Giorgio Arcoleo e i teologi del dispotismo
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Giorgio Arcoleo e i teologi del dispotismo

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Giorgio Arcoleo e i teologi del dispotismo

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Dopo gli iniziali interessi letterari, il giurista siciliano Giorgio Arcoleo (1850-1914) si dedicò agli studi di diritto pubblico a partire dalla metà degli anni Settanta del XIX secolo.Il decennio successivo sarebbe stato caratterizzato dal progressivo affermarsi anche in Italia, ad opera soprattutto di Vittorio Emanuele Orlando, del "metodo giuridico" nella scienza del diritto pubblico, teso a depurare la riflessione dei giuristi sullo Stato da commistioni di natura storico-politica.Giorgio Arcoleo fu tra quei giuristi – destinati a rimanere una minoranza – che si opposero a questa tendenza, nella convinzione che essa ostacolasse un'interpretazione dello Statuto come documento volto ad ampliare le libertà politiche e civili.Il costante riferimento al modello britannico e il rifiuto di quello "prussiano" rappresentarono i fondamenti teorici del tentativo di Arcoleo di ridurre per quanto possibile la discrezionalità della pubblica amministrazione, sottoponendola al diritto comune.Il libro contiene scritti e interventi di Arcoleo, dai quali emerge il suo atteggiamento critico nei confronti della decretazione d'urgenza, lesiva delle garanzie statutarie di fine Ottocento, e avverso a una politica scopertamente reazionaria che non riusciva a fronteggiare il malcontento popolare se non nei termini di una semplice quanto brutale repressione.Il volume è completato da un saggio introduttivo di Luca Tedesco.

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Informazioni

Da Discorso parlamentare del 13 marzo 1900

(Camera dei Deputati, legislatura XX, 3a sessione, Discussioni)
Seguito della discussione sul disegno di legge «Conversione in legge del decreto 22 giugno 1899, n. 227, per modificazioni ed aggiunte alle leggi sulla pubblica sicurezza e sulla stampa»{
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}
Ed eccoci di nuovo a discutere di questo primo articolo sui provvedimenti politici, intorno al quale veggo atei, protestanti e scismatici, ed aspetto ancora il teologo. Siamo alla quarta edizione e non so se sia l’ultima. Né voglio farne speciale appunto al Governo, perché non lui soltanto ha dovuto modificare, ma ciascuno dei proponenti, l’indomani ed anzi il giorno stesso, sente un rimorso, e cerca di emendare se stesso.
Questa situazione psicologica comune al Governo ed ai proponenti di qualsiasi parte della Camera dimostra un fatto, che è superiore alle nostre tendenze e volontà, dimostra che ci troviamo dinanzi ad uno di quei problemi, ai quali l’ingegno si sforza di trovare una soluzione, ma la logica si ribella, e con essa il senso giuridico ed anche il senso comune.
Volendo codificare ciò che nello Statuto costituisce una libertà fondamentale, appresa, sviluppata da tutti, non negata da alcuno, si corre il pericolo di trasformare un diritto pubblico in un diritto politico: un diritto pubblico che prescinde dal sesso, dall’età, dalla nazionalità, che senza statuti, senza vincoli, senza patrimonio, stringe in una grande solidarietà (che costituisce il vertice della comunanza civile e politica), sentimenti, idee, interessi e si distingue nettamente da quegli altri diritti pubblici i quali possono offrire più facile addentellato alla legislazione.
Il diritto di associazione si presta meglio a una legge (difficile anch’essa e pericolosa) per gli statuti, per la qualità dei soci, per il vincolo economico, per qualcosa di fisso e di determinato nel fine e nei mezzi. Le associazioni tendono a trasformarsi in gruppi di ceti, classi, fortune. Sono spesso nella vita pubblica un anacronismo: non rappresentano lo spirito, il moto impulsivo della vita pubblica contemporanea come la riunione. Questa emerge dalla natura stessa dell’individuo, e non attinge dallo Statuto ma dalla condizione stessa sociale la sua ragione d’essere, è incoercibile ed infrenabile con norme fisse. Così che o fate una legge liberale e diventa inutile, o volete creare una legge restrittiva e diventa incostituzionale.
Tale condizione penosa impone oggi l’obbligo di uscire fuori da questa specie di circolo vizioso, in cui ci aggiriamo tutti. Ecco perché ho proposto un emendamento per determinare alcuni dei punti sostanziali nei quali tutti da una parte e dall’altra della Camera abbiamo qualche cosa di comune e di riconosciuto, senza bisogno di trasformarlo o deformarlo in tendenze politiche, che annebbiano il sereno criterio legislativo.
I Ministeri forti cercano l’autorità in se stessi, e si valgono di quei diritti fondamentali, che sono inerenti alla natura stessa del Governo. I Ministeri deboli cercano l’autorità, che non hanno, nei voti e nelle leggi. Nessuno dei colleghi dell’Estrema Sinistra negherà, che vi sia un diritto fondamentale che non si scrive nello Statuto, che è al di sopra dello Statuto, ed è il diritto di difesa dello Stato di fronte ad un altro diritto della società conculcata, che è quello di rivoluzione.
La difficoltà è questa: in qual modo tale attribuzione inerente alla natura stessa del Governo, che deve essere imperiosa, necessaria, fatale, che deve costituire un obbligo del Governo, può cristallizzarsi in legge di polizia e snaturarsi in una facoltà discrezionale ordinaria, normale? Qui è il pericolo. Quando voi codificate la facoltà di vietare, voi mutate una necessità sociale, una difesa di Stato, in una facoltà arbitraria; voi costituite una specie di burocrazia, dirò così, nell’esercizio di questo diritto, che dovrebbe essere esercitato in casi eccezionali e sotto la responsabilità del Governo. La norma di legge è in tal caso, invece di garenzia [sic], offesa ai diritti individuali e allo Statuto. Sopprime il margine tra la difesa dell’ordine e la libertà, e rappresenta un patrimonio di abusi legalizzati. È il pericolo continuo che minaccia le istituzioni parlamentari. Non vi ha rimedio contro l’abuso consacrato dalla forma di legge. Despotismo fatale e irresponsabile: perché produce l’atrofia e la impotenza delle libertà contro gli eccessi dei pubblici poteri. Nei Governi parlamentari, della razza latina soprattutto, ciò che è fatto per legge, è legittimo; e non vi è peggior cosa dell’arbitrio, quando sia consolidato per legge; perché da noi, i costumi politici non sono così sviluppati, da poter sollevare la pubblica indignazione contro le cattive leggi, come si fa contro i cattivi Governi; noi non guardiamo che i Ministeri, e non guardiamo mai le leggi.
Epperò ho creduto presentare un articolo sostitutivo, che si collega con quello che, insieme con l’onorevole Sonnino,{123} presentai nel passato giugno. L’intendimento era questo: escludere la facoltà legislativa di divieto, sotto il rapporto dell’es...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. “Contro i teologi del despotismo”. Giorgio Arcoleo e la reazione fin de siècle
  3. Avvertenza
  4. Da Riunioni ed Associazioni politiche (Note all’Art. 32 dello Statuto)
  5. Da Il bilancio dello Stato e il sindacato parlamentare
  6. Da Il gabinetto nei governi parlamentari
  7. Da Diritto e politica
  8. Da Appunti di Diritto Costituzionale
  9. Da Discorso parlamentare del 16 giugno 1899
  10. Da Discorso parlamentare del 27 febbraio 1900
  11. Da Discorso parlamentare del 13 marzo 1900