Saggio sulla povertà
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Nel 1835 Alexis de Tocqueville si sofferma a riflettere sulla natura e sulle cause della povertà, sviluppando un'analisi ancora oggi di straordinaria attualità.Dopo aver offerto un'acuta indagine su alcune fondamentali trasformazioni legate alla modernizzazione industriale, lo studioso esamina la differenza tra la carità privata e quella pubblica.Egli è consapevole del fatto che la prima non sia in grado di eliminare tutti i mali del mondo, ma egualmente la preferisce alla seconda, che causa più mali di quanti non ne elimini.Per Tocqueville bisogna infatti puntare sulla proprietà, che è l'autentico pilastro di ogni società in grado di offrire vere opportunità a ogni ceto sociale.

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2013
ISBN
9788864401225
Argomento
Economia

Saggio sulla povertà

Parte prima

Sullo sviluppo progressivo della povertà nei tempi moderni e sui metodi impiegati per combatterla.
Una volta esplorati i diversi paesi dell’Europa, si è colpiti da uno spettacolo assai straordinario e all’apparenza inspiegabile.
I paesi che appaiono come i più miserabili sono quelli che, in verità, contano il minor numero di indigenti, e nei popoli dei quali potete ammirare l’opulenza, una parte della popolazione è obbligata a far ricorso a al sostegno garantitole da altre persone per vivere.
Attraversate le campagne dell’Inghilterra, crederete di essere stati trasportati nell’Eden della civiltà moderna. Delle strade magnificamente mantenute, delle dimore fresche e pulite, dei grandi greggi che errano per le vaste praterie, dei contadini pieni di forza e di salute, la ricchezza più abbagliante che in alcun altro paese del mondo, la semplice prosperità più decorosa e più ricercata che altrove; dovunque un’impressione di cura, di benessere e di svago; un’aria di prosperità universale che uno crede di respirare dentro l’atmosfera stessa e che fa trasalire il cuore ad ogni passo: così appare l’Inghilterra a prima vista ad un viaggiatore.
Addentratevi adesso all’interno dei comuni; esaminate i registri delle parrocchie e proverete uno stupore inesprimibile nel sapere che un sesto degli abitanti di questo florido regno vive a carico della pubblica carità.
Se poi vi spostate in Spagna, e soprattutto in Portogallo, lo scenario osservabile vi colpirà con uno spettacolo del tutto contrario. Incontrerete sul vostro cammino una popolazione malnutrita, malvestita, ignorante e rozza, che vive nel mezzo di campagne per metà incolte e in dimore miserabili; in Portogallo, però, il numero degli indigenti è assai limitato. M. de Villeneuve stima che ci sia in questo regno un povero ogni venticinque abitanti. Il celebre geografo Balbi aveva precedentemente stimato la cifra di un indigente ogni novantotto abitanti.
Per paragonare tra di loro i paesi stranieri, confrontate le une e le altre parti dello stesso impero, e giungerete ad un risultato analogo: vedrete crescere proporzionalmente, da una parte, il numero di quelli che vivono in agiatezza, e dall’altra, il numero di quelli che utilizzano risorse pubbliche per vivere.
La media degli indigenti in Francia, secondo i calcoli di uno scrittore coscienzioso dal quale sono lontano, è di un povero ogni venti abitanti, come del resto confermano tutte le teorie. Ma vanno notate le immense differenze tra le varie parti del regno. La parte nord, che è sicuramente la più ricca, la più popolata e la più sviluppata in generale, conta quasi un sesto della sua popolazione che necessita dei soccorsi della carità. Nella provincia di Creuse, il più povero e meno industrializzato di tutti i nostri dipartimenti, non si incontra che un indigente su cinquantotto abitanti. In questa statistica la Manica è indicata come avente un povero ogni ventisei abitanti.
Ritengo che non sia impossibile dare una spiegazione ragionevole a questo fenomeno. Il fatto che mi appresto a segnalare racchiude una molteplicità di cause generali il cui approfondimento richiederebbe troppo tempo, ma che si possono almeno accennare.
