Le motivazioni del voto
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Come utilizzare i principi dell'economia per analizzare la politica e la pubblica amministrazione? Se gli individui all'interno di una economia di mercato sono mossi prevalentemente dall'auto-interesse, perché non dovrebbero comportarsi allo stesso modo in qualsiasi contesto?In questo ormai classico testo introduttivo alla Public Choice, Gordon Tullock (1922-2014) studia per la prima volta il comportamento di politici, burocrati ed elettori da una prospettiva nuova. Per Tullock, i burocrati sono uomini come tutti gli altri. La teoria delle scelte pubbliche, smontando alla radice la credenza di uno Stato benevolo e lungimirante, si pone come obiettivo proprio quello di analizzare i fallimenti dell'intervento pubblico. I mercati possono anche non produrre risultati perfetti, ma nella realtà non può esistere nulla di simile a un governo disinteressato e onnisciente capace di aggiustarne le imperfezioni.Questa nuova edizione del libro di Gordon Tullock contiene brevi saggi di Peter Kurrild-Klitgaard, Michael C. Munger, Charles K. Rowley e Stefan Voigt. Questi contributi considerano l'impatto che il testo ebbe nel mondo accademico, ma non solo, dopo l'uscita avvenuta nel 1976. A distanza di svariati decenni, con una spesa pubblica e un intervento statale che hanno continuato senza sosta a dilatarsi, è evidente come ci sia ancora molto da imparare dalla lettura di Le motivazioni del voto.

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2016
ISBN
9788864402949
Argomento
Economia

1. Economia e politica

L’approccio economico alla politica è solitamente associato all’opera di Marx. Il presente testo adotta un metodo di analisi totalmente diverso da quello utilizzato dal pensatore tedesco. Il primo capitolo contiene una breve introduzione e una sintesi del lavoro svolto molto tempo dopo Marx, per la maggior parte a partire dal 1960, con l’obiettivo di riuscire ad applicare gli strumenti dell’analisi economica allo studio del comportamento umano nella sfera politica.
Adam Smith, il fondatore dell’economia scientifica, fu di professione filosofo, anche se rivolse i propri interessi verso molti altri ambiti di studio. Nonostante abbia fornito il suo maggior contributo all’interno della disciplina che oggi definiamo “economia”, egli insegnò molte altre materie, tra cui le scienze politiche. Durante il XIX secolo e fino a poco tempo fa, il campo di indagine dei suoi seguaci e degli economisti in generale tese a restringersi, riducendosi per lo più all’analisi dei sistemi di produzione e di distribuzione. La maggior parte degli economisti si concentrò, di conseguenza, sul funzionamento del mercato. Ma ci furono delle eccezioni: alcuni di essi, infatti, si interessarono ai meccanismi che caratterizzano le economie pianificate centralmente. Altri, invece, focalizzarono la loro attenzione sul ruolo del governo in qualità di fornitore di beni e servizi e di esattore. Questo settore dell’analisi economica venne definito “finanza pubblica” e fino a tempi recenti esso si occupò principalmente dei problemi legati alla tassazione.
La maggior parte delle persone crede che la più importante applicazione dei concetti dell’economia tradizionale al settore pubblico sia rappresentata dalla “macroeconomia”, il settore di studio che si occupa della disoccupazione e dell’inflazione a livello aggregato. Nonostante gli economisti avessero dimostrato interesse per la macroeconomia fin dagli albori della loro disciplina, fu solo all’incirca tra il 1940 e il 1970 che quella branca ricevette una notevole attenzione. Negli ultimi anni si è inoltre verificato un fiorire di studi particolarmente dettagliati sulle politiche adottate da singoli governi. Si è anzi diffusa la convinzione che gli economisti possano fornire la loro assistenza, anche se raramente la decisione finale, su questioni come la migliore combinazione di aerei da combattimento, il numero e la distribuzione dei posti letto negli ospedali, e così via. Questo libro non segue nessuno di questi tradizionali campi di applicazione dell’economia. In qualche misura, anzi, rivaleggia con essi.
Il despota benevolo, la fine dell’illusione
Il comune obiettivo degli approcci richiamati è quello di individuare l’intervento pubblico ottimale, vincolandolo al raggiungimento di determinati obiettivi come, ad esempio, una bassa disoccupazione, una moderata inflazione o il contenimento dei costi della difesa. Il nuovo approccio economico alla politica, che è stato per lo più sviluppato all’Università della Virginia (Charlottesville, Virginia), si basa sull’analisi del funzionamento stesso dei governi, e cioè del processo tramite il quale essi prendono le proprie decisioni. In un certo senso, l’economia tradizionale adotta, con riferimento all’ordinamento politico, quello che può essere definito il modello del “despota benevolo”: essa ritiene, cioè, che il proprio dovere sia quello di determinare la politica ottimale per raccomandarla al governo, il quale è chiamato ad adottarla e a portarla avanti in maniera fiduciosa.
