Profughi del clima
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Profughi del clima

Chi sono, da dove vengono, dove andranno

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Profughi del clima

Chi sono, da dove vengono, dove andranno

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Prefazione di Marco Impagliazzo. Postfazione di Gianpiero MassoloMigranti climatici, rifugiati ambientali, eco profughi, indignados del clima: sono tante le espressioni per definire la nuova migrazione forzata che rischia di trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale. Un fenomeno in corso di cui nessuno parla e di cui nessuno si occupa davvero, con milioni di profughi "fantasmi" per i quali nessun Paese prevede ancora uno status giuridico e il diritto d'asilo. Quanti sono? Chi sono? Da dove partono? Dove andranno? L'unica certezza è questa: dalle aree più povere del pianeta gli indifesi sono costretti all'esodo man mano che le condizioni di vita diventano impossibili per catastrofi meteo-climatiche come alluvioni, siccità, aumento del livello del mare, desertificazione, mancanza d'acqua, degrado degli ecosistemi. Dai 40 piccoli Stati del mondo riuniti nell'Alliance of Small Islands all'Italia – avamposto degli effetti dei cambiamenti climatici – tutti i perché sulla più grande sfida del XXI secolo. Cosa rischiamo, come possiamo fronteggiare i nuovi problemi e perché è l'ora di far partire la madre di tutte le battaglie: quella per il clima.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788849861358
Categoria
Sociology

Capitolo secondo

1. Rifugiati, sfollati, migranti ambientali: un esercito di uomini in fuga

ATOLLI SOMMERSI DALLE ACQUE, case distrutte, raccolti inondati dalle mareggiate. Pensavano che fosse una punizione degli antenati per le loro cattive azioni gli abitanti di Carteret quando si sono trovati davanti le isole che abitavano inghiottite dal mare. Sono arrivati a offrire animali in sacrificio e hanno rivolto preghiere al vento chiedendo una tregua.
La risposta a quella devastazione non soffia nel vento ma nel cambiamento climatico che pone al centro della cartina geografica questo gruppo di sei isolotti al largo della Papua Nuova Guinea. Nulla ha placato la furia del mare, neanche le barriere costruite davanti all’arcipelago che è stato spazzato via dalle tempeste. Già nel 2005 la maggior parte delle isole è diventata inabitabile. Gli atolli sono stati abbandonati, con gli abitanti, circa 2mila, costretti a trasferirsi nella vicina Bougainville.
Per quale motivo abbiamo raccontato questa storia? Perché, secondo l’Unesco, gli isolani di Carteret sono i primi profughi ufficiali causati dal riscaldamento globale.
Con l’aumentare dei fenomeni di spostamento è stata codificata l’espressione «migranti ambientali». Un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all’innalzamento del livello del mare, da siccità e desertificazione e a conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche. Nella sedicesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2010, la comunità internazionale ha riconosciuto il potenziale legame tra eventi climatici estremi e migrazioni. Nello specifico, si sostiene che: «Anche se manca una chiara evidenza del nesso sistematico tra cambiamenti del clima e migrazioni, sono evidenti gli impatti sugli spostamenti di popolazione».
Secondo un dossier di Legambiente, il numero dei profughi ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno i 200-250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio Paese».
