Lasciare in pace gli altri
eBook - ePub

Lasciare in pace gli altri

Una prospettiva etica

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Lasciare in pace gli altri

Una prospettiva etica

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Perché vogliamo sempre imporci sugli altri? Per quale ragione il nostro comportamento ci appare normale e quello altrui inevitabilmente da correggere? Com'è possibile, soprattutto, che altre persone sembrino conoscere il nostro bene perfino meglio di noi stessi?Secondo John Lachs è necessario riscoprire il piacere di scegliere e, ancor prima, imparare a lasciare in pace gli altri, affinché tutti possano condurre la loro vita come meglio credono. Consentire alle persone di cercare il proprio bene significa riconoscere tacitamente l'esistenza di una pluralità di modi in cui è possibile condurre vite degne.Questo non vuol dire essere indifferenti o egoisti, abbandonando il prossimo nel momento del bisogno, ma aiutarlo in forme che siano rispettose della sua autonomia. Ogni sostegno deve essere allora di natura temporanea, così da non incoraggiare comportamenti passivi e limitanti la responsabilità personale. Solo in tal modo si può creare una comunità virtuosa, tollerante e partecipe delle esigenze altrui.Dobbiamo insomma imparare a non immischiarci troppo nella vita del prossimo, anche se pensiamo che sia a suo beneficio. Come sottolinea Pierluigi Battista nella prefazione al volume, "dietro al rifiuto di un ampliamento della libertà di scelta, spiega molto bene Lachs, c'è una visione pessimistica dell'antropologia umana, l'idea che l'individuo lasciato a se stesso, incustodito, possa fare solo del male a sé e agli altri".John Lachs è professore di filosofia alla Vanderbilt University, dove insegna dal 1967. Nato a Budapest nel 1934 ed emigrato da bambino in Canada, si è laureato presso la McGill University e ha in seguito ottenuto il dottorato presso la Yale University. I suoi interessi filosofici, focalizzati sulla natura umana, l'hanno portato a occuparsi di metafisica, filosofia della mente, filosofia politica ed etica. È stato il curatore di American Philosophy: An Encyclopedia (Taylor & Francis, 2007). Tra le sue recenti pubblicazioni, Freedom and Limits (Fordham University Press, 2014) e Stoic Pragmatism (Indiana University Press, 2012).

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Lasciare in pace gli altri di John Lachs in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Philosophie e Éthique et philosophie morale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
IBL Libri
Anno
2018
ISBN
9788864403694

1. Mele e pluralismo

Immaginate un mondo in cui esiste solo un tipo di frutta: poniamo, le mele. Ci sono ovviamente diversi tipi di mele, comprese le Golden e le Red delicious, le Jonathan e le Granny Smith. Di tanto in tanto ci si imbatte in una mela cattiva. Gli abitanti di questo mondo imparano ad apprezzare le mele mangiandole fresche o cotte al forno, le aromatizzano, ne estraggono il succo, le trasformano in salsa o in ripieno per meravigliose torte. Grazie alla loro coltivazione, le mele diventano disponibili in una sorprendente varietà di gusti ed entrano come ingredienti di una sbalorditiva serie di piatti.
Che cosa dovremmo dire di questo popolo delle mele? Innanzitutto, che sa trarre vantaggio dalle possibilità offerte dalla sua materia prima, creando qualcosa di buono da ciò che, lasciato a se stesso, sarebbe comune e monotono. Dovremmo sentirci dispiaciuti per quelle persone perché non hanno mai goduto della gloria di una pera? Questo sentimento sembra appropriato quando contempliamo la nostra buona sorte che ci ha dato centinaia di tipi differenti di frutta disponibili tutto l’anno. Ma se il popolo delle mele ha condotto una vita di privazioni, lo stesso si può dire di noi, perché dobbiamo rinunciare ad altre cento varietà di frutta di cui non conosciamo i nomi e delle quali non possiamo immaginare i sapori. Proprio come possiamo dire al popolo delle mele che l’esistenza dei suoi membri sarebbe migliore se avessero un po’ di uva, così gli abitanti di un pianeta più ricco potrebbero spiegarci che la nostra vita senza la frutta che loro prediligono deve essere tristemente vuota.
