatimi dall’Italia da uno dei sostenitori. Torno subito a portarlo a Zac Zac, che mi viene incontro abbracciandomi con un grande sorriso, e sorride ancora di più con il pupazzetto in mano.
Mi abbraccia di nuovo, coi piedini scalzi e le fossette in evidenza, mentre mi sussurra il nome che ha deciso di dargli. Lo sussurra troppo piano e non lo capisco, ma capisco la sua contentezza e va bene così.
Dopo averla lasciata, ci avviamo verso Aqaba. Incontri e visite per oggi sono terminati. Ho però appuntamento, per una videochiamata su messenger, con Ahmad Chahabi. Uno dei consulenti online del progetto di Ipso implementato in Giordania da Intersos. È un rifugiato palestinese. Coincidenza, arriva da quel campo di Burj el Chemali in Libano dove avevo conosciuto Mo’men, il piccolo profugo orfano siriano che avevo sostenuto a distanza proprio con il mio Matrimonio siriano. Mi collego sulla piattaforma, come se fossi anche io una rifugiata, attraverso un link e una password. Ahmad, solare e gentile, mi spiega come funzionano in genere questi incontri di supporto virtuali. Ogni beneficiario può collegarsi, previo appuntamento, per massimo cinque sessioni, con cadenza settimanale. Certo, dipende dalle concrete possibilità di collegarsi del rifugiato. Le videochiamate si tengono in stanze protette, in compagnia di nessuno, attraverso computer messi a disposizione in questo caso da Intersos.
Per prima cosa ‒ mi spiega Ahmad ‒ mi presento e rassicuro la persona sulla confidenzialità assoluta della nostra videochiamata, tanto che se preferisce può non mostrarmi il volto. Poi passo a capire quali problemi, sintomi e disagi abbia, e quando sono cominciati. Può trattarsi di incubi, difficoltà a dormire e decine di altre casistiche. Per loro è già molto poter aprire il cuore a qualcuno che li ascolta, in una finestra come questa che li apre al mondo senza metterli in pericolo. Il problema per queste persone è trovarsi in una situazione nuova, senza più alcun riferimento, avendo perso il proprio ruolo sociale e qualsiasi visione per il futuro.
Qual è dunque la chiave per aiutarli, chiedo?
Innanzitutto, far prendere loro una vera consapevolezza di ciò che hanno perso e della situazione attuale in cui si trovano. Fargli contattare tutto il dolore. Dopodiché farli uscire da un qualsiasi atteggiamento vittimistico. Piuttosto, aiutarli a individuare le risorse a loro disposizione da cui poter ripartire, come ad esempio una rete familiare o una qualche abilità, un sogno o un qualcosa che li diverta, dall’insegnare al ballare. Creare così una visione chiara per il proprio futuro, che li veda protagonisti e artefici del loro percorso di risalita. Una visione che deve essere chiaramente integrata anche con gli avvertimenti sula sofferenza che anche in futuro proveranno.
Sono tanti e diversi i casi che lui, come gli altri consulenti, si trovano ad affrontare. Più o meno gravi. Ricorda una profuga siriana che in Giordania era caduta in depressione e aveva smesso di occuparsi della casa e dei figli. Ora, non solo è tornare a fare la casalinga. Una volta compreso di non essere l’unica ad affrontare quel tipo di difficoltà, è adesso ben inserita in una rete di donne che si aiutano a vicenda. Un altro, omosessuale, che mentre passeggiava per Amman con il suo compagno era stato segnalato alla polizia e picchiato in carcere. Anc...