Contro Keynes
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Presunzioni fatali e stregonerie economiche

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Presunzioni fatali e stregonerie economiche

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Friedrich A. von Hayek e John Maynard Keynes sono stati i protagonisti del più importante dibattito economico e politico del Novecento. Hayek tuttavia non scrisse mai una critica organica dellaTeoria generaledi Keynes: «Mi sono sempre rimproverato per tale mancanza».Questa raccolta di saggi, curata da Sudha Shenoy, pone finalmente rimedio a tale grande lacuna, riunendo i lavori in cui Hayek discusse l'edificio teorico keynesiano.Essa presenta una devastante critica delle tesi interventiste che hanno dominato la scienza economica nell'ultimo secolo. L'influenza esercitata dal pensiero di Keynes è ancora forte e se ne vedono anche oggi le conseguenze in quasi tutti i Paesi occidentali.Come scrive Lorenzo Infantino nella prefazione, in Hayek e Keynes «ci sono due contrapposte concezioni della conoscenza e della società. Coerentemente con tutto il resto della sua teorizzazione, Hayek è sostenitore di un ordine inintenzionale, in cui la politica svolge una funzione di complemento e non può mai assurgere al rango di variabile indipendente. Al contrario, Keynes ritiene, in maniera "costruttivistica", che la politica sia la variabile decisiva».Forse il maggiore scienziato sociale del Novecento, Friedrich A. von Hayek (1899-1992) sviluppò le sue ricerche nel solco della "scuola austriaca di economia". Insegnò a Londra, Chicago e Friburgo. Nel 1974 ricevette il Premio Nobel per l'Economia. A Hayek si deve una vigorosa difesa dell'ordine liberale, con una costante enfasi sulla dispersione della conoscenza nella società. Per difendere la società libera, nel 1947 fondò la "Mont Pèlerin Society", un'associazione internazionale di studiosi liberali tutt'oggi esistente. Tra le sue opere il notissimo pamphletLa via della schiavitù(1944),La società libera(1960), la trilogiaLegge, legislazione e libertà(1973-1979) eLa denazionalizzazione della moneta(1976).

