Einaudi vesus Keynes
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Einaudi vesus Keynes

Due grandi del Novecento e la crisi dei nostri giorni

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Einaudi vesus Keynes

Due grandi del Novecento e la crisi dei nostri giorni

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Cos'hanno da dirci, oggi, Luigi Einaudi e John Maynard Keynes? Come spiegherebbero la crisi del debito pubblico? In che maniera immaginerebbero il futuro del nostro Paese?Economista, opinionista e uomo politico, Einaudi aveva ben chiaro che quella fra crescita e rigore è una falsa dicotomia. Contro l'inflazione keynesiana egli proponeva una politica di stabilità monetaria. Desiderava un pareggio di bilancio attuato attraverso il taglio delle spese improduttive, l'eliminazione delle bardature all'economia e il freno all'aumento di imposte, di ostacolo a risparmio e produttività. Per la capacità produttiva inutilizzata Einaudi proponeva investimenti, non una generica espansione dei consumi. Al contrario, l'idea di raggiungere il bilancio in pareggio con elevati aumenti fiscali, come accaduto in Grecia, è essa stessa un tributo al pensiero di Keynes: lo Stato ha sempre la priorità sui singoli.Questo libro di Francesco Forte – la cui lunga gestazione è durata dal 2009 al 2015 – non si limita a confrontare le tesi economiche di Einaudi e di Keynes, ma esplora le loro diverse concezioni del mondo. Da una parte, infatti, vi è l'uomo intero di Einaudi, il suo liberalismo delle regole, quel buon senso per cui – come diceva Adam Smith – "ciò che è saggezza nella gestione di ogni famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno". Dall'altra parte l'umanità idealizzata e astratta di Keynes, il primato della macro sulla microeconomia, il suo neomercantilismo.Dal confronto emerge come sia più attuale la visione complessiva di Luigi Einaudi. Il suo pensiero ha ancora molto da insegnarci.Francesco Forte è professore emerito all'Università di Roma La Sapienza. Nel 1961 successe a Luigi Einaudi nella cattedra di Scienze delle finanze a Torino. Tra il 1979 e il 1994 è stato deputato, poi senatore, presidente di commissioni parlamentari e per tre volte ministro. Scrive di economia sul Foglio e sul Giornale. Tra i suoi numerosi libri, L'economia liberale di Luigi Einaudi (2009) e Luigi Einaudi: il mercato e il buongoverno (1982).

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2016
ISBN
9788864402864
Argomento
Economia

