Storia e cambiamento sociale
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Storia e cambiamento sociale

Il concetto di sviluppo nella tradizione occidentale

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Storia e cambiamento sociale

Il concetto di sviluppo nella tradizione occidentale

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Storia e cambiamento sociale è la biografia di una metafora. Per più di due millenni il pensiero occidentale ha spiegato l'evoluzione sociale attraverso un'immagine presa in prestito dal mondo degli organismi viventi: la metafora della crescita. Così come una pianta nasce, cresce e muore secondo una sua dinamica interna, lo stesso accade per i fenomeni sociali.Questa impostazione è alla base di quella che Nisbet chiama la teoria "sviluppista", che ha caratterizzato gran parte delle riflessioni di filosofi, storici, letterati e sociologi, dai greci fino ai giorni nostri. Esiste infatti un nesso molto stretto tra la teoria greca dei cicli e quella moderna del progresso, entrambe figlie della stessa metafora e della medesima concezione della storia come sviluppo verso un fine.Come scrive Sergio Belardinelli nella sua prefazione, «Storia e cambiamento sociale è forse uno dei libri più ambiziosi di Nisbet: un libro che parla di un concetto sociologico fondamentale, il cambiamento sociale, nel tentativo di sottrarlo alla sua interpretazione "sviluppista". Infatti, il cambiamento sociale non è l'effetto di un principio che opera dall'"interno" della società stessa; scaturisce piuttosto dalla reazione degli individui rispetto a circostanze nuove, "esterne" e, il più delle volte, imprevedibili, che in vario modo irrompono nella vita di una comunità».Robert A. Nisbet (1913-1996), tra i principali sociologi americani del secolo scorso, ha insegnato all'Università della California a Berkeley e alla Columbia University. Tra i suoi libri tradotti in italiano si segnalano: La comunità e lo Stato (1957), L'urto dei poteri nella democrazia americana(1965), La tradizione sociologica (1977) e La sociologia come forma d'arte (1981)

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Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2017
ISBN
9788864403458
Categoria
Sociologia

Capitolo 1. I greci

Perché ciò che ci circonda sarà sufficiente a chi studia lo sviluppo delle cose; osservare è cosa ragionevole e intelligente.
Eraclito
Ne consegue che il divenire di ogni cosa, se è assolutamente indispensabile, deve essere ciclico, deve ritornare al punto di partenza.
Aristotele
Perché il tempo muta la natura del mondo intero e tutte le cose devono passare da uno stato all’altro; nulla rimane simile a se stesso; tutto esce dai propri limiti; la natura muta tutto; la natura muta tutte le cose e le costringe a cambiare.
Lucrezio
Che il mondo sia un’anima o un corpo governato dalla natura, come gli alberi e i raccolti, esso abbraccia nella sua costituzione tutto ciò che è destinato, dagli inizi alla fine, ad essere sperimentato in modo attivo o passivo; può essere paragonato a un essere umano, tutte le capacità del quale sono racchiuse nell’embrione già prima della nascita. Il principio della barba e dei capelli grigi è innato nel bambino prima che egli veda la luce.
Seneca
1. Essere è divenire
“Che tipo di essere diventerà l’essere una volta divenuto essere?”. Questa domanda, che ci è stata tramandata, era una vera ossessione per buona parte della filosofia e della scienza greca ed è al centro del nostro libro: le idee della crescita e dello sviluppo applicate alla società umana e alle istituzioni.