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2013
ISBN
9788864401461

Capitolo 1. Il dibattito, 1931-1971

di Sudha R. Shenoy{83}
Il pensiero economico attuale e i concetti che guidano la politica dei salari affondano le proprie radici negli anni Trenta, nella discussione ispirata dalla pubblicazione della General Theory. Nonostante le idee di Keynes divergessero sensibilmente dall’impianto teorico di Pigou e Marshall, che l’economista conosceva bene, il pensiero “keynesiano” era già abbastanza diffuso in Gran Bretagna e negli Stati Uniti prima che la General Theory fosse pubblicata nel 1936.{84} Keynes diede un fondamento teorico a queste nuove scuole di pensiero.
Dalla pubblicazione della General Theory si è avuta un’ampia elaborazione del sistema teorico delineato o generalmente associato alla Theory stessa, accompagnata dall’ulteriore sviluppo di un sistema concettuale alternativo noto come “sistema classico”. Nei rapporti principali (per esempio, tra quantità di denaro e spesa totale, tra interessi, risparmio e investimenti, tra livelli dei salari e di occupazione e così via), riproponeva un’immagine quasi speculare del sistema keynesiano.{85} Ma mentre il sistema keynesiano si esprimeva completamente in termini di aggregati, il cosiddetto “sistema classico” conteneva un elemento che potremmo definire “dimensione del prezzo”: le variazioni del “livello” dei prezzi associate alle variazioni della base monetaria totale nel sistema classico implicavano variazioni equiproporzionali di tutti i prezzi e le variazioni del livello dei prezzi erano associate a loro volta a cambiamenti nel livello di attività economica. In un certo senso, l’impostazione keynesiana può essere considerata un prolungamento logico e un’elaborazione di questo elemento grossolanamente aggregativo del “sistema classico”.
La sfida a Keynes
Le dottrine generalmente accettate dagli economisti inglesi contemporanei a Keynes furono messe in discussione, negli aspetti fondamentali, da un’analisi alternativa sviluppatasi nell’Europa continentale e proposta in Gran Bretagna da Hayek. Negli anni Quaranta, l’impostazione keynesiana era quasi universalmente condivisa dagli economisti. Inizialmente, molti parvero credere che i “macro” problemi della disoccupazione e della depressione fossero risolti e che sarebbero emersi pochi altri problemi di rilievo. L’unica questione aperta, così sembrava, riguardava i metodi necessari per assicurare la “piena” occupazione.
«Ora che il principio di un’adeguata domanda effettiva si è così solidamente affermato», dichiarò Arthur Smithies, «gli economisti dovrebbero dedicare particolare attenzione a definire le responsabilità dello Stato».{86}
Il Libro bianco inglese del 1944 sulla politica dell’occupazione e l’impegno a favore della piena occupazione dichiarato nella Carta delle Nazioni Unite riflettevano questa convinzione, così come l’Employment Act del 1946 negli Stati Uniti.{87}
Non mancarono alcune voci di dissenso che misero in guardia dai problemi a venire. A proposito di un rapporto al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite sulle misure nazionali e internazionali a favore della piena occupazione, intitolato “National and International Measures for Full Employment”, preparato da un gruppo di eminenti economisti (John M. Clark, Arthur Smithies, Nicholas Kaldor, Pierre Uri e Edward R. Walker), Jacob Viner osservò: «La domanda da un milione di dollari sul rapporto tra disoccupazione e politica della piena occupazione è cosa si debba fare quando una politica tesa a garantire la piena occupazione crea una pressione cronica al rialzo sui salari nominali attraverso l’operazione della contrattazione collettiva. Dopo aver analizzato bene la questione, gli autori si danno alla fuga».
Il “concetto chiave” delle raccomandazioni che Viner considerava «molto più keynesiane dell’ultimo Keynes stesso»{88} si basa sulla tesi per cui è la domanda effettiva a creare occupazione.
Poco dopo la pubblicazione della General Theory, William H. Hutt argomentò che si trattava di un elisir contro l’inflazione.{89}
Persino a Keynes sorse qualche dubbio, alcuni anni dopo la General Theory. Nel suo saggio How to Pay for the War (Londra, Macmillan, 1940) metteva in guardia i sindacati dalla “futilità” di richiedere un aumento dei tassi salariali nominali per compensare ogni aumento del costo della vita. Per prevenire l’inflazione, insisteva, «occorre trovare mezzi per togliere al mercato parte del potere d’acquisto; oppure i prezzi devono salire fino a quando i beni disponibili sono venduti a cifre che assorbano l’aumentata quantità di spesa: in altre parole, con il metodo dell’inflazione».
E in un dibattito sul finanziamento della spesa bellica ribadiva che «una richiesta, da parte dei sindacati, di un aumento dei tassi salariali nominali per compensare ogni aumento del costo della vita è futile e di gran lunga svantaggioso per la classe lavoratrice. Come il cane nella favola, rischiano di perdere la sostanza per inseguire l’ombra. È vero che i meglio organizzati potrebbero trarne vantaggio a spese di altri consumatori. Ma a parte l’esercizio di egoismo di gruppo e come mezzo per spintonare qualcun altro fuori dalla fila, è tempo perso».
L’avvicinamento a una politica dei redditi
Nel corso dei successivi venticinque anni e oltre, l’ulteriore elaborazione e il perfezionamento della prima teoria keynesiana diedero origine a una serie di modelli macroeconomici altamente sofisticati. Più in particolare, gli anni Cinquanta segnarono la scoperta dell’“inflazione da costi”, nella quale un aumento dei salari spingeva al rialzo il livello dei costi. Essendo i prezzi determinati dai costi e, in settori cruciali dell’economia, determinati secondo la prassi del costo più margine di ricarico, i prezzi aumentavano per proteggere i margini di profitto. Poiché però i salari erano anche redditi, l’effetto dell’aumento dei costi e dei prezzi non fu deflazionistico, a causa di una crescita parallela della domanda effettiva.{90} In quelle circostanze, una politica monetaria e fiscale di contrazione avrebbe avuto un effetto deflazionistico, portando a livelli di disoccupazione socialmente intollerabili e capacità produttive in eccesso; era necessario trovare una misura alternativa, diretta in modo specifico all’aumento dei costi. La possibilità di ottenere la stabilità dei prezzi e la piena occupazione mantenendo l’aumento dei salari nei limiti fissati dagli aumenti della produttività chiamava in causa una “politica dei redditi”. Un esame più approfondito delle implicazioni per il livello dei prezzi e dei salari della scelta di collegare l’aumento dei salari settoriali e la produttività, rafforzò la tesi di una “politica dei salari” decisa a livello nazionale che riguardava sia i tassi salariali relativi sia il livello generale dei salari. Se i salari fossero cresciuti nei settori dove la produttività era in aumento, ne sarebbe derivata una crescita della domanda per le produzioni di altri settori, causando un aumento dei prezzi in quei settori.{91}
