L'economia in una lezione
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Con oltre un milione di copie vendute negli Stati Uniti, L'economia in una lezione è ormai un testo classico della divulgazione economica. Conciso e istruttivo, oltre che incredibilmente preveggente e di ampio respiro, questo volume individua con precisione e chiarezza gli errori più diffusi nel modo in cui le persone interpretano i fatti economici. Idee errate non per questo sono meno influenti

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2012
ISBN
9788864400730
Argomento
Economics
Capitolo 1 – La lezione
 
 
1.
L’economia è la scienza più contaminata da errori: e non a caso. Le difficoltà ad essa inerenti – che sono di per sé grandissime – vengono moltiplicate a dismisura da un fattore che in altre discipline, quali la fisica, la matematica o la medicina, è inoperante: la difesa degli interessi di parte. Infatti, ognuno dei gruppi nei quali si articola la società umana ha propri specifici interessi. Questi possono essere concordanti con quelli degli altri gruppi, ma spesso – come vedremo – anche contrastanti. Così, mentre una determinata politica economica può essere conforme all’interesse di tutti i gruppi, un’altra può favorire un solo gruppo e danneggiare gli altri. Il gruppo favorito trova così vivo interesse a perpetuare tale politica, che non si stanca di sostenere con tutte le sue forze, ricorrendo ai più sottili sofismi, assoldando alla propria causa i più agguerriti difensori e inducendo i più esperti avvocati a dedicarsi a ciò interamente. Ed essi, alla fine, o riescono a convincere il pubblico della fondatezza della tesi, oppure complicano a tal punto le cose che neppure il cervello meglio dotato riesce più a vederci chiaro.
A questo incessante patrocinio dell’interesse particolare si aggiunge una seconda e importante causa del quotidiano diffondersi dei sofismi economici: la naturale tendenza a considerare solo gli effetti immediati di una determinata politica – oppure quelli che riguardano un solo gruppo particolare –, trascurando quelli successivi, e quelli che riguardano non un gruppo specifico, ma anche il resto della società. È l’errore di trascurare le conseguenze seconde.
Tutta la differenza fra una buona e una cattiva economia sta – si può dire – in questo grave errore e in questa negligenza. Il cattivo economista ha di mira solo gli effetti immediati; il buon economista guarda più lontano e si preoccupa anche di quelli remoti o indiretti. Il cattivo economista considera le conseguenze di una determinata politica solo nei confronti di un gruppo particolare; il buon economista si preoccupa anche delle conseguenze che tale politica può avere sull’intera collettività.
Questa necessità di prevedere tutte le conseguenze può sembrare ovvia. Non sappiamo tutti, per esperienza personale, che verso noi stessi abbiamo talora indulgenze, che lì per lì sono fonte di piacere, ma che alla resa dei conti si rivelano poi dannosissime? Non sanno i ragazzi che a mangiar troppi dolci si finisce per star male? Chi si ubriaca non sa che il giorno dopo si sveglierà con lo stomaco pesante e con i più tremendi mal di testa? Ignora forse il bevitore che si rovina il fegato e finisce per ridurre le sue aspettative di vita? Lo stesso dongiovanni non sa di correre ogni sorta di rischi, dal ricatto alle malattie? E infine, considerando la cosa dal punto di vista dell’economia individuale, non sanno gli infingardi e gli scialacquatori, anche quando hanno raggiunto i più alti livelli della fortuna, che stanno andando incontro a un avvenire di debiti e povertà?
Ebbene, quando si tratta di economia, tutte queste verità vengono ignorate. Si vedono taluni uomini – considerati tuttavia valenti economisti – che per salvare l’economia sconsigliano il risparmio e indicano in una sorta di prodigalità collettiva il miglior mezzo per favorire lo sviluppo economico. Se qualcuno li mette in guardia contro le possibili e future conseguenze di una simile politica, si sente rispondere con la stessa spavalderia con cui un figliol prodigo potrebbe rispondere al padre che gli muova rimprovero: «Ma quando questo succederà, e cioè a lungo termine, saremo tutti morti!». Queste elaborate sciocchezze vengono scambiate per motti di spirito e si pensa che siano l’espressione di una collaudata saggezza.
Il tragico sta in questo, che noi stiamo già sopportando le conseguenze delle scelte politiche di un passato remoto o recente. L’oggi è già quel domani che ieri il cattivo economista vi consigliava di ignorare. Le conseguenze non immediate di una politica economica possono manifestarsi già in pochi mesi. Altre non si potranno avvertire che nell’arco di qualche anno e altre ancora tra qualche decina di anni. Ma, in ogni caso, tali conseguenze lontane sono già in germe nella politica di oggi, com’è certo che la gallina nasce dall’uovo e il fiore dal seme.
Sotto questo aspetto, dunque, si può condensare il succo di tutta l’economia in una sola lezione, ed essa si può ridurre a una sola frase: L’arte della politica economica sta nel prevedere tutte le conseguenze (non solo immediate ma anche lontane) di ogni programma e provvedimento, e nel considerare non solo le conseguenze su una parte della società, ma sull’intera collettività.
 
