Discorso contro il diritto al lavoro
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Discorso contro il diritto al lavoro

seguito da La democrazia in Svizzera

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Discorso contro il diritto al lavoro

seguito da La democrazia in Svizzera

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Con un discorso all'Assemblea costituente e con la recensione a un testo di Antoine Élisée Cherbuliez, nel 1848 Alexis de Tocqueville interviene su due questioni assai vive in quella fase storica: la richiesta di fare del lavoro una sorta di "nuovo diritto" e la trasformazione istituzionale della Svizzera, che in quell'anno porta a compimento la propria unione federale.Nel primo testo, lo storico e uomo politico francese si oppone alle tesi socialiste che – con l'obiettivo di evitare la disoccupazione – finiscono per dilatare il potere statale. Per Tocqueville l'idea di fare del lavoro una sorta di diritto sociale, per usare un linguaggio vicino a noi, porta lo Stato per forza a «distribuire i lavoratori così che non si facciano concorrenza tra di loro, a regolare i salari, a volte a moderare la produzione, a volte ad accelerarla: in una parola, a diventare il grande e unico organizzatore del lavoro».Nel secondo testo Tocqueville si occupa della realtà elvetica: esprimendo inizialmente un giudizio assai negativo su quell'insieme di comunità indipendenti, slegate, incapaci di darsi istituzioni stabili. Ma all'indomani della nuova costituzione egli manifesta tutta la propria ammirazione per come, nel nuovo contesto proiettato verso Stati nazionali e democratici, gli svizzeri abbiano saputo uscire da una situazione intricata: «Da nessuna parte la rivoluzione democratica che agita il mondo si era presentata in circostanze così complicate e così strane. Uno stesso popolo, costituito da etnie diverse, che parla lingue diverse, che professa fedi diverse, che ha diverse sette dissidenti e due Chiese ugualmente costituite e privilegiate; tutte le questioni politiche, pertanto, si trasformano in questioni religiose, e tutte le questioni religiose sfociano in questioni politiche».

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2015
ISBN
9788864402123
Argomento
Economia