Quello che dovremmo dire al popolo delle mele è che siamo impressionati da tutto quello che sono riusciti a fare con quello che avevano. Il loro atteggiamento è sicuramente corretto: dobbiamo usare ciò che è a nostra disposizione, migliorandolo con intelligenza per rendere la vita migliore. Si noti che il miglioramento consiste nella differenziazione: gli esseri umani tendono a non essere come i gatti, felici con cibo secco mattina e sera. Come sapeva Gottfried Wilhelm von Leibniz, la varietà è un grande bene – talmente grande che, quando manca completamente, la vita diventa insopportabile. La deprivazione sensoriale, la cella di isolamento e la solitudine nel buio dell’inverno polare possono portare le persone alla follia.
La varietà nella forma di esperienze diverse può rendere l’esistenza soddisfacente, forse persino eccitante. Le persone generalmente concordano nel ritenere che un mondo in cui ci siano molti differenti tipi di cucina sia migliore di un mondo in cui ci sia da mangiare solo gulash. La ragione è duplice. Gusti differenti moltiplicano le modalità di soddisfazione, consentendoci di sperimentare piaceri sorprendenti. Inoltre, l’ampiezza delle alternative dà agio alla scelta, per cui possiamo non solo godere nell’assaporare consistenze e sapori diversi ma anche decidere liberamente che cosa mangiare. In un mondo simile si può mangiare gulash tutti i giorni, ma solo se lo si vuole.
Chi potrebbe dispiacersi nel vedere ristoranti francesi, cinesi ed etiopici aprire i battenti fianco a fianco? Più ce n’è, meglio è, sarei incline a dire, anche se non riesco neanche a immaginare di desiderare di sperimentarne alcuni. Normalmente, siamo felici di lasciare che questa innocua competizione si sviluppi e ci consideriamo fortunati di avere una scelta sul dove mangiare. La pluralità non ci disturba in questi contesti e diamo mostra di una lodevole disponibilità a lasciar stare gli altri. In questi ambiti siamo semplicemente indifferenti e tale indifferenza è una condizione perché gli altri perseguano i loro obiettivi a loro modo.
Non solo non riesco a preoccuparmi della varietà dei ristoranti nel quartiere, ma sono anche poco interessato a ciò che fanno nelle rispettive cucine. I segreti di cucina sono come i segreti delle camere da letto: le persone di buon senso non cercano di sapere in che modo il loro strano “prossimo” prepara le pietanze o fa l’amore. Questa salutare distanza favorisce le buone relazioni, consentendoci di apprezzare i pasti gustosi e i sorrisi soddisfatti dei nostri vicini. Le relazioni risultanti permettono alle persone di prosperare sulla base dei propri sforzi nonché della cooperazione volontaria degli altri.
Purtroppo, quando si arriva in certi ambiti, la distanza è difficile da mantenere. Alcune persone non sopportano di vedere giovani con i capelli lunghi o gli orecchini; altri chiamano la polizia perché impedisca agli amanti di baciarsi nel parco. Gli individui vestiti in modi ritenuti dai più di cattivo gusto o trasandati attirano su di loro la riprovazione sociale. Coloro che esprimono opinioni eterodosse o scelgono stili di vita non convenzionali sono guardati con sospetto. I corpi che non corrispondono agli standard prevalenti sono ritenuti bisognosi di correzione e le persone con preferenze religiose diverse dalla norma suscitano una sensazione di inaffidabilità.
La xenofobia è una condizione rassicurante; tranquillizza avere intorno persone apparentemente simili a noi, che sentano allo stesso modo ed esprimano sentimenti comuni in un linguaggio condiviso. Tutto ciò ci permette di escludere il diverso come repulsivo, moralmente guasto o innaturale. Se il diverso riesce a introdursi in mezzo a noi, ci sentiamo autorizzati a evitarlo o a estrometterlo; sicuramente è lui il responsabile di qualsiasi disgrazia colpisca la comunità. La generosità spesso si riduce a salvare le persone dai loro spaventevoli sé; non risparmiamo gli sforzi per criticarli, correggerli e convertirli. Ma la conversione può essere troppo invasiva o impossibile; le donne non possono essere prontamente trasformate in uomini, né i neri in bianchi. Di conseguenza, di tanto in tanto a qualcuno l’oppressione e l’annientamento appaiono modi giustificabili di regolare le questioni con minoranze etniche o religiose.