Capitolo 1 – L’uomo intero di Einaudi e quello scisso di Keynes{*}

I. Nel presente volume intendo confrontare Luigi Einaudi con John Maynard Keynes, mostrando che nella concezione teorica antropologica ed economica e nelle conseguenze che ne derivano per l’ordinamento economico, politico e sociale vince Einaudi. Ma bisogna tener conto di ciò che da Keynes, come macroeconomista – non come suggeritore di insidiosi principi di politica economica, per intellettuali e tecnocrati astratti –, si può ricavare per completare Einaudi ai fini delle soluzioni che ci occorrono per la politica economica del nuovo secolo.
La formulazione di Einaudi è tanto più rilevante in quanto costituisce una terza via fra keynesiani e anti-keynesiani, ossia fra lassismo e benesserismo post-keynesiano da un lato e rigore a senso unico dall’altro lato, come quello che predomina in Europa, sia nella Commissione Europea, sia soprattutto in Germania, nella interpretazione del Trattato di Maastricht che ha dato vita all’Unione Monetaria Europea. Fra la tendenza al deficit e alla inflazione da un parte e la tendenza al pareggio con deflazione dall’altra parte, esiste una terza via costituita dalla tendenza al pareggio con recupero della capacità produttiva inutilizzata con una politica attiva pro crescita e dalla stabilizzazione, mediante una politica monetaria espansiva non convenzionale. Fra lo Stato del benessere redistributivo e dirigista e il capitalismo senza regole esiste una terza via costituita dallo Stato che attua una politica economica e fiscale conforme al mercato. Fra l’euro senza crescita e la crescita senza l’euro esiste una terza via, che possiamo individuare, applicando le regole del buon governo einaudiano, che costituisce la giusta risposta al keynesismo e al suo contrario, che, a ben guardare, ne è figlio o fratello, perché ha in comune con il keynesismo l’arroganza del razionalismo tecnocratico.
Per intraprendere questo itinerario, conviene cominciare dall’antologia di saggi e articoli di Einaudi intitolata In lode del profitto e altri scritti, curata per l’Istituto Bruno Leoni da Alberto Giordano.
La lettura che si può dare di questi scritti è duplice. Una è quella che il curatore e l’IBL hanno voluto mettere in luce: la complessità o, meglio, la ricchezza, ma soprattutto il rigore del suo pensiero liberale. Il pensiero di Einaudi non può essere definito in maniera semplicistica come liberista, ma anche liberista: fermo su certi principi irrinunciabili che riguardano le libertà individuali economiche, strettamente connesse a quelle extra-economiche e a certi valori, come quelli della stabilità della moneta, del risparmio, del profitto, del lavoro e della concorrenza.
Pertanto Einaudi è il difensore del diritto del piccolo operatore a competere con il grande, della necessità che si tolgano di mezzo i privilegi elargiti dallo Stato, che ci sia la sanzione per gli errori tramite il morso delle crisi e l’istituto del fallimento, quando si devia dalla retta via. Valori che sono economici e insieme etici.
Potrei continuare con qualche altro elemento che emerge da queste pagine, scelte con sagacia e con passione, fra le migliaia scritte da Einaudi. Ma è importante sottolineare che non si tratta di una selezione strumentale a far apparire un certo aspetto di Einaudi, come pensatore, anziché altri.
Quello che emerge, con la sua figura di liberale puro, è il vero Einaudi, non quello che molti intellettuali di sinistra hanno cercato di far apparire. Ad esempio, all’inizio del 2012 Giuseppe Vacca ha scritto un saggetto{1} sul “liberismo” di Einaudi, prendendo spunto dal “richiamo alla lezione di Einaudi” fatto dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano{2} e avente lo scopo di indurre la sinistra a riflettere sul pensiero liberale.
Vacca fa riferimento alla “lezione” di Einaudi, anche perché non vuole affrontare solo il suo pensiero, ma altresì la sua azione come Ministro del Bilancio, che rivaluta. Osservo però incidentalmente che la parola “lezione” Einaudi non l’avrebbe gradita: non amava impartire “lezioni”. Al massimo chiamò i suoi scritti “prediche”, aggiungendovi il diminutivo “inutili” o “della domenica”.
Per Vacca, Napolitano ha elogiato Einaudi per riferirsi alla sua “stretta deflattiva” del 1947, che il PCI all’epoca criticò come il primo atto della restaurazione capitalistica. Secondo Vacca essa fu benemerita perché diede impulso agli investimenti, stabilizzò la moneta e fornì le risorse alla stagione di riforme che consentì la creazione di una moderna economia mista.
Ma Einaudi, con quella manovra, fornì le basi per il “miracolo economico” all’insegna del mercato, non dell’economia mista, che altri teorizzarono e costruirono. E non si trattò di un’operazione di deflazione, ma di stabilizzazione monetaria. Bisogna infatti ricordare che la manovra di Einaudi consistette nel liberalizzare i conti con l’estero degli esportatori, consentendo loro di impiegarli nelle importazioni per finanziare gli investimenti e nello sterilizzare l’espansione che così si creava nel credito alle imprese, con un aumento della riserva obbligatoria delle banche, che fece salire il tasso d’interesse bloccando l’inflazione.