I greci, più di ogni altro popolo dell’antichità che noi conosciamo, erano affascinati dal cambiamento, dalle sue origini, proprietà, direzioni e dalla sua relazione con la crescita dell’organismo. Aristotele costruì un intero sistema filosofico sul principio della crescita. E per molto tempo prima di lui, nutrivano gli stessi interessi sul cambiamento anche gli antichi filosofi di Mileto. “Tutto si trasforma”, è un argomento ricorrente nel pensiero greco, dall’inizio alla fine, ed è stato ereditato da Roma e poi dalla ricerca filosofica occidentale successiva. Vero è che vi furono greci, così come ci sono dei pensatori in tutte le epoche, compresa la nostra, che voltarono le spalle al cambiamento, per così dire. E chi, interessato a ricercare un rifugio nella staticità e nell’attesa, dichiarò che il cambiamento fosse mera apparenza, non la realtà. Questi temi possono essere ritrovati in tutto il pensiero greco, così come, direi, possono essere ritrovati anche ai giorni nostri. Ma da qui a concludere, come alcuni fanno, che i greci fossero ostili al cambiamento, ciechi di fronte al cambiamento, ignoranti su crescita e sviluppo nel tempo, è una delle peggiori calunnie che si possano riservare a un popolo civilizzato. I greci, non solo conoscevano, accettavano e persino amavano il cambiamento, ma furono i primi nella storia, per quanto ne sappiamo, a elaborare una scienza per studiare il cambiamento. Quando i primi greci dichiararono che il cambiamento è parte della natura di ogni cosa vivente e che ha le sue proprie leggi meccaniche di causa e i suoi scopi, essi iniziarono, in modo quasi letterale, una sfida scientifica che fu una delle principali glorie della storia intellettuale occidentale.
I greci erano affascinati dal cambiamento; praticamente adoravano la crescita. Dai modelli di crescita nel mondo organico, essi derivarono le idee più profonde e lungimiranti della filosofia occidentale. Sopra tutte vi è l’idea di physis; ci ritornerò in seguito. Per ora è sufficiente dire che questa è una parola – che si traduce letteralmente con “crescita” – il cui significato è centrale in tutta la scienza greca. Da essa, i romani e poi l’Occidente latinizzato, ricavarono il loro concetto, altrettanto cruciale, di “natura”. Dobbiamo dare un’occhiata più attenta a questa parola e ai suoi significati.
Non è difficile pensare che i greci siano stati ben presto affascinati dalla crescita e dalla miriade di sue manifestazioni di genesi e decadenza. Come enfatizza John Linton Myres, nel suo illuminante saggio, The Background of Greek Science,{6} dietro a tutte le teorie fisiche e organiche che abbondavano in Grecia sin dai primi tempi, si trovava l’esposizione diretta a quel teatro naturale di contrasti geografici, biologici e vegetali, più vivi lì che non in tutto il resto del mondo antico. Come nota Myres, in quella parte del mondo si trovavano contrasti evocativi: umido e asciutto, caldo e freddo, luce e tenebre, duro e soffice, dolce e amaro, tutti contrasti che, come sappiamo, si ritrovano spesso nei miti greci, nella loro letteratura e anche nella loro scienza.
Ma di tutti questi contrasti il più importante era quello fra crescita e decadenza, davvero straordinario in zone in cui la concentrazione delle piogge in una parte dell’anno e la siccità a tutti note rendono breve il ciclo vitale della pianta. Possiamo solo difficilmente indovinare quale raffinato processo del pensiero iniziò ad avviarsi, quanto tempo passò perché i greci e, prima di essi, molti altri popoli antichi, trasferissero quello che avevano visto nelle piante e negli animali in una rappresentazione dell’intera realtà. Deve essere avvenuto molto presto, nel momento in cui l’uomo scoprì l’uso delle sementi, una volta che l’agricoltura e gli insediamenti umani iniziarono a sostituire quella che era stata un’esistenza caratterizzata da un continuo girovagare alla ricerca di cibo e riparo. Data la dipendenza vitale delle prime comunità umane dai preziosi semi, è facile immaginare che il seme e la pianta siano divenuti ben presto oggetto di meraviglia, di adorazione e qualcosa di mitologico per l’uomo. Cosa poteva esserci di più prezioso in questo ambiente? Cosa poteva ispirare un maggior timore reverenziale?