2.
Nove decimi degli errori economici, che sono causa di tanti disastri nel mondo contemporaneo, derivano dall’ignorare questo assioma. E tutti si ricollegano a uno o all’altro di questi gravi errori,  o a entrambi: quello di guardare solo le immediate conseguenze di un’azione o di una proposta, e quello di prendere in considerazione le conseguenze solo per un gruppo, trascurando ciò che succede a tutti gli altri.
Naturalmente si può anche commettere l’errore opposto. Se si studiano le conseguenze di una determinata politica, non ci si deve limitare a considerare solo quelle che essa può produrre nel lungo periodo e sull’intera comunità. Questo errore lo commettevano spesso gli economisti classici. Essi rimanevano indifferenti alla sorte dei gruppi ai quali potesse recare un danno immediato una politica che si prospettava invece benefica nel lungo periodo.
Ma oggi in questo errore non si ricade quasi più: a commetterlo ancora sono soprattutto taluni economisti di professione. L’errore oggi più diffuso – ed è davvero tanto diffuso! –, l’errore che si sente continuamente ripetere ogni volta che si affrontano argomenti di economia e che fa capolino in migliaia di discorsi politici, l’errore fondamentale della nuova scuola economica sta nel considerare soltanto gli effetti immediati di una politica su qualche gruppo particolare e nel trascurare – o nello svalutare – quelli successivi e riguardanti l’intera comunità. Gli economisti “moderni”, nel paragonare i loro metodi con quelli degli studiosi “classici” o “ortodossi”, si congratulano tra loro persuasi di avere compiuto un grande progresso o addirittura una rivoluzione, perché tengono in gran conto i risultati immediati, che invece i classici trascuravano. Se non che, dimenticando o svalutando le conseguenze remote, finiscono per commettere un errore ben più grave. Mentre sono tutti presi dall’esame preciso e minuzioso di qualche albero, perdono di vista la foresta. D’altronde, i loro metodi e le loro conclusioni sono spesso tipicamente reazionari e talvolta sono essi stessi sorpresi di trovarsi d’accordo con le concezioni mercantiliste del XVII secolo. In effetti, essi ricadono in molti degli errori del passato e, se non fossero così poco coerenti con loro stessi, essi ricadrebbero anche in quegli errori di cui si sperava che gli economisti classici avessero fatto giustizia una volta per tutte.
 
3.
Si è spesso fatta questa malinconica constatazione: che i cattivi economisti presentano le loro false concezioni con più abilità di quanto i buoni economisti non presentino le loro verità. E spesso si deplora che, dall’alto delle loro tribune, i demagoghi espongano assurde concezioni economiche con più verosimiglianza dell’onesto cittadino che si sforza di dimostrarne gli aspetti sbagliati. Ma la causa di questa anomalia non è misteriosa. Essa nasce dal fatto che i demagoghi, al pari dei cattivi economisti, non presentano che mezze verità; non parlano che delle conseguenze immediate di una certa politica o le considerano solo nei confronti di un gruppo particolare.
In molti casi – ed entro certi limiti – possono avere ragione. Anche in questi casi, però, non ci si deve dimenticare di far loro un’obiezione: che la politica da loro auspicata potrebbe avere nel tempo conseguenze meno desiderabili, oppure che essa giova a un solo gruppo di individui e danneggia tutti gli altri. L’obiezione deve essere completa e correggere la mezza verità che essi enunciano presentando l’altra metà. Ma per enumerare le più gravi conseguenze della loro politica, senza dimenticarne alcuna, è spesso necessaria un’interminabile serie di ragionamenti complicati e uggiosi. La maggior parte degli ascoltatori trova difficile seguirli, dato che la loro attenzione si affievolisce rapidamente e che la noia li prende. Il cattivo economista sfrutta allora questo affievolirsi dell’attenzione e questa pigrizia mentale dichiarando che le obiezioni non sono che manifestazioni di “vecchie teorie”, “laissez-faire”, “apologia del capitalismo” o qualsiasi altro termine assai subdolo. Tali affermazioni colpiscono gli ascoltatori come altrettanti argomenti perentori e li dispensano dal seguire i ragionamenti loro esposti o dal giudicarli nel merito.
Ecco, dunque, qual è in astratto l’impostazione del problema che ci proponiamo di esporre in questa lezione e quali sono le false idee che ne ostacolano la soluzione. Se, però, non lo illustrassimo con qualche esempio, non lo risolveremmo e le false idee continuerebbero ad avanzare senza essere smascherate. Grazie a questi esempi, potremo passare dai problemi economici più semplici ai più complessi e difficili; potremo dapprima scoprire e poi evitare i sofismi più semplici e, successivamente, i più complicati e sfuggenti.
Questo è il compito che ci accingiamo ad affrontare.
 