La nascita dell’appellativo di «rifugiato ambientale» è ascrivibile a Lester Brown, fondatore del «World Watch Institute», negli anni Settanta. Nel Rapporto «Environmental Refugees», pubblicato dall’United Nations Environment Program nel 1985, i «rifugiati ambientali» vennero definiti come quegli individui che sono stati costretti a lasciare il loro luogo di abitazione tradizionale, temporaneamente o permanentemente a causa di un disastro ambientale (naturale e/o causato dall’attività umana) o coloro che sono stati permanentemente spostati.
Solitamente il migrante è colui che decide di migrare per scelta di «personale convenienza», per la ricerca di migliori condizioni materiali o sociali e non spinto da fattori esterni. Nell’uso comune il senso però è abbastanza chiaro: i migranti ambientali sono persone spinte a partire perché non riescono più a sopravvivere nel loro luogo di origine a causa di disastri ambientali, perché non hanno più accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza.
Non sempre però è semplice tracciare delle linee di demarcazione tra «migranti», «rifugiati» e «sfollati» a cui poi si vanno ad aggiungere degli aggettivi che specificano la causa dello spostamento.
In generale è possibile distinguere i fenomeni «migratori» potenzialmente indotti dai cambiamenti climatici per la loro diversa natura temporale: fenomeni di breve periodo e non pianificati, legati a eventi estremi (inondazioni, uragani ecc.) e migrazioni legate a graduali variazioni di temperature e precipitazioni che si manifestano nel lungo periodo. I primi sono assimilabili a fenomeni di sfollamento. I fenomeni di sfollamento spesso non sono il frutto di una scelta volontaria, e in qualche modo permanente, ma rappresentano una risposta a una condizione contingente. Si caratterizzano quindi per essere temporanei e di breve distanza.
Secondo i dati del Global Report on Internal Displacement, pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre, nel mondo ci sono 40,8 milioni di «sfollati interni», il doppio dei rifugiati.
Benché l’attenzione internazionale si sia concentrata sulle centinaia di migliaia di persone che rischiano la vita per raggiungere le coste europee, le migrazioni ambientali sono in realtà per la stragrande maggioranza migrazioni interne.
Nel 2015, guerre, violenze e disastri naturali hanno prodotto 27,8 milioni di sfollati interni nel mondo. Di questi, 19,2 milioni per calamità naturali. Più del numero dei rifugiati in un anno. Le migrazioni interne sono quindi in buona parte migrazioni ambientali.
Il «Norwegian Refugee Council» spiega che «nel corso degli ultimi 8 anni è stato registrato un totale di 203,4 milioni di spostamenti collegati ai disastri».
Il continente più colpito è stato quello asiatico: in testa India (3,7 milioni di sfollati), Cina (3,6 milioni) e Nepal (2,6 milioni).
Nel periodo 2008-2014 hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni 157 milioni di profughi: circa un terzo della popolazione dell’Ue. L’Emergency events data base del CRED (Centre for research on the epidemiology of disaster) riporta che negli ultimi 20 anni sono state distrutte da catastrofi climatiche 87 milioni di case.
Così come ci si può aspettare una crescita degli sfollamenti in conseguenza dell’aumentata frequenza di eventi estremi, allo stesso modo anche le forme di migrazione volte a rispondere a mutamenti più graduali potrebbero crescere durante il secolo. In questo secondo caso però la scelta può essere di natura definitiva e implicare spostamenti anche ad ampio raggio.