Possiamo cogliere un’importante differenza tra il popolo delle mele e molte comunità chiuse: il primo si sforza di diversificare l’esigua offerta di frutta, mentre le seconde fanno ogni cosa in loro potere per limitare la diversità a poche forme accettate dello stesso tipo generale. Non è facile farsi venire in mente una società che abbia promosso tra i suoi membri una pluralità di valori. Al contrario, deliberatamente o inconsciamente, le comunità modellano i giovani e gli immigrati a propria immagine, ricompensando coloro che si conformano e rendendo la devianza una fonte di sofferenza. Anche quando gli Stati Uniti erano spalancati all’immigrazione, la rappresentazione dominante era quella del “melting pot”, il crogiolo, in cui i nuovi arrivati avrebbero bruciato le loro bardature straniere e, attraverso l’istruzione in lingua inglese e un nuovo modo di vita, sarebbero diventati rapidamente indistinguibili dai locali.
Perché diversifichiamo volentieri il nostro cibo ma evitiamo il diverso quando si tratta di persone, valori e comportamenti? Le ragioni sono molte. L’insolito non è rassicurante e ciò che è strano ci fa sentire fuori posto. Vedere persone che fanno ciò che per noi è tabù può essere avvertito come minaccioso o, proprio a causa della sua attrazione, una fonte di risentimento. Inoltre, il diverso annuncia la possibile necessità di cambiamento e, anche in una società come la nostra, dedita alla venerazione del nuovo, il cambiamento è confinato in limiti molto stretti. Negli ambiti della religione, delle pratiche sessuali e della famiglia ogni differenza è inquietante e tocca i più profondi recessi del nostro essere, evocando risposte viscerali e dividendo il mondo in “loro” e “noi”.
Storicamente, i fattori più potenti a favore dello sviluppo di un atteggiamento antagonistico verso il diverso sono stati un desiderio e una convinzione. Il desiderio è esercitare potere sugli altri e quindi imprimere la nostra impronta almeno su una piccola porzione dell’universo. La convinzione giustificatoria consiste nell’affermare che i nostri valori e i nostri comportamenti sono naturali e giusti. Il desiderio è comune a tutti noi, anche se raramente lo riconosciamo. La convinzione sembra innocente e perciò non sospetta, eppure struttura gran parte di ciò che pensiamo e facciamo.
Controllare gli altri, in realtà, è più di un desiderio: è un impulso divorante. La sua fonte potrebbe essere evoluzionistica: in questo mondo pericoloso, chi può incanalare l’aggressività degli altri o quantomeno ingaggiarla al proprio servizio migliora le sue probabilità di sopravvivenza. Ma l’impulso è generalizzato e intorbida i comportamenti molto tempo dopo che una vita sociale ordinata ha reso la lotta per la sopravvivenza fisica non necessaria. Di conseguenza, i genitori pretendono che i loro figli “si comportino bene”, la polizia spesso esercita un potere arrogante e i burocrati provano piacere a costringere tutti a obbedire alle loro regole. I venditori vogliono farci comprare le loro merci, i postulanti sollecitano i donatori perché diano più di quello che vorrebbero e i vicini spesso cercano di imporre arbitrariamente limiti a ciò che i loro confinanti possono fare con il proprio terreno.
Il desiderio di esercitare un potere sugli altri è così grande che i figli fanno fatica a sfuggire al dominio dei genitori anche quando sono grandi, i politici resistono ai limiti di mandato con tutte le loro forze e gli imprenditori non vogliono mai ritirarsi. Il fatto che le persone cerchino di farsi dire da altri che cosa fare, pagando fortune per ingaggiare decoratori di interni, personal trainer e consulenti di ogni tipo, può sembrare una prova contraria rispetto a questa visione. In realtà, invece, ne è un’ulteriore conferma: una volta che li abbiamo ingaggiati, questi professionisti eseguono i nostri ordini. È vero che li ascoltiamo, ma siamo noi a decidere cosa vogliamo e dunque l’ultima parola è sempre la nostra. Come corrispettivo di un pagamento, ci lasciano esercitare un potere su di loro.
