Ciò che si vede e ciò che non si vede
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In questo breve apologo, l'economista francese FrédéricBastiatillustra qualcosa di apparentemente ovvio, e cioè che la distruzione non produce benefici economici, poiché gli investimenti necessari per rimettere a posto le cose si sarebbero potuti utilizzare altrove e in modo più proficuo.Con un linguaggio semplice e discorsivo, egli invita il lettore a usare la logica e a cogliere l'insieme dei fenomeni sociali, non limitandosi all'apparenza (a "ciò che si vede", appunto). E poiché la tesi che sia necessario stimolare la domanda continua a trovare ascolto, la sua lezione è quanto mai attuale.Benché scritte a metà Ottocento, queste pagine assai celebri hanno il merito di scardinare uno dei sofismi economici di maggior successo (la tesi che sia necessario stimolare in qualsiasi modo la domanda) e mantengono intatta tutta la loro freschezza di fronte al persistere di logiche variamente keynesiane.

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2013
ISBN
9788864401249
Argomento
Filosofia

Ciò che si vede e ciò che non si vede{1}

Nella sfera economica, un atto, una abitudine, una istituzione, una legge, non generano solo un effetto, ma una serie di effetti. Di questi effetti, solo il primo è immediato; esso si manifesta simultaneamente con la sua causa: si vede. Gli altri non si sviluppano che successivamente: non si vedono; va bene se li si può prevedere.
Qui sta tutta la differenza tra un cattivo ed un buon economista: uno si limita all’effetto visibile, mentre l’altro tiene conto e dell’effetto che si vede e di quelli che occorre prevedere.
Ma questa differenza è enorme, perché quasi sempre accade che, se la conseguenza immediata è favorevole, le conseguenze ulteriori sono funeste, o viceversa. Da cui segue che il cattivo economista persegue un piccolo bene immediato che sarà seguito da un grande male futuro, mentre il buon economista persegue un grande bene futuro, a rischio di un piccolo male immediato.
Del resto, è così anche nell’igiene, o nella morale. Spesso, più il primo frutto di una abitudine è dolce, più gli altri sono amari. A testimonianza: la dissolutezza, la pigrizia, la prodigalità. Quando un uomo, colpito dall’effetto che si vede, non ha ancora imparato a discernere quelli che non si vedono, si abbandona ad abitudini funeste, non solo per inclinazione m anche per calcolo.
Questo spiega l’evoluzione fatalmente dolorosa dell’umanità. L’ignoranza sta intorno alla sua culla; perciò essa si regola nei suoi atti dalle loro immediate conseguenze, le sole, all’origine, che possa vedere. Ci vuole molto tempo perché impari a tenere conto di tutte le altre conseguenze. Due maestri, ben differenti, le insegnano questa lezione: l’esperienza e la preveggenza. L’esperienza detta legge efficacemente ma brutalmente. Essa ci istruisce su tutti gli effetti di un nostro atto, facendoli sentire; e noi non possiamo fare a meno di imparare che il fuoco brucia, a forza di bruciarci. A questo rude medico, io vorrei, finché possibile, sostituirne uno più dolce: la preveggenza. Per questo motivo, io cercherò la conseguenze di alcuni fenomeni economici, opponendo a quelle che si vedono quelle che non si vedono.
1. Il vetro rotto
Siete mai stati testimoni del furore del buon borghese Jacques Bonhomme,{2} quando il suo terribile figliolo sia riuscito a rompere il vetro di una finestra? Se avete assistito a questo spettacolo, sicuramente avete anche constatato come tutti i presenti, fossero anche trenta, sembrino essersi messi d’accordo per offrire al proprietario una identica consolazione: «Non tutto il male viene per nuocere; incidenti come questo mandano avanti l’industria; bisogna che tutti possano vivere; che fine farebbero i vetrai, se non si rompessero mai i vetri?».
Ora, in questa formula di condoglianza vi è tutta una teoria, che è meglio sorprendere in flagranza di reato;{3} cosa in questo caso semplicissima, dal momento che questa teoria è esattamente la stessa, per sfortuna, che sostiene la maggior parte delle nostre istituzioni economiche.
Supponendo che siano necessari sei franchi per riparare il danno, se si vuol dire che l’incidente faccia arrivare all’industria del vetro sei franchi, che incentivi la detta industria per sei franchi, io sono d’accordo, non ho nulla da contestare, il ragionamento fila. Il vetraio viene, fa il necessario, incassa sei franchi, si sfregherà le mani e benedirà in cuor suo il ragazzino terribile. Questo è ciò che si vede.