Gli economisti contemporanei, statunitensi ed europei, che studiano le dinamiche politiche (ma anche gli scienziati politici che stanno rapidamente prendendo confidenza con l’uso degli strumenti dell’analisi economica) non seguono questo genere di approccio. Anch’essi sono interessati a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici e non hanno remore nel pronunciarsi, ad esempio, sull’organizzazione interna del servizio postale; ma il loro primo ambito di ricerca è il funzionamento interno della struttura burocratica, non i suoi risultati. La macchina statale è concepita da questi studiosi come una istituzione che, al pari del mercato, consente alle persone di raggiungere i propri scopi. Invece di ipotizzare l’esistenza di un particolare obiettivo, ad esempio la massimizzazione dei livelli di salute pubblica per ogni sterlina spesa, e cercare di individuare il modo di raggiungerlo, la nuova disciplina parte dal presupposto che tutti i dipendenti pubblici tendano ad accrescere ciascuno il proprio utile, a perseguire, cioè, ognuno un particolare interesse personale all’interno di determinati contesti istituzionali e, muovendo da queste basi, cerca di dedurre quali politiche essi finiranno con il perseguire.
I miglioramenti suggeriti dai nuovi economisti sono, normalmente, di tipo strutturale. La maggior parte di essi, per esempio, è a favore del decentramento amministrativo. Benché mi trovi in ciò in netta minoranza, sono personalmente convinto che sia necessario prevedere, per la maggior parte delle materie oggetto di intervento legislativo, la maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento, piuttosto che quella semplice. Le forme di governo e i sistemi di voto non sono il tipo di problema con cui gli economisti tradizionali sono soliti cimentarsi. Non troppi anni fa, essi sarebbero stati parecchio dubbiosi sulla liceità dell’utilizzo degli strumenti dell’analisi economica per studiare le funzioni dei governi e i sistemi elettorali.
Entrano in scena gli scienziati della politica
Nonostante il nuovo approccio alle questioni di natura politica si sia inizialmente sviluppato tra gli economisti, esso non tardò ad attrarre anche gli scienziati della politica. Entrambi i gruppi ritennero necessario ognuno approfondire le tematiche tipiche del campo dell’altro, con l’obiettivo comune di applicare i metodi dell’economia ai temi tradizionalmente appannaggio della politica. La riconversione intellettuale fu forse un poco più difficoltosa per gli scienziati della politica che per gli economisti, ma tutti nel complesso ebbero molto da imparare.
Essendo stato direttore di Public Choice, la rivista del “movimento”, posso testimoniare che la omonima società è approssimativamente composta per il 45% da economisti, per il 45% da scienziati della politica e per il rimanente 10% da studiosi provenienti da altri campi, come la filosofia e la sociologia. Oggi non è possibile dire se l’autore di un particolare articolo in cui si applicano gli strumenti concettuali dell’economia alle scienze politiche provenga da quest’ultima branca di studio o abbia invece ricevuto una formazione di tipo economico. In effetti, gli economisti formatisi al Politecnico della Virginia o gli studiosi di politica provenienti dall’Università di Rochester nello stato di New York (i due più importanti centri di ricerca nella nuova disciplina) utilizzano gli stessi libri (anche se, com’è naturale, le specializzazioni sono differenti). La maggior parte degli studiosi della Public Choice, comunque, ha iniziato il proprio percorso intellettuale in uno dei due campi ed è successivamente stata attirata nel nuovo contesto interdisciplinare da un approccio allo studio della politica che molti (e io stesso fra questi) ritengono più fecondo di quelli che vengono separatamente proposti dall’economia e dalle scienze politiche classiche.
Finora, il lavoro svolto è stato per lo più di tipo teorico, mentre relativamente poco sforzo è stato dedicato all’analisi empirica. Questo stato di cose non riflette un’avversione verso l’attività sperimentale. Occorre creare una teoria prima di poterla testare, e le nuove costruzioni intellettuali sono spesso ardue da sottoporre a verifica: i dati richiesti sono sovente indisponibili e in qualche caso è necessario ricorrere a nuove tecniche statistiche. Ciononostante, le verifiche sperimentali sinora effettuate hanno confermato l’impianto generale della nuova teoria.