La convinzione che sembra giustificare la nostra inclinazione a comandare a bacchetta gli altri è che il nostro comportamento ci appare naturale e giusto. Ciò che è usuale definisce il naturale: il cibo che mangiavamo da bambini non ha solo il calore di ciò che è familiare, ma anche una straordinaria appropriatezza. C’è chi pensa che il gulash sia un piatto inventato da Dio e che solo una perversione potrebbe impedire a qualcuno di apprezzarlo; altri ritengono che il paradigma dell’alimentazione sia la pasta, i rognoni di agnello o il polmone di bovino. Tendiamo a sentire la stessa sicurezza quando si tratta di abbigliamento, abitudini a tavola, allevamento dei bambini, sessualità, ambizioni, profitto, atteggiamento verso le donne, differenze accettabili nei piani di vita e religione. Cresciamo nella convinzione che la nostra tradizione non sia altro che un’articolazione delle istanze della natura e che facciamo le cose esattamente come essa stabilisce. Io sono stato allevato nella convinzione che Dio parlasse ungherese: una persuasione condivisa da chiunque altro non fosse corrotto dalla sventura di essere nato e cresciuto in terra straniera.
Per me, è impossibile esagerare l’importanza e la potenza di questo innocente egocentrismo sociale. “Innocente” in questo contesto sottolinea il carattere inintenzionale o irriflesso di uno stile di vita che sembra essere l’unico offerto come modello. Consacrare i nostri modi di vita come naturali, però, perde la sua innocenza quando comincia a fare da fondamento della xenofobia e delle illusioni di qualche tipo di primato, inducendo generi, tribù, classi, razze e nazioni a sviluppare una gerarchia di valori in cui ognuno conferisce a se stesso la posizione più alta. È questo il sostrato della storia dell’umanità, che non è stata di certo una faccenda innocente, estendendosi su millenni di ingiustizia e di esclusione. La crudeltà e gli orrori che la caratterizzano superano di gran lunga ciò che gli animali fanno gli uni agli altri in risposta allo stimolo della fame; gli esseri umani opprimono altri esseri umani non sotto la spinta di esigenze comprensibili, ma in nome della necessità di stabilire il naturale ordine delle cose.
Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer ha visto più chiaramente di chiunque altro che la volontà cerca di sopraffare la volontà e che occorre un livello relativamente elevato di cultura morale per resistere alla tentazione di raggiungere la propria soddisfazione in questo modo. La sua raccomandazione della simpatia universale come antidoto a questa crudele ricerca dell’autoaffermazione, tuttavia, si spinge troppo lontano. Non spetta a noi tifare per l’una o l’altra volontà oppressiva e, in ogni caso, chiedere che ci impegniamo in ogni causa persa è chiedere troppo. C’è qualcosa di meno strenuo, e perciò più fattibile, per rendere il mondo un posto migliore: dobbiamo imparare a lasciare in pace gli altri. Benché ciò possa suonare come un pronunciamento a favore dell’isolamento morale, non è così. Lasciare stare gli altri, in quanto atteggiamento morale pervasivo, è perfettamente compatibile con il vivere in comunità con loro, prendersi cura di loro e rispondere alle loro esigenze. Ciò che questo precetto proibisce è l’interferenza non richiesta nei loro affari, ossia far fare loro ciò che vogliamo, anche se pensiamo che sia giustificato dalla preoccupazione per il loro bene.
I filosofi non si sono distinti in modo particolare nel riconoscere l’importanza di lasciar stare gli altri e di ridurre i nostri impegni a un livello sensato. Josiah Royce dichiarò: “Non c’è riposo a Sion”: la persona morale deve essere impegnata a compiere le opere del Signore senza stancarsi. Dobbiamo riparare a tutti i torti, soddisfare qualsiasi esigenza e vincere il male che ci circonda. Conosciamo bene l’iperventilazione cui tutto ciò dà luogo; essa definisce il tono morale del riformatore. Dovremmo essere degli dèi per superare tali erculee fatiche e Royce sa che è un lavoro infinito. Ecco perché afferma che Dio completa ciò che nella nostra finitezza non possiamo non lasciare incompiuto, facendo della graduale perfezione del mondo l’impresa congiunta dell’umano e del divino.
