Il cittadino e lo Stato{105}
(da Nuova Antologia, vol. LXXXIV, fasc. XXI, 1 novembre 1885)
I.
Un problema che si dibatte da secoli è questo delle relazioni fra Stato e cittadino; sin dove lo Stato, per adempiere al proprio ufficio, debba ingerirsi negli atti di lui. E ben si può dire che il problema non sarà mai definito in modo assoluto; imperocché si tratta di stabilire il limite dell’azione fra due enti che non rimangono sempre identici, ma variano secondo i luoghi, i tempi, le circostanze, il grado della civiltà.
Giova nondimeno vedere le due faccie opposte della questione, ed io le esporrò quali a me apparvero in forma chiara, direi anzi pittoresca, in due conversazioni che ebbi già tempo. Un uomo di acuto ingegno, e che aveva avuto notevole parte nella cosa pubblica, mi diceva così: «Allorché io occupai uffici di Stato, la mia sollecitudine più viva fu sempre quella di stare in guardia contro me stesso come contro un nemico pubblico. Lo Stato, e chi lo rappresenta, tende sempre ad allargare le facoltà proprie, e ad usurpare le altrui, e di tal modo crede di essere benefico e ne trae vanto e gloria; ma per lo contrario diventa malefico, e merita biasimo. Imperocché quando esce dallo stretto còmpito suo, che è quello di tutelare la vita, la proprietà, i contratti, i diritti insomma naturali o acquisiti del cittadino, v’ha ogni probabilità per non dir certezza, che volendo evitare alcuni mali o pericoli, ne generi altri di gran lunga più gravi. La sua mano sgualcisce e guasta tutto ciò che tocca.» Questo da una parte; dall’altra una signora di molto brio, maritata in una casa principesca di un piccolo Stato della Germania, mi diceva: «Qui lo Stato è tutto, e dev esser tutto. Da lui dipende la vita, e lo svolgimento de’ cittadini; esso misura il respiro de’ nostri polmoni e i palpiti del nostro cuore. Quando si pronunzia la parola Stato, tutti dal Sovrano all’infimo popolano s’inchinano; un timore reverenziale s’impossessa degli animi, ed io, da che son fatta tedesca, ne sento i brividi corrermi per le ossa.»
Ecco i due aspetti della questione trattata dallo Spencer ne’ suoi opuscoli, che insieme raccolti e tradotti in italiano veggono la luce appo noi, con una prefazione del prof. Giacomo Barzellotti. E potrei citare agevolmente molti scrittori di qua e di là dalle Alpi che anche recentemente presero parte al dibattito.{106} Noterò di passata che la politica nel suo indirizzo pratico dipende, in molta parte, dal modo onde quella questione si risguarda. Al che basti ricordare il concetto che prevalse alla discussione del marzo 1876, alla Camera dei deputati in Italia, quando il Governo passò dalle mani della destra in quelle della sinistra. Allora uno dei più autorevoli oratori del partito che trionfò ne esprimeva il programma colle seguenti parole, che furono naturalmente accolte dai suoi aderenti con fragorosi e prolungati applausi. «Si tratta, diss’egli, essenzialmente di restringere l’azione del Governo, di limitare i suoi poteri. L’unica nostra ambizione è quella di far sì che i cittadini italiani possano sentirsi governati meno. Noi saremo fieri e orgogliosi di aver combattuto contro il principio autoritario, in nome del principio liberale. Noi crediamo assai utile che su questa questione dell’ingerenza del Governo e degli uffizi dello Stato, avvenga la costituzione dei due partiti, l’uno pel trionfo della dottrina autoritaria, l’altro della dottrina liberale.» Accenno a queste dichiarazioni al solo intento di mostrare quanto dirette e prossime relazioni abbia questo problema con tutte le parti della politica pratica, e tratterò la questione al tutto teoricamente.
Primieramente però dovrei giustificare l’affermazione donde presi le mosse, cioè che la soluzione del problema sia in parte storica, e perciò variabile; ma credo di potermi passare dal farne una speciale dimostrazione, essendo oggimai concesso da tutti coloro che meditano sopra queste materie. Non v’ha più chi sostenga le idee, che la società sia il portato di un contratto volontario, pel quale l’uomo abdichi la sua libertà; né che gli uomini nascono tutti uguali di attitudini e di facoltà, e che la sola differenza di educazione li diversifichi fra loro; né infine che lo Stato abbia il potere colle sue istituzioni di foggiare un popolo, e colle leggi di Licurgo, e di Solone e di Numa rifare degli Spartani, degli Ateniesi e de’ Romani. Tutte queste idee, caldeggiate nel secolo scorso, specialmente da’ filosofi francesi, sono state dallo studio accurato della fisiologia, della geografia, della storia, della filosofia, chiarite insussistenti. Taluni moderni naturalisti si sono sforzati di provare che persino in alcune specie di animali è connaturata la società, e che vi si scorgono embrioni di funzioni potestative e coercitive, ossia l’embrione di uno Stato. Ma checché sia di ciò, lo studio dei popoli, cominciando dai più selvaggi, fornisce le prove che l’uomo nasce nella società e per la società, che ivi attinge la educazione nel più lato senso di questa parola, e che fuori di essa non sarebbe uomo, ma bruto. Quanto alla originaria uguaglianza, anch’essa è smentita dal fatto, poiché ci stanno dinanzi ogni giorno esempi della grande varietà negl’ingegni, nelle disposizioni, nelle vocazioni, repugnanti persino ad ogni sforzo di educazione. E non è l’uguaglianza che è da natura, ma piuttosto la diversità e la gerarchia così nell’uomo, come in tutti gli esseri.