Anche ai giorni nostri, nella nostra era disincantata, satura di informazioni e di scienza, è difficile resistere al mistero e al dramma di ciò che avviene nel seme e la sua trasfigurazione nel tempo.
C’è prima il seme in quanto tale: duro, secco, apparentemente privo di vita come un sassolino. Noi lo consegniamo alla terra e solo allora inizia, con l’aiuto del sole e dell’umidità, una successione sorprendente di cambiamenti che nel loro insieme costituiscono un intero ciclo vitale. Per giorni e giorni non è visibile alcun cambiamento, poi, lentamente e inesorabilmente, il processo di genesi e crescita diventa visibile – si manifesta nei primi piccoli germogli verdi che, nonostante la loro fragilità, perforano la crosta terrestre. Poi seguono, con regolare sequenza, tutte le fasi della crescita della pianta, raggiungendo l’apice nel suo essere pienamente una pianta, con i suoi frutti, tesori vitali per l’uomo. E poi arriva, con la stessa spietata regolarità che ha caratterizzato la sua crescita, l’appassimento, la graduale perdita di vita, culminante nella morte della pianta, gialla e appassita a ricordare all’uomo quel che era stata. Ma la morte è solo un intermezzo, perché arriva la più meravigliosa delle trasfigurazioni del seme: la morte diventa, ancora una volta, la vita. Quel che sembrava essere morte e fine, si rivela essere un manto che cela una realtà, al suo interno, che è un’eterna capacità di vita. Ancora una volta la genesi avviene, ancora una volta si ripete il meraviglioso ciclo di genesi e crescita e di appassimento e morte.
Nella coscienza primitiva niente avveniva naturalmente. Non c’è alcun dubbio che fosse inevitabile che l’arcano processo di genesi e decadenza divenisse un elemento dei miti religiosi. È sicuro che nulla più dell’approvvigionamento del cibo fosse più importante per la vita dell’uomo; doveva essere fatto oggetto di ringraziamento, di suppliche e di riti concepiti per tenere lontane tutte le malvagie interferenze che, come troppo spesso avviene, possono diffondere malattie e conseguenti carestie. Vi sono, come Frazer ci disse nel suo dettagliatissimo saggio, Il ramo d’oro, numerose divinità legate ai semi e alle piante, che possono essere rintracciate sin dalle origini delle religioni. Non sappiamo dove e quando ebbe origine l’adorazione del seme nella storia dell’umanità, non lo possiamo neppure indovinare. Tutto quel che sappiamo è che dal momento che la civiltà occidentale ha fatto il suo ingresso nel mondo, nelle aree attorno al Mediterraneo, riti e cerimonie riguardanti il seme esistevano in gran numero. Osiride, Tammuz, Adone, Dioniso erano solo alcune delle più celebri rappresentazioni di una fascinazione per il seme che può essere iniziata molto prima dei tempi in cui si insediarono i primi popoli a noi conosciuti.
Per quanto riguarda il pensiero occidentale, la più celebre e, da tutti i punti di vista, la più influente fra le divinità del seme fu Demetra. E questo in forza della speciale relazione fra i greci e Demetra, specialmente per gli ateniesi, la cui adorazione per lei rimase pressoché immutata sin dall’origine del pensiero religioso e filosofico greco. Di tutti gli dei e le dee, Demetra era la più vicina al cuore degli ateniesi, ed è stato perfettamente coerente che gli ateniesi stessi, sin dalle loro origini, si legarono ad Eleusi, luogo dei misteri eleusini, raffigurazione della relazione fra Demetra e l’umanità. La storia di Demetra è narrata da Omero nel magnifico Inno a Demetra, scritto nel VII secolo a.C.