La democrazia in Svizzera{*}

Il signor Cherbuliez, professore di diritto pubblico presso l’Accademia di Ginevra, ha pubblicato un’opera sulle istituzioni e sui costumi politici del suo paese intitolata La democrazia in Svizzera e ha fatto omaggio di una copia all’Accademia di scienze morali.
Mi è parso, signori, che l’importanza del soggetto trattato meritasse un’analisi speciale del libro; e, poiché penso che un’analisi del genere offra qualche utilità, l’ho realizzata.
La mia intenzione è quella di mettermi completamente al di fuori delle preoccupazioni del momento, come si addice a quest’aula, di tacere dei fatti attuali che non rilevano per la nostra analisi, e di guardare, in Svizzera, meno agli atti della società politica, e piuttosto alla società stessa, alle leggi che la costituiscono, alla loro origine, alle loro tendenze, al loro carattere. Spero che, così circoscritto, il quadro sarà ancora degno di interesse. Quello che succede in Svizzera non è un fatto isolato. Rappresenta un movimento particolare dentro quel movimento generale che sta portando alla rovina l’intero antico edificio delle istituzioni europee. Anche se il teatro è piccolo, lo spettacolo ha una sua grandezza e, soprattutto, ha una sua originalità particolare. Da nessuna parte la rivoluzione democratica che agita il mondo si era presentata in circostanze così complicate e così strane. Uno stesso popolo, costituito da etnie diverse, che parla lingue diverse, che professa fedi diverse, che ha diverse sette dissidenti e due Chiese ugualmente costituite e privilegiate; tutte le questioni politiche, pertanto, si trasformano in questioni religiose, e tutte le questioni religiose sfociano in questioni politiche; due società, infine, una molto vecchia, l’altra davvero giovane, sposate l’un l’altra malgrado la loro differenza d’età. Tale è il quadro che offre la Svizzera. Per dipingerlo correttamente bisognerebbe, secondo me, porsi più in alto di quanto non abbia fatto l’autore. Il signor Cherbuliez dichiara nella sua prefazione, e io considero davvero sincera questa affermazione, che si era imposto la legge dell’imparzialità. Teme, anzi, che il carattere imparziale della sua opera getti una sorta di monotonia sul tema. Questa paura è certamente immotivata. L’autore, infatti, vuole essere imparziale, ma non raggiunge il suo scopo. C’è della scienza, dell’intuito, un talento reale, una evidente buonafede che brilla anche tra le opinioni appassionate; quello che, tuttavia, proprio non si vede è l’imparzialità. Si ritrova allo stesso tempo molto spirito e poca libertà di spirito.
Verso quali forme di società politica tende l’autore? Sembra davvero difficile a dirsi. Benché approvi in qualche modo la condotta politica che, in Svizzera, hanno seguito i cattolici più ferventi, avversa a tal punto il cattolicesimo da non essere lontano dal voler impedire per legge che la religione cattolica si estenda in quei luoghi in cui non è dominante. D’altro canto è nemico delle sette dissidenti del protestantesimo. Si oppone al governo del popolo, ma anche a quello della nobiltà. Dal punto di vista religioso, una Chiesa protestante retta dallo Stato; dal punto di vista politico, uno Stato retto da una aristocrazia borghese: questo sembra essere l’ideale dell’autore. Si tratta della città di Ginevra prima delle ultime rivoluzioni.
Se, tuttavia, non si distingue sempre chiaramente ciò che ama, si scorge senza difficoltà ciò che odia. E ciò che odia è la democrazia. Toccato nelle sue opinioni, nelle sue amicizie, nei suoi interessi, forse, dalla rivoluzione democratica che descrive, non ne parla che da nemico. E non solo attacca la democrazia per questa o quella conseguenza, ma proprio nel suo principio; non vede le qualità che essa possiede, ma ne perseguita i difetti. Non distingue affatto, tra i mali che ne possono derivare, ciò che è fondamentale e permanente e ciò che è accidentale e passeggero, ciò che bisogna sostenere perché inevitabile e ciò che si deve correggere. Forse questo soggetto non poteva che essere affrontato in questi termini da un uomo così coinvolto come è stato Cherbuliez nelle agitazioni del suo paese. È lecito dispiacersene. Vedremo, proseguendo la nostra analisi, che la democrazia svizzera ha davvero bisogno che si faccia chiarezza sull’imperfezione delle proprie leggi. Ma, per farlo con efficacia, la prima condizione è di non odiarla.
Il signor Cherbuliez ha dato alla sua opera il titolo La democrazia in Svizzera. Questo potrebbe indurre a credere che, agli occhi dell’autore, la Svizzera sia un paese nel quale sia possibile fare un’opera di dottrina sulla democrazia, e in cui sia permesso giudicare le stesse istituzioni democratiche. Da ciò, secondo me, derivano quasi tutti gli errori contenuti nel libro. Il suo vero titolo sarebbe dovuto essere La rivoluzione democratica in Svizzera. La Svizzera, in effetti, ancora dopo quindici anni è un paese in rivoluzione. La democrazia, là, è un’arma di cui ci si è serviti per distruggere o, alcune volte, difendere la società antica, piuttosto che una forma stabile di governo. Là si possono perfettamente studiare i fenomeni particolari propri di uno Stato rivoluzionario nell’era democratica in cui ci troviamo, ma non vi si può dipingere la democrazia nel suo assetto permanente e stabile. Chiunque non abbia continuamente presente questo punto di partenza non comprenderà che a stento il quadro che le istituzioni della Svizzera gli presentano; e, da parte mia, proverei una difficoltà insormontabile a spiegare come giudico ciò che è, senza tenere conto di ciò che è stato.
Solitamente ci si illude su ciò che era la Svizzera al momento dello scoppio della rivoluzione francese. Siccome gli svizzeri vivevano da tempo in un regime repubblicano, si credeva facilmente che essi fossero molto più abituati, rispetto agli altri abitanti del continente europeo, alle istituzioni e allo spirito che costituiscono e animano la libertà moderna. È, tuttavia, proprio il contrario di quello che si sarebbe dovuto pensare.
Nonostante l’indipendenza della Svizzera fosse nata durante un’insurrezione contro l’aristocrazia, la maggior parte dei governi che si costituirono all’epoca appresero ben presto dall’aristocrazia le loro abitudini, le loro leggi, addirittura le loro opinioni e le loro inclinazioni. Ai loro occhi la libertà non si presentò più che sotto forma di privilegio, e l’idea che esistesse un diritto generale e preesistente a essere liberi, comune a tutti gli uomini, divenne estranea al loro spirito, così come poteva essere estranea ai principi della famiglia d’Austria, che loro stessi avevano vinto. Tutti i poteri non tardarono, quindi, ad essere attirati e trattenuti all’interno delle piccole aristocrazie che si erano create o che si legittimavano l’un l’altra. Al nord queste aristocrazie assunsero un carattere industriale, al sud uno militare. Nella maggior parte dei cantoni, i tre quarti della popolazione furono esclusi da qualsiasi tipo di partecipazione – diretta o indiretta – alla gestione del territorio; e, inoltre, ogni cantone aveva dei cittadini ridotti alla condizione di sudditi.
Queste piccole società, che si erano formate nel corso di una tale agitazione, divennero presto così stabili che nessun movimento riusciva a farsi sentire. Dal momento che non era né spinta dal popolo, né guidata da un re, l’aristocrazia tenne il corpo sociale immobile nei vecchi abiti medievali.
Il trascorrere del tempo faceva insinuare già da anni il nuovo spirito nelle società più monarchiche d’Europa; la Svizzera, tuttavia, ne rimaneva ancora impermeabile.
Il principio della separazione dei poteri era ammesso da tutti i giuristi, ma non si applicava affatto in Svizzera. La libertà di stampa, che esisteva almeno formalmente in quasi tutte le monarchie assolute del continente, non esisteva né di fatto, né di diritto in Svizzera; la facoltà di associarsi politicamente non era né esercitata né riconosciuta; la libertà di parola era vincolata a limiti davvero stretti. L’uguaglianza delle cariche, verso cui tendevano tutti i governi illuminati, non vi si riscontrava, così come quella dei diritti. L’industria incontrava qui mille intralci: la libertà individuale non aveva nessuna garanzia giuridica. La libertà religiosa, che iniziava a insinuarsi addirittura negli Stati più ortodossi, non era ancora emersa in Svizzera. I culti dissidenti erano del tutto proibiti nella maggior parte dei cantoni e, comunque, avversati in tutti. La differenza di fede creava praticamente dappertutto delle incapacità politiche...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Sull’autore
  3. Discorso contro il diritto al lavoro*
  4. La democrazia in Svizzera*
  5. Date
  6. Vita e opere
  7. Bibliografia