L’introduzione di Dio significa nello stesso tempo riconoscere che il compito è troppo grande per noi. Poiché il compito è infinito, senza Dio ci aspetta la disperazione morale. Ma se Dio conclude il lavoro rimasto a metà, potremmo lasciargli da fare qualcosa di più e rendere le nostre vite molto più confortevoli. Presi tra la domanda di prodigarci fino all’esaurimento e la tentazione di gettare la spugna, ci rendiamo conto che, per quanto facciamo, riusciremo a fare molto meno di quanto dovremmo. La dimensione dei nostri doveri fa della colpa una certezza e questo inevitabile fallimento indebolisce la risoluzione morale. Con William James, che pure credeva nell’importanza di ciò che chiamava “vacanze morali”, non è andata granché meglio. Egli riteneva che ogni esigenza umana conscia ponesse a tutto il mondo, e in particolare a chiunque potesse contribuirvi, la richiesta di soddisfarla. Ancora una volta gli impegni che ne risultano sono potenzialmente infiniti, con solo risorse finite per adempierli.
La versione contemporanea del fallimento morale certo e della colpa inevitabile è la posizione di James Rachels, secondo cui non vi è nessuna differenza morale rilevante tra non aiutare delle persone che stanno morendo in un luogo remoto a causa di una carestia e ucciderle direttamente. Se questo è vero, i nostri doveri non finiscono mai; fare un’offerta a Oxfam non ci rende meno assassini. Tutti i prodigi morali di cui siamo responsabili devono, ovviamente, essere compiuti in accordo con le nostre idee di ciò che è nell’interesse di esseri umani lontani e profondamente diversi. L’aiuto che porgiamo loro è avvolto nei nostri valori; peggio ancora, ci troviamo a correre da tutte le parti nel vano tentativo di intervenire dappertutto, tentando di porre rimedio a ciò che non può essere corretto o che non può essere corretto da noi, o che non abbiamo nessuna ragione di cercare di correggere. La frustrazione e il danno che ne derivano possono essere eliminati solo se accettiamo la nostra finitudine, rispettiamo l’integrità degli altri e lasciamo che le persone conducano la loro vita come ritengono sia appropriato.
Lasciare che gli altri perseguano il proprio bene secondo i propri lumi è una condizione vitale di autonomia. Ma anche coloro che danno valore all’autodeterminazione o alla libertà tendono a pensare che lasciar stare gli altri sia un particolare dovere imposto in certe circostanze piuttosto che una disposizione morale pervasiva. L’idea migliore è concepire la neutralità nei riguardi degli altri come un atteggiamento morale fondativo del quale gli obblighi di fare qualcosa costituiscono una sospensione temporanea. La giustificazione di questo atteggiamento e la basilare assunzione di libertà hanno il loro presupposto nel fatto che gli esseri umani sono agenti capaci di muoversi e quindi di riconoscere, cercare e raggiungere il proprio bene. Se neghiamo l’intelligenza, l’iniziativa e l’abilità degli uomini, desidereremo naturalmente assumere il controllo delle vite degli altri per dar loro assistenza. Ma questa valutazione dell’abilità umana è insultante e in contrasto con i fatti. Se persino i cani in calore sanno che cosa è bene per loro e spesso lo ottengono, è difficile che vi sia motivo sufficiente di dubitare che gli esseri umani non sappiano e non possano.
Ovviamente, chi parla del bene tende a far riferimento a standard elevati, spiegando a tutti perché dovrebbero cercare ciò che, a nessuno, se lasciato a se stesso, verrebbe in mente di desiderare. Tuttavia questo non è che un altro caso di imposizione di valori su persone che possono non volerne sapere assolutamente. Non intendo negare che, in circostanze particolari, altri possano conoscere quale sia il bene di qualcuno più di lui stesso, ma ciò è eccezionale e raro. Per la maggior parte dei casi, essere se stessi giorno e notte fornisce a ciascuno una visione privilegiata di ciò che lo soddisfa; pensare di poter sostituire il giudizio di altri alla nostra lunga esperienza e alle nostre opinioni meditate è una pretesa con ben poco fondamento. Quelli che appaiono a qualcuno errori di valutazione possono in realtà esprimere gli impegni profondi, autentici e internamente giustificati di altri diversi da noi.