Persefone, amata figlia di Demetra, un giorno giocava in un campo cogliendo iris, rose, gigli e violette, quando, all’improvviso, la terra si aprì e Ade, dio dei morti, sovrano degli inferi, comparve per rapirla e costringerla a vivere con lui per sempre, secondo i suoi desideri. Demetra, straziata dal dolore per il rapimento della sua amata figlia,
sulla terra feconda ella rese quell’anno infausto per gli uomini;
né più il suolo lasciava germogliare i semi,
poiché li teneva nascosti Demetra dalla bella chioma (vv. 289-291).
Questo era, ovviamente, la punizione più terribile che potesse capitare all’uomo – ed anche quella che potrebbe capitare alla specie umana ai giorni nostri – e ogni forma possibile di espiazione fu adottata per cercare di cambiare il destino imposto da Demetra al mondo. Ma a nulla servì. Era tale il dolore di Demetra per la perdita di sua figlia che avrebbe lasciato morire di fame l’intera umanità, se non fosse giunto Zeus stesso in soccorso. Egli ordinò ad Ade di restituire Persefone a sua madre, l’unico modo per salvare l’umanità dal destino che per essa era già stato deciso da Demetra. Ade fu costretto ad obbedire, ma amando Persefone di un amore profondo e irrinunciabile, la restituì alla madre solo dopo averle donato un seme di melagrana da mangiare, in cui aveva instillato un elisir magico, che l’avrebbe costretta a ritornare da lui per almeno un terzo di ogni anno.
Demetra, ora accontentata, corse giù dal monte dell’Olimpo
e giunse a Rario, terra ubertosa e feconda
un tempo; allora invece per nulla feconda: anzi rimaneva
sterile e inerte, e dentro di sé celava il bianco orzo,
per volere di Demetra dalle belle caviglie.
Eppure, in futuro, rapidamente si sarebbe coperta di lunghe spighe,
come di una chioma, con l’avanzare della primavera;
nel terreno i pingui solchi sarebbero stati onusti di spighe,
e queste sarebbero poi state legate in covoni (vv. 392-399).
Avendo restituito all’umanità la fertilità della loro terra, avendo ridato la promessa della vita, Demetra mostrò
i misteri solenni […]
venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare,
o palesare, perché la profonda reverenza per le dee frena la voce (vv. 418-421).
Questa è l’origine mitica del ciclo delle stagioni, del rapporto dell’umanità con l’inverno e la primavera. È anche l’origine dell’adorazione dei greci per Demetra, la cui deificazione di una pianta che dona la vita e la sua arcana meraviglia della crescita e dell’appassimento, della nascita e della morte, della morte e della resurrezione, appariva agli occhi degli ateniesi ancor più sacra del dono del fuoco di Prometeo. La venerazione per Demetra, ad Atene, continuò anche durante la successiva era del razionalismo greco.
Se noi osserviamo bene il culto di Demetra, tutti gli essenziali elementi di concettualizzazione della crescita vi possono essere scorti con immediatezza: fecondità e sterilità, naturalmente, ma anche lo sviluppo ciclico e la ricorrenza, la potenzialità, l’immanenza e lo scopo ultimo. Soprattutto, scrisse James Frazer, «il pensiero del seme sepolto nella terra per poter germogliare a una nuova e più alta vita suggerì facilmente un paragone col destino degli uomini».{7} Se il destino dell’uomo viene concepito come un compimento oltre questo mondo – come fu a lungo creduto dai greci e successivamente, in diversi modi, anche nella cultura cristiana – questa non era certamente l’unica formulazione possibile. Gran parte della filosofia razionale greca, specialmente quella della civilizzazione e il suo successivo sviluppo, era anch’essa ispirata dal seme sepolto nella terra, che si dispiega, cresce e raggiunge il suo scopo prima che il ciclo finisca, con un nuovo ciclo pronto a ricominciare.