Lascio stare l’opinione di quei fisiologi, i quali credono che certe facoltà dell’uomo ab inizio rudimentali, si rinfrancano soltanto coll’esercitarle, in attinenza agli altri uomini, e per siffatto esercizio imprimendosi un’orma negli organi cerebrali, e quest’orma trapassando negli organi dei generati, i discendenti possono in tal guisa prender le mosse là dove i padri con grande fatica erano pervenuti. Ma anche senza di ciò, e dato pure che da taluni si esageri oggi l’influsso della eredità, certo è che non si può negarne interamente gli effetti. Ad ogni modo poi l’accumulazione delle esperienze, delle dottrine, delle credenze, la trasmissione dei trovati, che costituiscono ciò che si chiama tradizione; questo patrimonio che non si può neppur concepire fuori della società, e che all’individuo è inestimabile sussidio, reca gradatamente notevoli cambiamenti nella condizione del cittadino, e per conseguenza nelle sue relazioni collo Stato.
D’altra banda la razza, il clima, le circostanze, tutto ciò che, metaforicamente, suol chiamarsi ambiente, esercita pure un influsso grandissimo, modifica le qualità ereditate, e determina l’andamento della società. La quale non può svolgersi che lentamente, né il suo svolgimento può esser affrettato oltre ad un certo grado; spesso anzi è attraversato da ostacoli, spesso costretto a regredire, per ripigliare più tardi il suo cammino. E lo Stato, che è la forma potestativa della società, ne segue le modificazioni, e si acconcia ad essa: né potrebbe trasformarsi a grado di legislatori e di utopisti. Quei principi, o quei profeti che vollero riformar la pianta delle istituzioni, non solo trovarono impedimenti gravissimi all’opera loro; ma tosto ch’e’ furono scomparsi, seguì una reazione, che in parte almeno la distrusse. Lo stesso Spencer, che coi suoi saggi ci porge occasione a questo discorso, non solo s’adagia nel concetto che ho espresso da prima, cioè che le relazioni fra Stato e cittadino non possono essere eguali sempre e dovunque, ma tutta la sua teorica della evoluzione ne è la conferma. A lui par di scorgere certi tipi di società che si susseguono: e là dove prevale il tipo militante, la cooperazione dei cittadini è coattiva, e quindi grandissima l’azione dello Stato; là dove prevale il tipo industriale, la cooperazione è spontanea, e quindi massima la libertà dell’individuo.{107}
Si dirà che, nonostante queste mutazioni, e quasi come sostrato di esse, vi sono certe qualità essenziali e comuni a tutti gli uomini, che producono in ogni tempo gli stessi effetti, e donde si potrebbero dedurre, anche su questo argomento, delle leggi costanti, e dei principii generali per tutti gli Stati e per tutti i popoli. Ma questi, secondo ogni probabilità, resterebbero principii astratti, poiché in concreto i popoli non hanno le sole qualità comuni all’umanità, ma ne hanno di loro proprie e speciali, onde le leggi che li governano devono desumersi dal complesso delle une e delle altre. Tutto al più volendo definire i limiti fra cittadino e Stato in conformità delle qualità essenziali e comuni a tutti i popoli, si riescirebbe a stabilire dei massimi e minimi, quos ultra citraque nequi consistere rectum, a delineare per dir così una cerchia che normalmente l’azione del cittadino e l’ingerenza dello Stato non debbano mai oltrepassare. Ma dentro quella cerchia, l’azione dell’uno e l’ingerenza dell’altro si allargano o si restringono secondo il momento storico.{108} E perciò ho detto che il problema non può sciogliersi in modo assoluto, ma soltanto relativamente, cioè in risguardo a tutti gli elementi della presente vita privata e della pubblica, ed è così che io prendo a considerarlo nel saggio presente. Chi poi volesse avere un’idea delle varie opinioni degli studiosi da un secolo in qua sopra di questa materia, e delle trasformazioni loro, le troverà acutamente intese, e lucidamente esposte nella Prefazione del Barzellotti al libro dello Spencer, e potrà, anche nella storia di quelle vicende del pensiero, trovare la riconferma della proposizione, che abbiamo sin qui sostenuta.
II.
Nessun dubita che allo Stato si appartenga la dichiarazione e la tutela dei diritti dei cittadini. In questo tutte le scuole si accordano; quindi allo Stato attribuiscono la giustizia civile e penale, la difesa esterna ed interna dell’ordine, l’esercito, la marineria, la diplomazia; e come conseguenza di tutto ciò la facoltà di levare al cittadino una parte dei suoi averi, a titolo d’imposta. Adunque su ciò non mi arresto.
Soltanto mi piace di notare che se noi esaminiamo i codici, e anche le parti dell’amministrazione che si riferiscono alle suddette attribuzioni, noi scorgeremo di leggieri come, anche i più rigidi infrenatori della potestà dello Stato lasciano inconsciamente, o volontariamente passare molti articoli che esprimono una certa ingerenza nell’azione del cittadino, la quale a dir vero trapassa la mera tutela del suo diritto. Per esempio nella materia dei contratti, secondo i fautori del concetto della massima libertà individuale, lo Stato dovrebbe limitarsi a mantenere, contro la violenza o la fronde, l’assoluta volontà dei contraenti, ciascuno dei quali essendo adulto dee reputarsi il miglior giudice del proprio interesse: eppure il codice prescrive delle condizioni alle compere e vendite, ai legati, alle donazioni, colle quali viene a supplire agli errori, nei quali altri potrebbe inavvedutamente incorrere, o vuol evitare certe influenze facili ad esercitar...