Per fornire qualche esempio a proposito, segnalo i seguenti articoli apparsi su Public Choice: “A Clear Test of Rational Voting”, “Information and Voting: An Empirical Note”, “An Economic Analysis of Government Ownership and Regulation: Theory and the Evidence from the Electric Power Industry” e “A Description and Explanation of Citizen Participation in the Canadian Municipality”.{8}
L’etica nella condotta politica
È senz’altro vero, ma è una sfortuna, che l’approccio economico alla politica sollevi questioni di natura etica. Molti degli scienziati politici tradizionali hanno dedicato i propri sforzi alla individuazione della condotta politica moralmente corretta da tenersi in ogni data situazione. In questo mio testo non discuterò molto di questo genere di problematiche, non perché abbia qualcosa in contrario nei riguardi della correttezza morale o perché non possegga delle opinioni su quali comportamenti politici siano moralmente corretti, ma perché le persone hanno convinzioni diverse su ciò che sia giusto e ciò che sia sbagliato; del resto, gli infiniti dibattiti sul tema occorsi durante i duemila anni dell’era cristiana non sembrano aver assolutamente appianato le divergenze. Ovviamente, questo non significa escludere a priori la possibilità di condotte politiche corrette sotto il profilo morale, sta però a indicare che non c’è alcuna probabilità di raggiungere nell’immediato futuro un accordo sufficientemente generale riguardo alle basi etiche delle politiche di stampo egualitario, la pena di morte per gli assassini o la diatriba tra guerra “giusta” e pacifismo, e così via. Sembra di conseguenza sensato tentare di individuare un altro approccio. Talvolta, l’economia è stata tacciata di amoralismo, nonostante i suoi difensori sostengano di continuo che dare agli individui ciò che essi desiderano sia eticamente corretto. Il nuovo approccio economico alle scienze politiche può essere sottoposto alle stesse critiche e difeso allo stesso modo.
Non c’è immoralità nell’approcciare con gli strumenti dell’economica le questioni politiche (e, se è per questo, neppure quelle tipicamente economiche). Lo scopo è quello di analizzare in che misura gli apparati democratici siano in grado di fornire agli individui ciò di cui questi hanno effettivamente bisogno. Alcuni scienziati sociali affermano che i governi devono dare alle persone ciò che queste dovrebbero volere. Di solito, gli studiosi o i politici che sostengono convinzioni di questo genere tendono pure a stabilire esattamente ciò che la gente dovrebbe possedere. Anch’io spesso penso che le persone sarebbero più ricche se, invece di fare come credono, seguissero i miei consigli; ma in una democrazia non c’è molto che possiamo fare per imporre la nostra opinione agli altri. Gli individui votano per ottenere ciò che desiderano e non ciò che noi pensiamo dovrebbero desiderare.
Elettori e consumatori: alla ricerca del proprio vantaggio
Elettori e consumatori sono essenzialmente le stesse persone. Mr. Smith compra e vota; egli è lo stesso uomo sia al supermercato che al seggio elettorale. Non c’è alcuna ragione di credere che il suo comportamento possa divergere radicalmente nei due contesti. Noi diamo per scontato che, in entrambi i casi, egli sceglierà il prodotto o il candidato che riterrà essere il più vantaggioso per sé.
Nonostante possa apparire davvero banale, questa ipotesi è, in realtà, radicale. Da decenni, buona parte delle dottrine politiche si basa sull’assunto che gli obiettivi perseguiti dai governi siano più “elevati” di quelli che gli individui cercano di raggiungere attraverso il mercato. Si presume che l’elettore abbia a cuore l’interesse pubblico e che l’acquirente all’interno del negozio sia motivato solo dal proprio tornaconto. È proprio così? Siamo di fronte a tanti Dottor Jekyll e Mister Hyde?
Il mercato fornisce ogni sorta di opportunità per le persone disposte a sacrificare il proprio benessere a beneficio degli altri. Esiste un gran numero di associazioni caritatevoli alle cui finalità si può contribuire donando denaro od offrendo il proprio tempo.{9} Ciononostante, gli individui non sono soliti devolvere la maggior parte del proprio tempo o delle proprie giornate a esse. I singoli sono senz’altro interessati al benessere degli altri, ma meno intensamente che al proprio (e a quello dei familiari più prossimi). Tempo fa, sulla base dei risultati di una ricerca empirica, dedussi che l’essere umano medio si comporta da egoista (nel senso stretto del termine) il 95% delle volte. Naturalmente, c’è chi si dimostra tale meno spesso e chi con maggior frequenza.