Vacca, per dimostrare che Einaudi non può essere etichettato come liberista, fa riferimento all’affermazione di quest’ultimo per cui l’economia di mercato ha bisogno di regole per funzionare. E ne desume, con Gramsci, che ciò implica un’autorità statale che si sovrappone alla società civile per garantire il funzionamento del mercato, che non sarebbe, in sé, un costrutto naturale. Ma per Einaudi il mercato di concorrenza non è un costrutto artificiale, bensì naturale, e le regole statali a esso appropriate sono desunte dalle convenzioni che si sono formate nel mercato.
L’economia di mercato di Einaudi è fondamentalmente una società di diritto privato, in cui il diritto nasce dal basso e l’autorità lo convalida e perfeziona. Differisce da quella dirigista o da quella mista, nelle quali il diritto nasce dall’autorità. Einaudi negava la validità del liberismo come “religione”, ma lo praticava e lo predicava ampiamente. Si può pertanto affermare che Vacca sia nel torto, nel riferirsi al liberalismo di Einaudi. A differenza di Keynes, Einaudi fece molte battaglie davvero liberiste.
Il libro curato da Giordano mette specialmente in luce due di tali battaglie. Tutte e due riguardano gli interventi critici di Einaudi nelle discussioni all’Assemblea costituente, nel 1947, circa i principi che si volevano inserire e che sono poi stati inseriti, nel secondo e terzo comma dell’articolo 41 della Costituzione italiana, per controllare ed eventualmente dirigere e limitare anche in misura molto pervasiva la libertà d’iniziativa economica, stabilita nel primo comma con la solenne affermazione: «L’iniziativa economica privata è libera».
La proposta degli onorevoli Mario Montagnana, Giancarlo Pajetta e Antonio Pesenti del Partito Comunista Italiano, e di Vittorio Foa del Partito d’Azione, era volta a inserire nel futuro articolo 41 della Costituzione, nel terzo comma, il principio per cui «allo scopo di garantire il lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la nazione secondo un piano che dia il massimo di utilità sociale».{3}
Einaudi nega che si possa sommare l’utilità di soggetti diversi e, quindi, che si possa dare un contenuto alla nozione di massimo di utilità sociale. Aggiunge che «il principio dei piani è antico quanto il mondo, ed è stato sempre usato: sempre, in tutte le epoche storiche e in tutte le forme di economia si sono fatti dei piani. Il piano lo fa il padre di famiglia quando deve coordinare l’insieme delle sue entrate e delle sue spese e deve distribuire le sue spese a seconda delle esigenze familiari. Anche questo è un piano. Un piano lo presenteranno da qui a pochi giorni gli uomini del governo con il bilancio preventivo per il 1947-48. Anche questo è un piano. Nessuno si è mai meravigliato che lo Stato facesse, per le cose sue, dei piani».{4}
Einaudi è contrario ai piani complessivi dall’alto, elaborati e imposti dallo Stato per l’intera economia del paese, perché essi non consentono «la libera scelta della professione, del mestiere o dell’arte da parte dell’individuo»,{5} mentre hanno avuto successi «tutt’altro che piccoli gli innumerevoli piani i quali sono stati attuati in concorrenza e in collaborazione da individui privati e dallo Stato attraverso i secoli e anche negli ultimi tempi».{6}
Aggiunge e sottolinea che «dobbiamo continuare a salutare storicamente con plauso quella legge abolitrice delle corporazioni di arti e mestieri [la legge Chapelier di abolizione delle corporazioni del 1791 da parte dell’Assemblea costituente durante la Rivoluzione francese] perché essa sopprimeva la schiavitù e iniziava un nuovo periodo di libertà nel mondo e di elevazione morale delle classi lavoratrici».{7}
Per Einaudi gli ordini professionali non andavano soppressi ma liberalizzati, nel senso di ammetterne una molteplicità. Il concetto è espresso chiaramente, anche se sinteticamente, nel brano in cui cita la legge Chapelier,{8} premettendo di essere «favorevole alla libertà di scelta e alla libertà di sindacato, non da oggi, ma da quando ho cominciato a scrivere in questa materia»,{9} cioè dall’epoca in cui si era occupato, nel 1897, su La Stampa di Torino, degli scioperi nel biellese. Come si evince da questo suo intervento all’Assemblea costituente, la libertà di associazione si applica, per Einaudi, sia ai lavoratori dipendenti che ai lavoratori autonomi delle professioni delle arti e mestieri.
La battaglia di Einaudi fu sfortunata perché l’emendamento Montagnana non fu accolto, ma i suoi caveat rimasero peggio che inascoltati, vennero deformati e strumentalizzati, e il terzo comma dell’articolo 41 approvato suona così: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere indirizzata a fini sociali». In tal modo si avallarono costituzionalmente i piani economici settoriali, dando vita, a livello nazionale, negli anni Settanta del Novecento, a un neomercantilismo di nuovo genere, che fu poi trapiantato in maniera infausta nelle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno.