 
Parte seconda
La lezione applicata
 
Capitolo 2 – La finestra rotta
 
 
Cominciamo con un esempio, il più semplice possibile, e seguendo Frédéric Bastiat prendiamo l’esempio di una finestra rotta.
Un monello scaglia un sasso contro la vetrina di un panettiere. Costui, furente, esce dal negozio: il monello se l’è svignata. Si raccoglie un po’ di gente che, in un primo tempo, contempla con beata soddisfazione il grande foro nella vetrina e i frammenti di vetro disseminati sul pane e sulle torte. Dopo un istante, ecco nascere il bisogno di un po’ di riflessione filosofica. Quasi certamente parecchie persone del gruppo si diranno, o diranno al panettiere: «Dopo tutto, questo piccolo guaio ha un suo lato positivo: dà lavoro al vetraio». E prendendo le mosse da lì cominciano a fare qualche considerazione sull’accaduto. Quanto può costare oggi un vetro così grande? Cinquanta dollari? È una bella somma. Ma dopo tutto, se non si rompessero mai dei vetri che fine farebbero i vetrai? E da questo momento si sgrana senza fine il rosario dei ragionamenti. Il vetraio avrà nelle sue tasche cinquanta dollari in più. Li spenderà presso altri negozianti. A loro volta essi avranno cinquanta dollari da spendere presso altri, e così via. Il vetro rotto finisce per diventare una fonte di guadagno e di lavoro, in una cerchia che si allarga senza fine. La logica conclusione di tutto ciò dovrebbe essere – se la gente volesse trarla – che il monello che ha lanciato il sasso, lungi dal rappresentare un danno pubblico, è stato un pubblico benefattore.
Ma esaminiamo un altro aspetto della cosa. La gente, almeno per quanto riguarda questa prima conclusione, non ha tutti i torti: non c’è dubbio che questo piccolo atto di vandalismo arrechi anzitutto lavoro al vetraio. E il vetraio non sarà certo più triste nell’apprendere questo incidente di quanto non lo sia l’impresario di pompe funebri nell’apprendere di un decesso. Il proprietario del negozio, però, ci rimette cinquanta dollari, che egli aveva destinato all’acquisto di un vestito nuovo. Siccome deve far sostituire il vetro del suo negozio egli deve privarsi del vestito (o di qualche altro oggetto di cui ha bisogno). Invece che possedere il vetro e cinquanta dollari, ora non ha che il vetro. Oppure, se aveva deciso di comperare il vestito, invece che avere il vetro e il vestito deve accontentarsi del solo vetro. Ora, se prendiamo a considerare il panettiere come elemento della società, ci accorgiamo che questa società ha perso un vestito nuovo, che avrebbe potuto essere fatto, e che si è impoverita di altrettanto.
Riassumendo, il guadagno in lavoro del vetraio non è altro che la perdita in lavoro del sarto. Nessun “lavoro” nuovo è stato creato. La gente sempliciotta non ha considerato che due elementi del problema: il panettiere e il vetraio, ma non ha pensato che ce n’era un terzo, il sarto. E l’ha dimenticato, solo perché costui non è entrato in scena. Dopo un giorno o due la gente noterà il vetro nuovo, ma non vedrà mai il bel vestito nuovo, che non verrà mai realizzato. Queste persone, dunque, si accorgono solo di ciò che è immediatamente percepibile dai loro occhi.
 