Ma se, per via deduttiva, si arrivasse a concludere, come si fa troppo spesso, che è bene che si rompano i vetri, che ciò fa circolare il denaro, che ne risulta un incentivo per l’industria in generale, io sarei obbligato a gridare: alt! La vostra teoria si ferma a ciò che si vede, e non tiene conto di ciò che non si vede.
Non si vede che, siccome il nostro borghese ha speso sei franchi in una cosa, non potrà più spenderli in un’altra. Non si vede che, se non avesse avuto dei vetri da sostituire, egli avrebbe sostituito, per esempio, le sue scarpe scalcagnate, oppure avrebbe messo un libro in più nella sua biblioteca. In breve, avrebbe fatto dei suoi sei franchi un uso qualunque, che invece non farà.
Facciamo perciò il conto per l’industria in generale.
Poiché il vetro è rotto, l’industria vetraria è incentivata nella misura di sei franchi; è ciò che si vede.
Se il vetro non fosse stato rotto, l’industria delle scarpe (o qualunque altra) sarebbe stata incentivata nella misura di sei franchi; è ciò che non si vede.
E se si prendesse in considerazione ciò che non si vede perché è un fatto negativo, insieme con ciò che si vede, perché è un fatto positivo, si comprenderebbe bene che non vi è alcun interesse per l’industria in generale, o per l’insieme del lavoro nazionale, a che dei vetri si rompano o non si rompano.
Facciamo adesso il conto di Jacques Bonhomme.
Nella prima ipotesi, quella del vetro rotto, egli spende sei franchi, ed ha, né più né meno di prima, il vantaggio di un vetro.
Nella seconda, quella nella quale l’incidente non è accaduto, avrebbe speso sei franchi in scarpe ed avrebbe, insieme, il vantaggio di un paio di scarpe e quello di un vetro.
Ora, poiché Jacques Bonhomme fa parte della società, bisogna concludere da ciò che, considerato nel suo insieme e tenuto conto dei suoi lavori e dei suoi vantaggi, la società ha perduto il valore del vetro rotto.
Per cui, generalizzando, noi arriviamo a questa conclusione inattesa: «La società perde il valore delle cose inutilmente distrutte», ed a questo aforisma, che farà rizzare i capelli in testa ai protezionisti: «Rompere, distruggere, dissipare, non equivale ad incoraggiare il lavoro nazionale», o più brevemente: «Distruggere non vuol dire fare profitti».
Che cosa dite, voi del Moniteur Industriel, che dite, adepti di de Saint-Chamans,{4} che ha calcolato con tanta precisione quanto l’industria trarrebbe profitto dall’incendio di Parigi, per la quantità di case che dovrebbero essere ricostruite?
Sono spiaciuto di dover guastare i suoi calcoli ingegnosi, sebbene ne abbia fatto passare lo spirito nella nostra legislazione. Ma io lo prego di ricominciarli, facendo entrare nei suoi conti ciò che non si vede a fianco a ciò che si vede.
Bisogna che il lettore si soffermi a constatare bene che non ci sono solo due personaggi, ma tre, nel nostro piccolo dramma che io ho sottoposto alla vostra attenzione. L’uno, Jacques Bonhomme, rappresenta il consumatore, costretto dal danno a godere di un solo vantaggio anziché di due. L’altro, il vetraio, ci mostra il produttore la cui industria è incoraggiata dall’incidente. Il terzo è il ciabattino (o qualunque altro mestiere), il cui lavoro è scoraggiato proprio per quella causa. È questo ultimo personaggio che si tiene sempre nell’ombra e che, impersonando ciò che non si vede, è un elemento essenziale della questione. È lui che ben presto ci insegnerà che non è meno assurdo di vedere un profitto in una restrizione , la quale non è dopo tutto che una distruzione parziale. Così, andate a fondo di tutti gli argomenti che si fanno valere in suo favore, non ci troverete che la parafrasi del motto popolare: che cosa sarebbe dei vetrai, se qualcuno non rompesse i vetri?
2. Il licenziamento
Per un popolo, le cose vanno come per un uomo. Quando vuole procurarsi una soddisfazione, tocca a lui decidere se vale quello che costa. Per una nazione, la sicurezza è il maggiore dei beni. Se per acquisirla, bisogna mettere in campo centomila uomini e spendere cento milioni, io non ho nulla da dire. È un vantaggio acquistato al prezzo di un sacrificio.