L’altro intervento di Einaudi all’Assemblea costituente riguardò la proposta del futuro secondo comma dell’articolo 41, che, ancora oggi, suona così: «[L’iniziativa privata] Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Einaudi approvava l’enunciato riguardante la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Metteva però in guardia circa l’ambiguità della nozione di “utilità sociale”, osservando che il futuro legislatore avrebbe potuto interpretare l’utilità sociale nel modo che gli sarebbe sembrato più opportuno, sull’onda dei mutamenti della coscienza popolare, allargando o restringendo a piacere l’iniziativa privata proclamata libera.
Einaudi, all’opposto, aveva presentato un emendamento – che era stato respinto – che recitava: «La legge non è strumento di formazione dei monopoli economici, e ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione delegata o diretta».{10} Einaudi aveva visto chiaramente che il dirigismo consentito dall’articolo 41, secondo comma, avrebbe favorito i monopoli, dando vita a una nuova specie di mercantilismo. E osservava che ciò era gradito ai politici che pensavano di avere, così, «scoperto nuove vie».{11}
II. In questo primo capitolo del raffronto fra Einaudi e Keynes voglio soprattutto percorrere un’altra chiave di lettura, che mi è stata, in particolare, sollecitata dai due saggi anti-keynesiani di Luigi Einaudi inseriti nel libro curato da Giordano:{12} quella antropologica, economica e politica dell’uomo intero contro l’uomo scisso, assieme alle conseguenze che ne derivano, per la politica e la politica economica, in relazione alla crisi del nostro tempo.
L’uomo intero di Luigi Einaudi è da lui così descritto, o meglio dipinto, nella sua recensione al libro Il problema morale di Gioele Solari, suo amico e sodale nel “Laboratorio di economia politica”: «Un complesso e misterioso miscuglio di istinti egoistici e di sentimenti morali e religiosi, di passioni violente e di amori puri».{13}
È in sostanza l’uomo comune, l’uomo medio vero delle varie classi sociali.
Questa mia chiave di lettura di contrapposizione fra i modelli dell’uomo intero cui si riferisce Einaudi e i modelli dell’uomo scisso che costruisce, invece, Keynes nel ragionamento economico, probabilmente va parecchio al di là di ciò che hanno inteso fare Giordano e l’IBL con la loro antologia einaudiana, che chiaramente mira a rivendicare il genuino liberalismo economico einaudiano contro vulgate che tendono a presentare un Einaudi “gobettiano”.
Ma ai testi culturali e scientifici, così come ai testi dei poeti e alle opere degli artisti in genere, accade quello che capita ai testi delle leggi. La volontà storica del legislatore viene spesso sopraffatta o sopravanzata o arricchita dalla volontà attuale della legge, dalla sua ratio, così come emerge nel sistema delle altre leggi, tenuto conto del significato proprio delle sue parole e della loro logica interpretazione.
Sottolineo questo duplice vincolo, delle parole e della loro logica interpretazione, per avvertire che non sto effettuando una lettura “evolutiva” del pensiero di Einaudi e di Keynes, che va oltre il testo, ma che ne ricavo aspetti che, a tutta prima, potevano non emergere e che coinvolgono anche le loro concezioni del liberalismo e quelle che di esso sono correnti.
Dico subito che si tendono spesso a ritenere antiquati gli economisti dell’uomo intero e avanzati quelli dell’uomo scisso. Keynes, che ne è il più genuino rappresentante, scrisse di sé con il plurale maiestatico, tipico dei professori di Cambridge: «Noi dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova era. E, nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, noi dobbiamo apparire eterodossi, piantagrane, pericolosi, disobbedienti a quelli che ci hanno generato».{14}
Privo di complessi, invece, Einaudi non si vergogna affatto di essere considerato un superato e, perciò, nelle Prediche della domenica scrive: «A me non fa nessuna impressione di essere da tempo immemorabile collocato nell’elenco dei “superati”; ché, avendo potuto contemplare quanti fra i superatori erano già stati messi da parte, sempre mi pareva di avere ancora qualcosa da dire in confronto di coloro che non osavano più banfare delle loro novità presto tramontate […]. Non si allarmino dunque i “superati”. È rarissimo il caso che i superatori non difendano vecchissimi errori che la esperienza ha dimostrato fallaci e dannosi […]. I vecchi errori, particolarmente nel campo economico e sociale, hanno la pelle dura e ad ogni generazione rivivono. […] Non si scoraggino i superati: se essi hanno meditato sulla esperienza passata saranno sempre in grado di operare bene».{15} Ovviamente egli si riferiva a Keynes.
Se oggi ci fosse, Einaudi potrebbe pron...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Capitolo 1 - L’uomo intero di Einaudi e quello scisso di Keynes*
  3. Capitolo 2 - Il buon governo dello Stato secondo Einaudi ha le stesse regole di quello della famiglia e della casa. Quello di Keynes ha regole opposte*
  4. Capitolo 3 - Il neoliberalismo delle regole di Einaudi e il liberalismo neomercantilista di Keynes*
  5. Capitolo 4 - Il risparmio, l’investimento, il deficit e il debito pubblico per Einaudi e Keynes*
  6. Capitolo 5 - La terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana
  7. Capitolo 6 - Il modello complessivo: se sia “superato” Einaudi o Keynes
  8. Concludendo