«Non si ha una transizione improvvisa – ha scritto Guthrie – dalla mentalità mitica alla mentalità razionale. Il pensiero mitico non muore di morte improvvisa, sempre che muoia del tutto». Vi sono certamente prove abbondanti sulla sopravvivenza del pensiero mitologico anche nei nostri tempi, ad esempio quando, suggerisce Guthrie, i medici si rivolgono alle malattie come se fossero entità che si comportano in determinati modi – invece che rivolgersi alle persone malate – o negli studiosi che trattano la “natura” come se fosse un arbitro. In quanti casi, si chiede Guthrie, noi usiamo ancora la terminologia mitologica, senza sostituirla con quella della ragione? «Anche in Grecia è possibile ritrovare i concetti del mito rivestiti di termini razionali e mascherati con idee razionali».{8}
Nata dalla paura religiosa e dalla gratitudine, la metafora del seme, della crescita, del divenire, ben presto acquisisce un’importanza trascendente nella filosofia e nella scienza della Grecia. Dalle rappresentazioni del divino e del soprannaturale, la metafora divenne la base di un’intera visione del mondo. Su questo punto, che è veramente essenziale ai fini della nostra comprensione della prospettiva greca sul cambiamento storico, non posso far altro che citare uno studioso di grande erudizione come Sambursky:
I greci avevano una profonda consapevolezza dell’unità fra l’uomo e il cosmo, consapevolezza caratterizzata dal loro atteggiamento biologico verso il mondo della materia. Il principio teleologico è essenzialmente biologico e antropomorfo, cosicché la prima base per la concezione dell’ordine nel cosmo venne trovata nell’organizzazione del mondo degli esseri viventi.{9}
Questa base, considerata un concetto, era quel che i greci chiamavano physis, una delle più profonde e lungimiranti fra le idee del pensiero classico. Benché la parola e i suoi significati siano meglio conosciuti ai classicisti e siano stati pienamente investigati da studiosi della classicità del calibro di John Linton Myres e Francis Cornford, resta un dato di fatto straordinario, al tempo stesso deplorevole, che questa parola e i suoi significati siano praticamente assenti da tutti gli studi sul pensiero politico e sociale dei greci.
In parte, questa lacuna è il risultato della traduzione – sbagliata – che i romani diedero della parola physis. Essi usarono la parola natura, dalla quale, ovviamente, è stata tratta la parola che usiamo oggigiorno. I romani, comunque, solitamente, per natura intendevano il mondo fisico, compresi gli aspetti fisici dell’uomo e della società.
Inconsapevolmente, i romani avevano fatto nascere quel fatale dualismo fra il mondo fisico, o “naturale”, e quello sociale, cosa che ha afflitto il pensiero occidentale sin da allora. Non c’è fine al numero e alla diversità di significati che il pensiero occidentale attribuì alla parola natura.
Ma per i greci, e ciò è vero sin dai tempi di Eraclito, physis ha un significato che è al tempo stesso inferiore e superiore rispetto a quello che i romani attribuirono a natura. Physis è ben di più di quella “essenza intrinseca” o “essere residuo” che si incontrano più frequentemente fra i significati filosofici di natura. Ma significa molto meno della somma di tutto ciò che di fisico c’è nell’universo e questo è il significato più popolare del termine natura. Physis è senza dubbio sia l’una che l’altro in una certa misura, ma nella mente dei greci la parola che evocava era soprattutto: crescita. In origine, stando a Cornford, physis significava “dare vita a”; questo, naturalmente, in un tempo in cui «la mitica iconografia del sesso – il matrimonio fra ...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. STORIA E CAMBIAMENTO SOCIALE
  3. Prefazione all’edizione italiana, di Sergio Belardinelli
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. PARTE I
  7. Capitolo 1. I greci
  8. Capitolo 2. I cristiani
  9. Capitolo 3. I moderni
  10. PARTE II
  11. Capitolo 4. La teoria della storia naturale
  12. Capitolo 5. La storia dell’evoluzione sociale
  13. Capitolo 6. Il metodo comparativo
  14. PARTE III
  15. Capitolo 7. La persistenza della metafora
  16. Capitolo 8. Riflessioni su una metafora