Che non si fraintenda perciò la portata della mia tesi.
Un deputato propone di licenziare centomila uomini per alleviare i contribuenti di cento milioni.
Se ci si limita a rispondergli: «Questi centomila uomini e cento milioni sono indispensabili alla sicurezza nazionale, è un sacrificio, ma senza questo sacrificio la Francia sarà lacerata dalle fazioni o invasa dallo straniero» – io non ho nulla da opporre qui a questo argomento, che può essere nei fatti vero o falso, ma che non contiene delle eresie economiche. L’eresia comincia quando si vuole rappresentare il sacrificio in se stesso come un vantaggio, perché è utile a qualcuno.
Ora, non credo di sbagliarmi, l’autore della proposta non farebbe in tempo a scendere dalla tribuna che un oratore vi correrebbe per gridare: «Licenziare centomila uomini! ci pensate! che ne sarà di loro? di che cosa vivranno? ci sarà del lavoro? ma non sapete che il lavoro manca ovunque? che tutti i mestieri sono pieni? volete gettarli sul lastrico per aumentare la concorrenza e pesare sui salari? In un momento nel quale è difficile guadagnarsi una vita da poveri, non è un bene che lo Stato dia il pane a centomila individui? Considerate inoltre che l’esercito consuma del vino, dei vestiti, delle armi, che così esso espande l’attività nelle fabbriche, nelle città di guarnigione, e che esso è, in definitiva, la provvidenza per i suoi infiniti fornitori. Non fremete all’idea di cancellare tutto questo immenso movimento industriale?».
Questo discorso, lo si vede, conclude per il mantenimento dei centomila soldati, astrazione fatta dalle necessità di servizio, e per mezzo di considerazioni economiche. Sono queste sole considerazioni che devo controbattere.
Centomila uomini, che costano al contribuente cento milioni, vivono e fanno vivere i loro fornitori fino alla concorrenza di cento milioni: è ciò che si vede.
Ma questi cento milioni, usciti dalle tasche dei contribuenti, fanno smettere di vivere questi contribuenti ed i loro fornitori, fino alla concorrenza di cento milioni: è ciò che non si vede. Calcolate, contate e ditemi: qual è il guadagno per la massa?
Quanto a me, io vi dirò dove stia la perdita, e, per semplificare, invece di parlare di centomila uomini e di cento milioni, ragioniamo su un solo uomo e mille franchi.
Eccoci allora nel villaggio di A. I reclutatori fanno il giro e prelevano un uomo. Gli esattori fanno un giro e prelevano mille franchi. L’uomo ed il denaro sono portati a Metz, i secondi destinati a far vivere il primo, per un anno, senza fare nulla. Se voi non tenete in considerazione che Metz, allora avete cento volte ragione, la decisione è vantaggiosa; ma se vi rivolgete al villaggio di A, giudicherete diversamente, perché, a meno di essere ciechi, vedrete che il villaggio ha perduto un uomo ed i mille franchi che avrebbero remunerato il suo lavoro, e l’attività che, per la spesa di mille franchi, egli avrebbe diffuso intorno a sé.
Ad un primo colpo d’occhio, sembra che vi sia una compensazione. Il fenomeno che sarebbe accaduto al villaggio, accade invece a Metz, ecco tutto. Ma ecco dove sta la perdita. Al villaggio, quell’uomo vangava e lavorava: era un lavoratore; a Metz, fa dei fianco-dest e dei fianco-sinist: è un soldato. Il denaro e la circolazione sono gli stessi nei due casi; ma in uno, c’erano trecento giornate di lavoro produttivo, mentre nell’altro ci sono trecento giornate di lavoro improduttivo. Sempre nella supposizione che una parte dell’esercito non sia indispensabile alla sicurezza pubblica.
Ora, arriva il licenziamento. Voi mi segnalate un esubero di centomila lavoratori, lo stimolo alla concorrenza e la pressione che esercita sul livello dei salari. È ciò che vedete.
Ma ecco ciò che non vedete. Voi non vedete che rinviare a casa centomila soldati, non è cancellare cento milioni, è restituirli ai contribuenti. Voi non vedete che riversare in questo modo centomila lavoratori sul mercato vuol dire riversare anche, nello stesso tempo, i cento milioni destinati a pagare il loro lavoro; che, di conseguenza, la stessa misura che aumenta l’offerta di braccia ne aumenta anche la domanda; da cui segu...

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