Perché l’economia politica non gode favore presso il popolo?{*}
Onorevoli Colleghi,
Qualunque cultore dell’Economia politica avrà avuto occasione di osservare con rammarico l’indifferenza e anche l’ostilità che i più dimostrano verso quella scienza, e sarà stato quindi tratto ad indagarne il perché; parendo strano invero che lo studio, che intende a fare conoscere il miglior modo di favorire la produzione della ricchezza, e di procurarne un’equa ripartizione, non abbia a godere credito presso chiunque sia sollecito del bene del popolo.
Questo quesito già fu proposto alla Società di Economia politica di Parigi, ma, per quanto mi è noto, non vi è stato trattato, per cui mi faccio ardito a discorrerne, esaminandolo specialmente in relazione alle condizioni del nostro paese.
In prima parmi sia da distinguere quanto concerne la pura scienza da quanto si riferisce ai suoi cultori.
La pura scienza piuttosto che contrastata si può dire ignorata, non solo dal volgo, ma ben anche da molti, che per qualità d’intelletto, e per conoscenze acquisite in altri rami dell’umano sapere, meritatamente sono annoverati fra i migliori della nazione.
Procede in parte ciò da un difetto di educazione, per rimediare al quale un nostro egregio collega, il prof. Fontanelli, proponeva di dare posto nell’istruzione secondaria allo studio dell’Economia politica. Molto saviamente, a parer mio, poiché al libero cittadino, che deve col voto partecipare al governo del proprio paese, gioverà certo conoscere l’ordinamento economico della società, più assai, invero, che tenere a mente quei mille e mille fatti slegati dei quali si rimpinza il capo ai nostri ragazzi.
E qui mi soccorre la memoria di un dialogo di Socrate, in cui il filosofo greco, discorrendo con un certo Glaucone, che presuntuosamente voleva impacciarsi nel governare Atene, lo convince che prima occorre almeno che acquisti alcuna notizia circa alle entrate ed alle spese della repubblica, nonché intorno a molte altre cose, che concernono il suo ordinamento; e di alcune dicendo Glaucone figurarsele, non altrimenti credo come molti nostri uomini politici si figurano i veri dell’economia, risponde Socrate: adunque quando non più quelle cose ci figureremo ma le sapremo, allora potremo deliberare. E soggiunge: alle miniere d’argento so che non vi sei andato per dire onde avviene che presentemente ne proviene meno di prima, ma lasciamo stare che ti varrà per scusa che l’aria vi è malsana.
E ben potremmo rivolgere simili parole a coloro che ora paragonano il nostro paese alla cadente repubblica veneta, e vogliono spremerci sino l’ultimo quattrino per coprire d’armi l’Italia, e chiedere loro se abbiano almeno avuto cura di studiare se i mezzi economici del nostro popolo possono sopperire ai sacrifizi che da esso richiedono per i fastosi loro disegni. Ma come Glaucone non si era tolto briga di visitare le miniere argentifere di Atene, similmente si può credere che molti fra costoro non abbiano veduto da vicino quale miseria opprima il popolo negli umili casolari delle pianure venete, o negli abituri, che meglio direbbersi tane, delle Calabrie; ed ignari così dei fatti economici come delle cagioni di questi, si lascino guidare solo dalla loro fantasia.
In parte altresì l’ignoranza delle verità dell’Economia politica ha origine dal non essere ancora da molti convenientemente valutata l’influenza delle condizioni economiche di un popolo sulla fortuna più o meno prospera alla quale va incontro; e non è ancora gran tempo trapassato che pareva la storia dovere solo essere una raccolta di aneddoti, di genealogie e di narrazioni delle vicende di famiglie principesche, e delle imprese guerriere dei popoli. Certo ora chiunque è appena meritevole del nome di cultore delle discipline storiche sorride di quell’errore; e la storia di Roma non più dalle tradizioni sulla lupa allattante i divini gemelli prende le mosse, ma piuttosto dal considerare le favorevoli condizioni economiche che possedeva la nuova città, quale mercato del Lazio, ed in cui scorge il Mommsen la prima origine della romana fortuna. Ma a molti e molti ancora ottenebrano la mente gli antichi vaneggiamenti; e di recente ci è toccato udire alcuni sognare paragoni tra la moderna Italia e l’antica Roma, e parodiando il delenda Carthago, incitare i concittadini a riconquistare il suolo punico; dimentiche, quelle egregie persone, fra tanti e tanti mutamenti di tempi, di uomini, e di circostanze anche di questa: che non per prepotente protezione straniera, ma solo per virtù dei suoi cittadini vinceva Roma a Zama, e che allora le conquiste recavano al popolo gloria ed utile ad un tempo, onde dopo le vittorie di Paolo Emilio cessarono i cittadini romani dal pagare il tributum, unica imposta che ancora su di essi gravasse; mentre pare che a noi toccherà la gloria in meno, e l’oppressione dei tributi ognora crescenti in più.
Infine per molti l’ignoranza della economia politica altro non è se non conseguenza della ritrosia ad assoggettarsi a quel poco di lavoro intellettuale che occorre per acquistare conoscenze in questa come in qualunque altra scienza. Strano pregiudizio è quello di coloro che vorrebbero leggere un trattato di economia politica come un romanzo, e saltano a pié pari ogni esposizione un poco astratta delle teorie economiche. I libri di economia politica come quelli di matematica, di fisica, di chimica, di astronomia, o di qualunque altra scienza non sono fatti per dilettare ma per istruire, ed è ridicolo il pretendere, ad esempio, di acquistare conoscenza delle difficili leggi del valore, senza porci quella applicazione di mente che è pure indispensabile se vuolsi intendere il facile teorema del quadrato dell’ipotenusa.
Ma vi è cosa anche più assurda e più vana, ed è di volere sentenziare sull’effetto economico di un provvedimento sociale ignorando le leggi le più elementari dell’economia politica; eppure ciò quasi ogni giorno avviene, e mentre un certo pudore trattiene in qualunque altra scienza dal discorrerne chi ne ignora perfino la terminologia, molti non reputano indispensabile di sapere cosa sia valore, capitale, rendita per trattarne.
Di questo veramente poco si deve curare la scienza, giacché essa principia appunto dove il vaniloquio di costoro finisce. Ma in quanto essa intende semplicemente alla ricerca del vero, non merita né odio né amore dal popolo. Ogni conoscenza può essere utile o nociva, avendo riguardo all’uso che se ne fa. Dalla chimica acquista il medico notizia degli alcaloidi quali preziosi farmachi, ma purtroppo può chi ha malvagia mente usarli come veleni, e da quella stessa scienza conoscere il modo di compiere il delitto e di occultarne le traccie alla primitiva giustizia.
Se non erro la distinzione tra i teoremi della pura scienza economica ed i precetti che l’arte ne trae, o crede poterne trarre pel bene del popolo, sebbene più volte accennata non è ancora tenuta in quel conto che meriterebbe.
Asserire, ad esempio, che la protezione doganale ha per effetto diretto una distruzione di ricchezza, ed asserire che è noc...