2. Tu chiamale, se vuoi, devastazioni

Ormai molti studi avvertono che uno degli effetti del riscaldamento dell’atmosfera terrestre è proprio l’aumentata probabilità di fenomeni meteorologici estremi. Negli ultimi anni eventi climatici distruttivi si sono manifestati con frequenza sempre maggiore non solo nei Paesi meno attrezzati a farvi fronte.
Le immagini di devastazione di New Orleans provocate dall’uragano Katrina nel 2005 restano indelebili: oltre 1800 morti, un milione di sfollati, gli Stati Uniti costretti a chiedere alla NATO e all’UE aiuti umanitari.
Nel 2012 il passaggio dell’uragano Sandy ha causato perdite stimate in 65,6 miliardi di dollari. Oltre 50mila persone negli Stati Uniti hanno ancora bisogno di assistenza abitativa in seguito a questi eventi.
Nel 2013 il tifone Man-yi ha seminato morte e rovina in Giappone causando il dislocamento di 260mila persone.
Scenari apocalittici, corpi che galleggiano nelle strade allagate e sopravvissuti che cercano riparo tra gli alberi e sui tetti degli edifici rimasti in piedi. Strade distrutte e persone che non possono essere soccorse se non in elicottero. Le cronache si ripetono nella loro tragicità e restituiscono un paesaggio di macerie come in Oklahoma, sei anni fa, quando un tornado – fenomeno ricorrente tra il Golfo del Messico e le montagne Rocciose – ha spazzato via case e città con una furia senza precedenti. Il 2015 è stato l’anno in cui «El Niño» si è manifestato con effetti tra i più devastanti mai registrati.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme per più di 60 milioni di persone minacciate dall’aumento della temperatura. Il fenomeno ha provocato una grave siccità nel Corno d’Africa aggravando le condizioni di vita di oltre 10milioni di persone mentre il Sud America è stato colpito da forti alluvioni che hanno costretto migliaia di persone a spostarsi.
In Colombia nel 2011 le forti piogge hanno causato 5,85 miliardi di dollari di danni (il 2 per cento del pil), in Brasile i temporali che si sono abbattuti nella zona di Rio de Janeiro hanno provocato vittime e sfollati.
In Thailandia e in Cambogia si sono verificate le più gravi inondazioni nella storia dei due Paesi. Bangkok ha registrato l’80% in più di pioggia rispetto alle medie stagionali. Le alluvioni hanno colpito l’83% delle province colpendo al cuore l’economia del Paese asiatico. Il 25% del raccolto di riso è andato distrutto, i danni ammontano a 45 miliardi di dollari.
Ma non solo.
La Thailandia è infatti il più grande esportatore di riso e le piogge monsoniche hanno contribuito a innescare un aumento mondiale del prezzo del riso alla fine del 2011. In Cambogia, invece, paura e delirio per l’esondazione del fiume Mekong che ha costretto 23mila famiglie a cercare fortuna altrove. Secondo i dati dell’ONU forti inondazioni hanno portato vittime, devastazioni e carestie anche in quelle zone dell’Africa che vengono considerate tra le più povere della terra.
Alcuni scienziati hanno recentemente affrontato il tema del riscaldamento nell’area dell’Oceano Indiano meridionale nel «South African Journal of Science». Secondo gli esperti, mentre l’acqua si riscalda, si estende l’area con temperature favorevoli alla formazione di cicloni tropicali. La Categoria di cicloni numero 5, che l’Atlantico del Nord conosce da quasi un secolo, ha iniziato a colpire l’Oceano Indiano meridionale solo dal 1994, a un ritmo che da allora non ha cessato di aumentare.
Man mano che i cambiamenti climatici si intensificheranno, queste tempeste si moltiplicheranno e questo si tradurrà in una maggiore frequenza di danni gravi su aree sempre più ampie. L’IPCC, il gruppo di esperti di clima dell’ONU, ha rilevato che «gli eventi estremi legati alle precipitazioni sono destinati ad aumentare nei prossimi anni. Le temperature più alte a causa dell’operato dell’uomo innescheranno condizioni di siccità più intense e/o temporali sempre più forti su scala globale».
Il punto, quindi, è che l’innalzamento delle temperature medie aumenta anche la probabilità che si scatenino tempeste perfette, o altri fenomeni meteorologici di vasta portata con relativi impatti sugli ecosistemi e sulle persone che li abitano.
Come è successo in Mozambico, dove centinaia di migliaia di persone sono oggi vittime e testimoni delle conseguenze devastanti del cambiamento climatico in corso, pagandone il prezzo più alto senza esserne la causa (l’Africa è responsabile solo del 4% delle emissioni di gas serra sul pianeta). Le inondazioni hanno provocato lo spostamento di 200mila persone nel 2001, 163mila nel 2007 e 102mila nel 2008.
Nella notte tra il 14 e il 15 marzo 2019, il ciclone Idai ha devastato la città portuale di Beira, per poi seminare desolazione nei vicini Malawi e Zimbabwe.
Beira, la seconda città più grande del Mozambico, è stata rasa al suolo per l’80%: case inghiottite dalle inondazioni, ponti e strade spazzati via dal vento, ospedali distrutti, danneggiato il sistema di acqua potabile della città e niente corrente elettrica.
In questo Paese del sud-est dell’Africa, che con i suoi 30 milioni di abitanti è tra i più poveri al mondo, il bilancio è gravissimo: almeno 400 morti, più di 150...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Indicazione di collana
  5. Frontespizio
  6. Dedica
  7. Prefazione di Marco Impagliazzo
  8. Profughi del clima
  9. Introduzione
  10. Capitolo primo
  11. Capitolo secondo
  12. Capitolo terzo
  13. Capitolo quarto
  14. Capitolo quinto
  15. Postfazione di Gianpiero Massolo