1. Lo Stato corporativo
1.1 Origini storiche e funzioni delle corporazioni
L’origine storica degli ordini professionali può farsi risalire all’epoca medioevale, al XII secolo, quando nacquero le corporazioni delle arti e mestieri come associazioni create per regolamentare e tutelare le attività degli appartenenti a una stessa categoria. In un’Italia che non c’era, la nascita e lo sviluppo furono prevalentemente spontanei e legati alla fioritura dei Comuni, della cui struttura istituzionale furono parte integrante.
Nelle corporazioni si organizzarono le classi dominanti dei ricchi mercanti e i collegi delle professioni nobili (giudici, notai, medici); nelle consorterie, le classi gentilizie; nelle corporazioni artigiane, in un primo tempo i piccoli imprenditori e solo più tardi gli artigiani stessi.
In origine assicurarono la difesa dei diritti dei propri membri, provvidero alla loro assistenza, alla cura degli infermi, alle onoranze per i defunti e al culto. Svolsero un’importante funzione economica raggruppando le forze produttive, disciplinandole, conservando e perfezionando la tecnica delle arti e assicurando la buona qualità del prodotto e il giusto prezzo.
La corporazione svolse inizialmente il ruolo positivo di custodire e tramandare le regole, salvaguardando l’esercizio di molte attività, ma perse progressivamente la funzione originaria per sclerotizzarsi, fino a diventare uno strumento di creazione di rendite di posizione. Alla fine, la difesa dei privilegi determinò il blocco del progresso tecnico e, con il mutare delle condizioni politiche ed economiche, le corporazioni divennero un ostacolo alla libertà di impresa e un danno per la collettività. Infatti, con il passare del tempo, si sostituirono all’autorità statale, tenendola formalmente in vita per corroborare le loro decisioni.
Gli ordini, infatti, nati come ordinamenti giuridici privati a difesa degli interessi del gruppo di appartenenza, sono stati successivamente inglobati nella disciplina pubblicistica attraverso la trasformazione in enti pubblici indipendenti e autonomi sotto la sorveglianza dello Stato. L’obbligatoria appartenenza a una categoria comportava l’attribuzione di uno status e la qualità delle prestazioni diventava, quindi, una definizione normativa. Le corporazioni, come già sosteneva Adam Smith in La ricchezza delle nazioni, erano
Esse furono soppresse in Francia nel periodo della rivoluzione poiché «non è permesso a nessuno di suscitare nei cittadini un interesse intermedio e di allontanarli, mediante lo spirito corporativo, dalle faccende pubbliche» (legge «Le Chapelier» del 1791), ma furono ripristinate pochi anni dopo, con l’idea che la loro esistenza avrebbe migliorato la qualità dei servizi professionali; un pretesto infondato che ancora oggi sorregge le motivazioni dei difensori degli ordini professionali.
1.2 Lo Stato corporativo fascista
Il corporativismo, come struttura associativa di lavoratori e datori di lavoro fondato sul principio della collaborazione, era un tentativo di risolvere il conflitto di classe, preconizzato dal marxismo, attraverso un sindacato (corporazione) dove si incontravano rappresentanti dei dipendenti e dei datori di lavoro di ogni singola categoria con la supervisione dei pubblici poteri. Esso costituiva la pietra angolare del regime, tanto che secondo Mussolini «lo Stato fascista è corporativo o non è fascista».
Questa dottrina, espressa nella Carta del Lavoro del 1927, regolò la vita politica e sindacale del regime fascista che cercava una terza via per conciliare il liberismo economico e il socialismo marxista ed eliminare la conflittualità sociale.
La corporazione, quindi, era un organo dello Stato, dove l’ultima parola spettava al governo, che privilegiava il principio secondo cui «l’individuo non esiste se non in quanto è nello Stato e subordinato alle necessità dello Stato». Il sistema era strettamente collegato con l’autarchia produttiva e si proponeva di sostituire il meccanismo della domanda e dell’offerta con il dirigismo statale. In realtà il corporativismo fascista si tradusse nel proteggere la grande industria e nel comprimere la dinamica salariale.
Una legge del 1929 istituì la Camera dei fasci e delle corporazioni che divenne l’organo legislativo del regno in sostituzione della Camera dei Deputati. I suoi componenti, oltre 600, erano espressione del Gran consiglio del fascismo, del Consiglio nazionale, del PNF e del Consiglio nazionale delle corporazioni in rappresentanza delle organizzazioni sindacali e imprenditoriali, dei ministeri economici e sociali e delle opere nazionali, strutture sociali collaterali. Con l’istituzione della nuova Camera, che svolgeva un ruolo consultivo e marginale, gli ordini furono posti sotto il tallone dell’esecutivo e fu eliminata dalla vita politica italiana ogni forma di dialettica pubblica e di democrazia.