Il parlare e l’agire: professori e droghieri
Esiste un profondo contrasto tra il modo in cui la gente agisce e quello in cui parla. Questo fatto è particolarmente marcato tra gli accademici, le cui discussioni vertono spesso sulla desiderabilità del fare sacrifici in favore degli altri, del battersi per obiettivi morali (più o meno astratti) e del vivere una vita sommamente virtuosa e i cui comportamenti sono invece guidati dal mero interesse personale al pari di quelli del comune droghiere.
Fino a 250 anni fa, la maggior parte delle discussioni in campo economico era basata sull’assunto che gli uomini d’affari perseguissero, o almeno tentassero di perseguire, una sorta di dovere sociale: gli studiosi erano, infatti, convinti che esistessero cose tipo il “giusto” prezzo e tutta una serie di obblighi morali in capo alla comunità degli operatori economici. Una delle più grandi conquiste del tardo illuminismo inglese (dovuta, in particolare, ad Adam Smith) fu la intuizione che quel genere di presupposti non fosse veritiero. In realtà, ricorrendo all’ipotesi che la maggior parte degli individui attivi nel mondo degli affari sia per lo più mossa dalla volontà di fare quattrini (cosa che non esclude a priori la disponibilità da parte loro a finanziare opere caritatevoli) è possibile produrre analisi più accurate sul loro comportamento di quelle che sarebbe possibile ottenere supponendo che costoro siano alla continua ricerca del “giusto” prezzo. Secondo questo approccio, il comportamento dell’uomo d’affari è moralmente più che rispettabile. Inseguendo il proprio profitto, infatti, egli crea benessere per gli altri individui e, in presenza di migliori istituzioni, può essere incoraggiato a produrne sempre di più.
Politici, dipendenti pubblici e comuni mortali
In generale, noi tendiamo a sperare che lo stesso possa valere anche per i politici. In effetti, non c’è grande differenza tra politici e impiegati statali da una parte e il resto della popolazione dall’altra. Un uomo d’affari che ha raggiunto importanti traguardi come capo di una grande azienda può passare a dirigere un reparto dell’amministrazione pubblica, ma non c’è ragione di credere che il suo carattere sia destinato, per questo, a cambiare. Potranno essere diverse le condizioni nelle quali si troverà a operare, e ciò potrà determinare dei mutamenti nel suo comportamento, ma egli continuerà a essere sostanzialmente lo stesso uomo.
Oltre a essere un impiegato dello Stato in quanto professore in una università pubblica, faccio parte anche del comitato di direzione di una piccola impresa dello Iowa.{10} Se provo a utilizzare le mie limitate capacità d’introspezione, non mi pare di manifestare differenze caratteriali tra quando sono impegnato in una riunione con gli altri dirigenti dell’azienda e quando compio il mio dovere di docente accademico. Le condizioni che mi trovo ad affrontare sono, naturalmente, in qualche modo differenti, e di conseguenza il mio comportamento non è identico nei due casi; ma, di fondo, sono la stessa persona.
Sia il mercato che il governo democratico sono contesti istituzionali attraverso i quali la gran parte di noi cerca, da consumatore o da elettore, di raggiungere i propri obiettivi. Lo stesso vale nella nostra veste di produttori: anche in questo caso i possibili ambiti di impiego sono il settore privato o quello pubblico; e ognuno di noi cerca, in quello dei due in cui si trova a operare, di perseguire innanzitutto gli interessi personali. Come regola generale, siamo disposti a lavorare per il benessere della società solo se possiamo contestualmente trarre da ciò qualche beneficio a nostro favore. Lasciatemelo ripetere: quasi tutti siamo in qualche misura sensibili non solo al bene degli altri, ma anche a principi più astratti come, ad esempio, l’interesse pubblico. E quasi tutti siamo concretamente disponibili a fare qualche sacrificio (seppur solitamente modesto) in nome di questi valori. Questo è vero in egual misura sia per le pers...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prefazione, di Philip Booth
  3. Sommario
  4. Introduzione, di Peter Kurrild-Klitgaard
  5. LE MOTIVAZIONI DEL VOTO
  6. Parte prima
  7. Introduzione
  8. Glossario
  9. 1. Economia e politica
  10. 2. Perché lo Stato?
  11. 3. Il voto come mezzo di controllo collettivo
  12. 4. La burocrazia
  13. 5. Il voto di scambio (Logrolling)
  14. 6. Conclusioni
  15. Letture di approfondimento
  16. Parte seconda
  17. Gordon Tullock: alcune considerazioni personali, di Charles K. Rowley
  18. Trent’anni dopo: Tullock, Le motivazioni del voto e la Public Choice, di Stefan Voigt
  19. Un giudizio retrospettivo su Le motivazioni del voto, di Michael C. Munger
  20. Gli autori