Capitolo 3 – I benefici della distruzione
Vi ho esposto l’esempio del vetro rotto. È la dimostrazione di un errore elementare. Chiunque – si può pensare – lo eviterebbe con un po’ di riflessione.
Non è così: sotto mille travestimenti il falso ragionamento del vetro rotto è il più persistente di tutta la storia dell’economia. Ed è oggi più vivo che mai, ripetuto solennemente e ogni giorno dai grandi industriali, dalle Camere di commercio, dai capi dei sindacati, dai redattori e dai collaboratori dei giornali, dai commentatori della radio, dai più esperti studiosi di statistica (con l’impiego delle tecniche più raffinate) e, infine, dai professori di economia politica delle nostre migliori università. Ciascuno nel proprio ambito si dilunga volentieri sui vantaggi della distruzione.
Benché qualcuno reputi indegno sostenere che piccoli atti di distruzione possano arrecare benefici, tutti sono concordi nel vedere vantaggi quasi inesauribili nelle grandi distruzioni. Essi ci raccontano quanto ce la passiamo meglio, sul piano economico, quando siamo in guerra invece di quando siamo in pace. Essi vedono “miracoli produttivi” che non si possono conseguire in assenza di un conflitto militare. Intravedono anche un mondo del dopoguerra reso prospero dall’enorme domanda “accumulata” o “differita”. Quindi, per l’Europa fanno compiaciuti il conto delle città rase al suolo, che “bisognerà ricostruire”. Per l’America, delle case che non si sono potute costruire durante la guerra, delle calze di nylon che non si son potute distribuire, di automobili e pneumatici vecchi e consunti, di radio e frigoriferi antiquati. La somma del valore di tutti questi beni è impressionante.
Ritroviamo qui la nostra vecchia amica, la falsa idea del vetro rotto, rivestita a nuovo, del tutto irriconoscibile per il modo in cui si è sviluppata. Questa volta è stata puntellata da tutto un groviglio di sofismi. Essa fa una grande confusione fra bisogno e domanda. Più la guerra distrugge, più impoverisce, più aumentano i bisogni del dopoguerra: non c’è dubbio. Ma il bisogno non è la domanda. La domanda economica reale non si fonda soltanto sul bisogno, ma anche sul potere di acquisto. I bisogni della Cina attuale sono incomparabilmente maggiori di quelli dell’America. Ma il potere di acquisto della Cina, e per conseguenza lo sviluppo delle “nuove attività” che esso può determinare, è incomparabilmente inferiore.
E, se andiamo oltre l’aspetto superficiale delle cose, ci può accadere di imbatterci in un’altra falsa idea, che gli “spacca-vetrine” afferrano quasi sempre al volo e fanno loro. Essi pensano al “potere di acquisto” soltanto in termini di moneta. Ora, per fare moneta basta avere a disposizione una tipografia. Infatti, nel momento in cui io scrivo, la produzione delle banconote è – se si vuol misurare il valore di un prodotto in termini di moneta – l’industria più prospera del mondo.
Ma più moneta si fabbrica con questo sistema, più diminuisce il valore dell’unità monetaria; ciò è confermato dall’aumento dei prezzi. Siccome però quasi tutti sono abituati a configurare la propria ricchezza e i propri redditi in termini di moneta, la gente crede di essere più ricca se possiede una maggior quantità di moneta, anche se poi, in realtà, è più povera...

Indice dei contenuti

  1. Title page
  2. Prefazione
  3. Parte prima
  4. Capitolo 1 - La lezione
  5. Parte seconda
  6. Capitolo 2 - La finestra rotta
  7. Capitolo 3 - I benefici della distruzione
  8. Capitolo 4 - Niente lavori pubblici senza tasse
  9. Capitolo 5 - Le tasse scoraggiano la produzione
  10. Capitolo 6 - Il credito modifica gli indirizzi produttivi
  11. Capitolo 7 - La maledizione delle macchine
  12. Capitolo 8 - Lavorare meno, lavorare tutti
  13. Capitolo 9 - Smobilitazione militare e burocratica
  14. Capitolo 10 - Il feticismo della piena occupazione
  15. Capitolo 11 - A chi giovano i dazi doganali?
  16. Capitolo 12 - L’ossessione delle esportazioni
  17. Capitolo 13 - La “parità” dei prezzi
  18. Capitolo 14 - Salviamo il settore industriale!
  19. Capitolo 15 - Come opera il sistema dei prezzi
  20. Capitolo 16 - La “stabilizzazione” dei prezzi
  21. Capitolo 17 - Il controllo statale dei prezzi
  22. Capitolo 18 - La legge sul salario minimo
  23. Capitolo 19 - L’azione sindacale fa crescere davvero i salari?
  24. Capitolo 20 - “Quanto basta per riacquistare quel che si è prodotto”
  25. Capitolo 21 - La funzione del profitto
  26. Capitolo 22 - Il miraggio dell’inflazione
  27. Capitolo 23 - L’attacco al risparmio
  28. Parte terza
  29. Capitolo 24 - La lezione riesposta
  30. Profilo bio-bibliografico