A partire dal 1950, la politica economica del Regno Unito e degli Stati Uniti cominciò a riflettere l’adozione di queste idee; si è assistito a un graduale spostamento da esortazioni, linee guida e tregue salariali a tentativi più diretti di influenzare e controllare i salari.{92} Che questo controllo diretto fosse necessario per prevenire la “spirale viziosa di salari e prezzi”,{93} innescata dalla piena occupazione, era stato pronosticato da William Beveridge già nel 1944.
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, gli economisti arrivarono a propugnare una politica dei redditi, alcuni con riluttanza (Robbins, Meade, Paish, Brittan, Morgan),{94} altri con entusiasmo (Balogh, Streeten, Opie).{95}
La tesi di Robbins è particolarmente interessante. All’inizio degli anni Cinquanta analizzò con chiarezza le implicazioni inflazionistiche della politica della piena occupazione presa in esame da William Beveridge: dava ai leader sindacali una garanzia virtuale che «qualsiasi tasso [salariale] fossero riusciti a ottenere, l’emergere della disoccupazione sarebbe stato impedito».{96}
Avrebbe dato loro un incentivo continuo a spingere i salari oltre gli aumenti della produttività, innescando una “spirale viziosa” di “maggior inflazione”. Questa, a sua volta, avrebbe potuto forzare i governi ad agire direttamente sui tassi salariali.
Secondo Robbins, «l’attuale determinazione dei salari attraverso la contrattazione tra il datore di lavoro e il lavoratore sarebbe sospesa. Al suo posto, subentrerebbe la fissazione dei salari da parte dello Stato».
Riteneva tuttavia che questa alternativa sarebbe stata respinta «perché alla fine l’efficacia del suo funzionamento si sarebbe dimostrata incompatibile con la continuazione della democrazia politica».{97} Diciassette anni dopo, Robbins presentò argomentazioni{98} a favore di una politica dei redditi, intesa come “tattica d’urto” temporanea, per offrire uno “spazio vitale” nel quale “far progredire e comprendere” riforme monetarie e fiscali fondamentali.
Disperando del buon senso dei leader sindacali, cercò di esercitare su di loro una pressione indiretta, suggerendo di limitare la concessione di aumenti inflazionistici dei salari da parte degli imprenditori mediante restrizioni sulla domanda aggregata, anche a costo di provocare il fallimento, evitando così il pagamento di salari più alti, che sarebbero stati compensati tout court con prezzi più alti. Come misura alternativa o parallela, si sarebbero potuti tassare gli aumenti inflazionistici dei salari concessi dalle imprese. Robbins sperava, così facendo, di vanificare le aspettative di aumenti salariali automatici dei leader sindacali. (E. Victor Morgan, Frank W. Paish e Sidney Weintraub assunsero una posizione analoga.){99}
Samuel Brittan propose un altro tipo di politica dei redditi.{100} Il governo avrebbe controllato il livello di aumento concesso ai tassi salariali permettendo agli imprenditori con carenza di manodopera di offrire remunerazioni superiori, ma senza rivendicare la determinazione di tassi salariali relativi in base a pretesti di giustizia sociale. Una politica di questo genere, aggiunse, va considerata un supplemento a politiche monetarie e fiscali che forniscano una domanda sufficiente a evitare la disoccupazione ma che prevengano anche l’eccesso di domanda. Come espediente temporaneo fino all’attuazione di queste politiche, Brittan suggerì il congelamento di salari e prezzi.
Due implicazioni della proposta meritano alcune considerazioni. In primo luogo, se un freno all’aumento dei salari di questo tipo deve essere più di un consiglio, i sindacati devono essere disposti ad accettare la guida di un’autorità di vigilanza sui redditi nonché il necessario ruolo di controllo permanente che dovrebbe svolgere (o almeno un’esistenza parallela a quella dei sindacati come organo di determinazione dei salari). Se i sindacati si rifiutano di collaborare, presumibilmente l’autorità di vigilanza li dovrà sostituire nella loro funzione di determinazione dei salari...
In secondo luogo, e analogamente ad altre raccomandazioni per le politiche dei redditi, questa proposta perpetuerebbe una certa struttura dei tassi salariali relativi, poiché tutti i salari ai quali si applica potrebbero crescere solo di una percentuale data (tranne che in caso di “carenza di manodopera”). Oggi questa struttura dei salari relativi non riflette tanto le forze allocative del mercato{101} quanto il potere relativo o l’“intraprendenza” dei diversi sindacati. È lecito supporre che i sindacati si accontenterebbero di mantenere a oltranza le posizioni relative raggiunte al momento in cui veniva alla luce la politica dei redditi?
Il riconoscimento di “micro” dimensioni
Il filo conduttore che percorre il dibattito è l’attenuazione di aggiustamenti anomali specifici dei tassi salariali. Siamo piuttosto lontani dall’analisi aggregata. Il “macro” problema di una gestione adeguata della domanda sembra ora avere una “micro” dimensione, cioè quella di fissare (o ottenere) un’“adeguata” scala dei prezzi. In altre parole, dal punto di vista pratico della politica, oggi si ritiene che il “macro” problema di una persistente spinta (o pressione) verso l’alto sul “livello” dei prezzi abbia “micro” radici nei metodi specifici di “determinazione dei prezzi” usati da gruppi specifici di lavoratori. Le “macro” misure che intervengono sulla spesa aggregata finora possono averci permesso di ignorare questo micro scoordinamento,{102} ma pare che gli eventi abbiano inevitabilmen...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prefazione all’edizione italiana
  3. Guida agli estratti e agli articoli
  4. Introduzione alla terza edizione
  5. Prefazione
  6. Prefazione alla seconda edizione
  7. Capitolo 1. Il dibattito, 1931-1971
  8. Capitolo 2. L’uso improprio degli aggregati
  9. Capitolo 3. Tralasciare gli aspetti reali per quelli monetari
  10. Capitolo 4. Politiche internazionali o nazionali?
  11. Capitolo 5. Rigidità salariali e inflazione
  12. Capitolo 6. Riepilogo dei temi principali
  13. Capitolo 7. Uno sguardo agli anni Settanta: inflazione aperta o repressa?
  14. Capitolo 8. Addendum 1978
  15. Gli autori