Porre il precetto “lasciare in pace gli altri” alla base della nostra morale non significa capitolare davanti all’egoismo. Gli egoisti solitamente affermano il predominio o la sola legittimità di un unico bene. Anche le persone disposte volentieri a lasciar stare gli altri tendono a farlo nel perseguire i propri progetti, ma concentrarsi sui propri piani non implica ritenere che siano gli unici a meritare di essere perseguiti. Al contrario, l’atteggiamento ha senso solo sulla base dell’assunzione della legittimità di una pluralità di beni. Questa molteplicità di valori, ognuno centrato in un agente senziente, è ciò che rende cogente la necessità di non interferire nelle vite degli altri. Per ogni vita ci sono un giudice e un avvocato naturali; ogni individuo è nella migliore posizione per determinare i propri interessi e orientare l’energia verso il loro perseguimento. Chi lascia agli altri la possibilità di operare senza intralci per il proprio bene lo fa semplicemente per rispetto verso un’individualità attiva capace di autodefinirsi, che è ciò di cui consiste la personalità. Affermare di sapere che cosa è bene per gli altri e cercare di spingerli ad agire in tale direzione appare molto più egoistico di quanto non sia tenerci benevolmente a distanza.
La distanza dalle persone può essere motivata dall’indifferenza. Io sono perfettamente felice di tenermi a distanza dal lago, per la semplice ragione che non mi riguarda. Non mi precipito sollecitamente a soccorrerlo quando un motoscafo solca la sua superficie e non soffro quando gela d’inverno. Un atteggiamento di questo tipo verso gli esseri umani, tuttavia, sarebbe inaccettabile: connessi come siamo dalla culla alla tomba, non possiamo essere indifferenti alle sorti l’uno dell’altro. La distanza che invoco ha alla sua fonte non un freddo disinteresse, ma un atteggiamento amorevole. Gli esseri umani provano il massimo senso di benessere quando possono prendere le proprie decisioni e usufruiscono di uno spazio operativo sufficiente per metterle in pratica. Se desideriamo il bene degli altri, li lasciamo evolvere a loro piacimento, incoraggiandoli a distanza. I buoni lottatori e corridori non ci chiedono aiuto; tutto ciò che dobbiamo fare è non sbarrare loro la strada.
L’altra faccia del lasciare stare gli altri perché vogliamo il loro bene è aiutarli quando occorre. Se desideriamo la felicità di qualcuno, dobbiamo essere pronti ad aiutarlo in condizioni di emergenza o quando gli ostacoli sono soverchianti. Le persone sagge aspettano finché il desiderio di aiuto non sia chiaro, se non per esplicita richiesta, per la tragica evidenza delle circostanze o gli sguardi supplicanti di chi vi è coinvolto. Dare veramente aiuto è diventare strumento della volontà degli altri, onorando l’integrità di ciò che i bisognosi desiderano invece di dir loro ciò che devono fare. La saggezza morale consiste in larga misura nel sapere quando lasciar stare le persone e quando aiutarle e, aiutandole, come non sovvertire le loro intenzioni.
Assumere il controllo delle vite degli altri, oltre a essere moralmente sospetto, è anche strategicamente poco avveduto. Gli orsi di Yellowstone Park si sono abituati al cibo...

Indice dei contenuti

  1. Titolo pagina
  2. Prefazione, di Pierluigi Battista
  3. 1. Mele e pluralismo
  4. 2. Indipendenza operativa
  5. 3. Lasciar stare gli altri
  6. 4. Dire agli altri cosa fare
  7. 5. Far fare agli altri ciò che vogliamo noi (e loro non vogliono)
  8. 6. Aiutare gli altri
  9. 7. L’indipendenza e il formicaio