Sciopero e serrata oggi in Italia
1. La filosofia del “diritto di sciopero”
Non sarebbe possibile comprendere nulla delle norme esistenti nel nostro, o in altri ordinamenti, sullo “sciopero” e rispettivamente sulla “serrata” se non si conoscessero le finalità a cui queste norme corrispondono. A loro volta queste finalità vengono a dipendere direttamente da un complesso di convinzioni, ancora abbastanza diffuse, sebbene ormai lo siano meno di un tempo, tra gli uomini politici di molti paesi, specie fra quelli che fanno appello a larghe masse di elettori e, quindi, di prestatori di lavoro subordinato.
L’insieme di queste convinzioni alle quali si ispirano non solo le norme ma anche la loro interpretazione da parte di giuristi e di giudici costituisce quella che si potrebbe chiamare la filosofia dei rapporti di lavoro in generale, e più in particolare dello sciopero considerato come strumento necessario di autotutela dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro.
Purtroppo l’analisi teorica, non meno della ricerca storica, stanno dimostrando ormai, se non alle masse, almeno agli studiosi, che, anche quando si ispira alle migliori intenzioni, e specie a quella di raddrizzare pretesi torti e di restaurare la giustizia, la filosofia sottostante al cosiddetto “diritto” è fatta in parte di cattiva economia, e in parte di cattiva storia economica.
Cattiva economia, perché c’è chi pensa che lo sciopero sia il mezzo inevitabile o comunque decisivo per consentire ai lavoratori di conseguire un salario superiore a quello già percepito, riducendo in tal modo il processo economico della produzione, che è un fenomeno estremamente complesso, ad una questione puramente interna tra datori di lavoro e lavoratori, e in definitiva ad una questione la cui risoluzione dipenda esclusivamente dalla loro volontà, e in particolare dalla buona volontà del datore di lavoro.
Questa concezione, di un semplicismo sconcertante, non è più condivisa oggi da alcun economista degno di questo nome, e gli stessi lavoratori si stanno accorgendo ormai che si tratta di un’idea troppo semplice. Che il datore di lavoro incontri per l’impiego dei fattori umani e non umani di produzione costi oltre i quali non può andare, che egli debba fronteggiare continuamente il consumatore sul mercato dei beni prodotti e non possa quindi imporre – a suo piacimento – al consumatore i prezzi di quei prodotti, perché il consumatore – almeno nelle moderne economie di mercato – ha praticamente possibilità infinite di scelta e quindi di reazione alla richiesta di maggiori prezzi da parte del produttore, sono tutte cose che cominciano a capirsi anche dai più.
Ma assai meno compreso è ancor oggi – purtroppo – il fatto che i cosiddetti “profitti” dell’imprenditore, quando vi sono, vengono nella quasi totalità reimpiegati dall’imprenditore medesimo nel processo produttivo, e che quindi ogni tentativo di assorbire quei “profitti” a vantaggio del lavoratore attraverso l’azione sindacale e in particolare mediante lo sciopero si traduce in realtà in un tentativo di ridurre – a breve od a lunga scadenza – l’ammontare dei capitali destinati all’investimento e quindi le stesse possibilità di potenziare e di rimunerare il lavoro. È ormai di dominio comune il fatto che le imprese tecnologicamente ed economicamente più progredite, quali quelle degli Stati Uniti d’America, sono alla ricerca sempre crescente di capitali da destinare all’investimento per migliorare la propria efficienza e sostenere la concorrenza altrui. Negli Stati Uniti il capitale impiegato nelle imprese raggiunge ormai in vari casi i venticinque milioni di lire per ogni lavoratore impiegato.
D’altra parte, che l’accumulazione dei fattori non umani della produzione tenda a potenziare progressivamente il lavoro umano e consenta quindi di rimunerarlo sempre di più è una verità che comincia anch’essa a farsi strada, seppure lentamente. Tutti possono constatare, infatti, che le imprese che rimunerano di più il lavoro sono quelle che possiedono maggiori impianti, e in cui il numero di macchine utili a disposizione dei lavoratori è più grande: la graduale scomparsa dell’artigianato, il quale non può consentire alte rimunerazioni perché nell’artigianato il lavoro non è potenziato da impianti e da macchine che in misura modesta, è una prova di ciò, alla portata di tutti.
Tuttavia, l’uomo della strada è ancora lontano dall’aver imparato tutte le lezioni di economia che scaturiscono dai fenomeni che constatiamo ogni giorno. Molti credono ancora che il “padrone” (il quale poi è diventato, nel senso tradizionale di questa parola, sempre più raro) si prefigga come principale o magari unico scopo di conseguire “profitti” per goderseli consumandoli direttamente, e che inoltre egli tenda a conseguire questo preteso scopo unicamente, o almeno prevalentemente, col rimunerare il lavoro assai meno di quanto potrebbe: due mezze verità queste, ossia due errori autentici che persistono tanto più ostinatamente in quanto c’è in essi un piccolo nucleo di vero. Non si vede infatti abbastanza, ancora, dall’uomo della strada che l’imprenditore ha bensì interesse ad aumentare al massimo il suo reddito, ma che per far ciò egli deve anzitutto aumentare al massimo i propri investimenti, destinando precisamente la parte maggiore dei redditi già conseguiti a questi investimenti, per trasformarli in nuove fonti di reddito. Non si vede inoltre abbastanza – dall’uomo della strada – che se è pur vero che per aumentare i redditi l’imprenditore tende a pagare il minimo possibile tutti i fattori di produzione, e quindi anche il lavoro, il limite di questa tendenza è costituito per lui dall’interesse a disporre di una sempre maggior quantità di fattori di produzione e quindi anche del fattore lavoro, perché soltanto aumentando la quantità (e la qualità) dei fattori di produzione egli può in ultima analisi aumentare in senso assoluto la produzione dei beni e quindi i suoi redditi. L’imprenditore è così spinto ad aumentare, non appena gli sia possibile, anche la sua richiesta di lavoro, e in una società in cui il lavoro si vende al mercato (ossia in una società in cui esiste la libera collaborazione fra gli individui) ciò non può che tradursi in un aumento delle rimunerazioni che l’imprenditore è progressivamente costretto ad offrire per assicurarsi il lavoro che gli serve: aumento che, d’altra parte, è reso possibile dal crescente potenziamento del lavoro mediante nuovi e più evoluti mezzi materiali di produzione.
Correlativamente alle due mezze verità – ossia ai due errori – di cui sopra, si è dimostrata assai tenace – nell’opinione dei più – anche un’altra mezza verità: quella che il datore di lavoro si trovi sempre in condizioni di vantaggio nei confronti del lavoratore, soprattutto perché il secondo non può attendere a lungo la rimunerazione che gli consente di “sopravvivere”, mentre il primo può invece disporre a suo piacimento del tempo necessario per costringere il lavoratore ad accettare una rimunerazione inferiore a quella che sarebbe possibile. Su questa mezza verità – ossia su questo autentico errore – poggia in gran parte il castello concettuale del così detto costante squilibrio fra le parti contraenti nel contratto di lavoro: “squilibrio” che lo sciopero avrebbe la funzione di “compensare”, così da ristabilire l’equilibrio contrattuale a favore della parte pretesamente più debole.
Questo ristabilito equilibrio, a sua volta, dovrebbe poi essere difeso – secondo questa concezione – contro ogni tentativo di turbarlo ad opera del contraente più forte, ad esempio colla serrata. Proprio invocando il preteso “squilibrio” tra le parti si gi...