1.3 Gli ordini professionali nella Repubblica
L’abrogazione dell’ordinamento corporativo avvenne all’indomani della caduta del regime fascista; ma un decreto legislativo del 1944 restituì agli ordini le loro funzioni originarie senza smantellarne l’impianto istituito nel periodo fascista1.
Ma, mentre lo Stato fascista, non dovendo compiacerli per ottenere il consenso, aveva la forza di imporre loro le proprie scelte, la fragile democrazia che gli è subentrata ne è diventata vittima; tutte le categorie, con le corrispondenti federazioni e confederazioni, cominciarono a svilupparsi, ma senza una concezione unitaria e senza alcun collegamento con i problemi del Paese. Lo Stato, in pratica, continuò a proteggere le corporazioni senza contropartita in termini di interesse generale, trasformandosi progressivamente in una cinghia di trasmissione di interessi particolari. Agli ordini professionali vennero progressivamente riconosciuti compiti e funzioni che, di fatto, li rendevano organismi autoreferenziali, svincolati dalle prescrizioni dell’ordinamento e sottratti alle funzioni giurisdizionali della magistratura. Già nel decreto legislativo del 1944 (art. 7) si stabiliva che per assolvere le loro funzioni, i consigli degli ordini potevano «entro i limiti strettamente necessari a coprire le spese del loro funzionamento, stabilire una tassa annuale per l’iscrizione nel Registro, ed una per il rilascio di certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari». Si avviava, così, una sorta di sistema fiscale obbligatorio parallelo a quello dello Stato e i limiti strettamente necessari si dilatavano fino a comprendere anche la più voluttuaria delle spese.
Nel 1948 la Costituzione affidò allo Stato il compito di accertare, con un atto abilitativo, il possesso dei requisiti per l’esercizio di alcune professioni, ma anche tale incombenza venne presto delegata alla stessa corporazione cui il candidato avrebbe dovuto accedere. Le norme deontologiche, destinate a regolare la vita della categoria, sono elaborate dalla stessa comunità di professionisti tenuta a rispettarle.
Le competenze «istituzionali degli Ordini e Collegi si riassumevano nella tenuta degli Albi, nella formazione e nell’aggiornamento degli iscritti, nell’esercizio della vigilanza e della verifica dei requisiti per l’accesso e per la permanenza nell’albo, nella funzione disciplinare, nonché nella redazione e proposta delle tariffe, e nella liquidazione dei compensi, a richiesta del professionista o del privato, il tutto sempre essenzialmente nell’interesse della collettività», e solo di riflesso, nell’interesse dei professionisti stessi. Quindi, al primo posto ci sarebbe l’interesse della collettività e, solo in via subordinata, quello dei professionisti. Ciò significa che in caso di conflitto tra gli interessi della categoria e quelli della collettività dovrebbero essere questi ultimi a prevalere: un principio enunciato, ma sempre ribaltato nella prassi quotidiana.
L’iscrizione obbligatoria, avrebbe dovuto legittimare il dubbio su quanto gli ordini fossero realmente rappresentativi delle categorie. Infatti, una rappresentanza priva di volontarietà diventa discutibile poiché l’obbligo rende difficile la quantificazione delle reali adesioni le quali, se «lette» in base alle assemblee2, sono state sempre meno consistenti di quelle denunciate.
Abilitato da una commissione prevalentemente interna, chi trovava altra occupazione rinunciava, mantenendo il titolo come raggiungimento di uno status. Si rientrava, così, sotto la giurisdizione del corrispondente ordine dal quale, in cambio di un contributo annuo e del rispetto delle regole deontologiche, si otteneva un’appartenenza e una tessera, vero e proprio salvacondotto nei confronti del mondo esterno. L’iscrizione all’albo è, quindi, solo una licenza che garantisce l’accesso a una riserva in cui la clientela «asimmetrica» svolge la funzione di selvaggina e dove avere una buona mira può rivelarsi, oltre che inutile, anche frustrante.
Scriveva Luigi Einaudi:
La Costituzione, in realtà, prevede soltanto l’obbligatorietà dell’esame, ma non dell’iscrizione, la quale comporta la soggezione a una regolamentazione che non garantisce la professionalità, come non può garantirla nessun meccanismo che prescinde dalle esigenze del mercato. Lo dimostra il fatto che nessuno è mai stato radiato dall’albo per manifesta incompetenza o per evidenti lacune nella preparazione della causa. L’etica del professionista è uguale a quella richiesta a qualsiasi imprenditore, con la differenza, però, che nelle professioni cosiddette «libere» il controllo è sottratto a una giurisdizione terza perché a vegliare sui comportamenti degli iscritti sono i rappresentanti della stessa categoria, ovviamente interessati alla tutela corporativa, come sempre avviene quando si costituiscono fori privilegiati. L’albo si limitava ad accertare la competenza fotografando al momento dell’accesso un elenco di laureati che avevano superato l’esame di abilitazione, e non garantiva né la dirittura morale dell’iscritto, né la qualità della prestazione per cui potrebbe costituire un veicolo di pubblicità ingannevole con conseguente obbligo dell’ordine di risarcire i clienti mal assistiti.