Qui, per meglio comprendere le mie riflessioni, trovo necessario risalire per un momento fino all’origine delle società umane. E discenderò poi rapidamente il fiume dell’umanità fino ai nostri giorni.
Ecco gli uomini che si riuniscono per la prima volta. Escono dai boschi, sono ancora selvaggi; si associano non per gioire della vita, ma per trovare il modo per vivere. Un riparo contro le intemperie delle stagioni, un’alimentazione adeguata, tale è l’obiettivo della loro impresa. La loro mente non va al di là di questi beni, e se li ottengono senza difficoltà, si ritengono soddisfatti della loro sorte e si adagiano nel loro ozioso benessere. Ho vissuto nel mezzo dei popoli barbari dell’America del Nord; ho avuto pietà del loro destino, ma loro non lo trovavano così crudele. Affondato nel mezzo del fumo della sua capanna, ricoperto di vestiti rozzi, opera di sua mano o prodotto della sua caccia, l’Indiano osserva con pietà le nostre arti, considerando come un assoggettamento faticoso e vergognoso le occupazioni della nostra civiltà; lui non ci invidia che le nostre armi.
Giunti a questa prima età delle società, gli uomini hanno dunque ancora ben pochi desideri; risentono a malapena che di bisogni analoghi a quelli che provano gli animali, e hanno solamente trovato nell’organizzazione sociale il modo di soddisfarli con meno difficoltà. Prima che l’agricoltura fosse loro conosciuta, vivevano di caccia; dal momento in cui hanno appreso l’arte di produrre dei raccolti dalla terra, sono divenuti coltivatori. Ognuno guadagna allora dal campo che gli viene attribuito, il quale provvede alla sua nutrizione e a quella dei suoi figli. La proprietà terriera è così creata e con essa si vede nascere l’elemento più attivo del progresso.
Dal momento in cui gli uomini posseggono la terra, vi si insediano. Trovano nella coltivazione del suolo delle risorse abbondanti contro la fame. Sicuri di sopravvivere, cominciano ad osservare che si riscontrano delle altre fonti di piacere nell’esistenza umana oltre la soddisfazione dei bisogni primari e più imperativi della vita.
Finché gli uomini erano stati nomadi e cacciatori, la diseguaglianza non aveva potuto introdursi tra di loro in modo permanente. Non esisteva affatto un connotato esteriore che potesse stabilire a lungo termine la superiorità di un uomo e soprattutto di una famiglia su un’altra famiglia o su un altro uomo; e dove questo segno fosse esistito, non avrebbe potuto essere trasmesso ai propri figli. Ma dall’istante in cui la proprietà della terra s’impose e in cui gli uomini ebbero convertito le vaste foreste in ricchi campi e pascoli prosperosi, da quel momento si videro le persone acquisire nelle loro mani più terra di quanta ne avessero bisogno per nutrirsi e protrarne il possesso nelle mani dei loro figli. Da lì l’esistenza del superfluo; con il superfluo nacque il gusto per altri piaceri oltre la soddisfazione dei bisogni più rozzi della natura fisica.
È in questa età delle società che si deve collocare l’origine di quasi tutte le aristocrazie.
Mentre alcuni uomini conoscono già l’arte del concentrare nelle mani di pochi, insieme alla ricchezza ed il potere, quasi tutti i piaceri intellettuali e materiali che gli si possono presentare, la folla, per metà selvaggia, ignora ancora il segreto per riprendere il possesso dell’agiatezza e della libertà. In quest’epoca della storia del genere umano, gli uomini hanno ormai abbandonato le volgari e primitive abitudini che avevano appreso nei boschi; hanno perduto questi vantaggi della barbarie, senza acquisire ciò che la civilizzazione può offrire. Legati alla coltivazione della terra come loro sola risorsa, ignorano l’arte di difendere i frutti del loro lavoro. Collocati tra l’indipendenza selvaggia che loro non potevano più gustare e la libertà civile e...

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