Il limite numerico, i contingentamenti, le piante organiche previsti per alcuni settori (notai, farmacie) e le esclusive sono dettati dalla volontà di mantenere inalterato il reddito degli inclusi, impedendo a chi sta fuori di insidiarlo. Essi non sono funzionali alla protezione dell’interesse generale, ma limitano la possibilità di scelta dei consumatori senza garantire la qualità delle prestazioni o la distribuzione equilibrata dei servizi sul territorio.
Tutta la costruzione ordinistica trovava la sua giustificazione nella garanzia della professionalità e nell’asimmetria informativa, cioè nell’incapacità dell’utente di valutare la qualità delle prestazioni e la congruità del prezzo. Queste sopravvivono soltanto come pretesti per mantenere i nodi corporativi, che stanno impiccando il Paese, e per difendere posizioni di potere acquisite. Ma, anche se la globalizzazione ha individuato nuovi strumenti per misurare la professionalità e la tecnologia ha diffuso la conoscenza anche negli angoli più remoti del pianeta, in Italia queste giustificazioni trovano ascolto.
1.4 Esempi di originalità italiana
1.4.1 Giornalisti
Luigi Einaudi, nel dicembre 1945, scriveva:
Ma non gli hanno dato ascolto.
I giornalisti italiani sono quasi gli unici al mondo a essere inquadrati in un ordine obbligatorio e costituito per legge, che ne fa quasi soggetti pubblici; le loro regole deontologiche sono fissate da una legge e da un ordinamento soggetto a controllo pubblico (in Francia c’è un controllo statale, in Norvegia vige il principio del libero associazionismo, mentre in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Regno Unito non c’è alcun bisogno di riconoscimento professionale). Non a caso l’ordine era stato istituito dal regime fascista con l’obiettivo di controllare i giornalisti e chiudere, così, ogni varco alla libertà di stampa.
Nel 1963 ne fu riformulata la struttura, ne furono riviste le finalità e democratizzati gli organi direttivi (legge 689/1963).
Nel 1997 fu proposto dai radicali un referendum per eliminarlo. La maggioranza degli elettori italiani (più di 8 milioni, il 65,5 per cento dei votanti) scelse il «sì», ma il referendum non raggiunse il quorum. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi, dichiarò ammissibile il referendum affermando che la creazione di un ordine risponde a scelte di «opportunità», che «l’apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse che possano giustificarlo appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore»4 e che la disciplina ordinistica è solo «una fra le tante soluzioni astrattamente possibili per attuare la Costituzione»5.
Negli altri Paesi la professione giornalistica viene ritenuta un’attività liberamente esercitabile e il titolo è legato alle capacità personali e all’esperienza acquisita. In Italia, invece, si affronta il problema dell’ordine solo in funzione della sua sopravvivenza senza neppure chiedersi se e a cosa serve: non garantisce la qualità del servizio e la deontologia, mentre i giornalisti affermati lo considerano un «inutile carrozzone». I titolari di blog e i giovani temono la denuncia «per esercizio abusivo della professione», che è cosa diversa dall’esercizio dell’attività giornalistica. Infatti, non commette il reato di abusivo esercizio della professione di giornalista, di cui all’art. 348 del Codice penale e all’art. 45 della legge del 3 febbraio 1963, n. 69, colui che, senza essere iscritto all’Albo dei giornalisti o dei pubblicisti, collabori saltuariamente a un periodico venendo retribuito volta per volta «poiché la Costituzione garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero liberamente e con ogni mezzo di diffusione».
In Italia l’aspirante giornalista deve sostenere un esame di ammissione all’albo, previo praticantato presso una redazione o la frequenza di una scuola di giornalismo, ma gli editori sono liberi di assumere chi vogliono. In tal modo resta ancor più delineato il carattere sovrastrutturale dell’ordine, la cui funzione essenziale è quella di produrre lavoro nero e precariato. Naturalmente gli attestati sono «pezzi di carta» che servono solo a chi ha un tavolo su cui spenderli poiché anche nel giornalismo si accede, per lo più, attraverso vie amicali, quasi sempre inadatte a garantire una selezione meritocratica.
L’ordine ha solo il potere di attestare, attraverso un esame, la conoscenza di alcu...