1. Corpo presente
di Benedetto Saraceno
Durante la sua campagna elettorale, il neoeletto presidente della Repubblica del Brasile Jair Bolsonaro ha asserito che la dittatura militare brasiliana male aveva fatto a limitarsi a torturare i militanti di sinistra perché, piuttosto, avrebbe dovuto ucciderli.
L’ex ministro degli Interni italiano si è affrettato a congratularsi col nuovo presidente del Brasile, forse riconoscendo nella sua ferocia la ferocia che gli è propria. Ferocia che, infatti, è divenuta la cifra retorica del linguaggio della politica e delle sue azioni: muri e armate al confine del Messico, manifestazioni antimusulmane e antisemite nell’Europa dell’Est, espulsioni di massa, popolazioni indotte ad armarsi contro la paura nella cosiddetta «Italia del cambiamento», che altro non è che l’arretramento a un Medioevo già noto.
Ecco le ragioni del titolo dell’editoriale di Souq del novembre 2018: Perché bisogna dire no.
Tuttavia non è così semplice opporre dei no in forme collettive, efficaci e progettuali.
Innanzitutto per potere dire no, è necessario sapere «reclutare» molti altri rivoluzionari «civili», e poi «confederare» la molteplice eterogeneità delle esperienze di resistenza che si trovano in ogni città, provincia e regione del nostro paese e che molto probabilmente in quest’epoca di rinascita del sovranismo fascista si trovano anche in Francia, in Germania e nei paesi dell’Est europeo.
Isole, oasi, enclave, comunque si vogliano denominare, sono quei luoghi dove il buono, il vero e il bello sono in costruzione e che producono trasformazione della realtà, diritti di cittadinanza, inclusione sociale, solidarietà, bene comune, qualità, impegno, innovazione.
I fuochi accesi sono molti ma non comunicano fra loro, e così restano esperienze e testimonianze valide ma con scarso o nessun impatto sulla formazione di un pensiero collettivo e di pratiche coordinate di liberazione e promozione della giustizia e del bene comune.
Una conflittualità collettiva e progettuale potrà nascere soltanto dalla convocazione e confederazione delle oasi fra loro separate e, per essere trasformativa, duratura ed efficace, non può (e non deve) riprodurre le forme e i linguaggi della ferocia e dell’odio che caratterizzano le culture populiste, sovraniste e identitarie. Perché sia pars construens di una strategia comunitaria improntata ai princìpi della disobbedienza civile, deve rifiutare la grammatica della paura e, di contro, inventare linguaggi comprensibili, popolari, attrattivi, credibili, che sappiano mantenere la cifra della ragionevolezza e dell’umanità.
Una frase attribuita al padre della resistenza francese Jean Moulin dice che i fascismi «pour enlever aux peuples qu’ils oppriment toute envie de les renverser, ils n’hésitent pas à polariser sur qui que ce soit les haines qu’ils ont eux-mêmes engendrées».
Oggi il «qui que ce soit» su cui le destre politiche e antropologiche stanno polarizzando l’odio sono i migranti e coloro che li aiutano, ma anche le donne che difendono il diritto all’aborto, gli intellettuali che «credono di sapere tutto», e poi perfino gli esperti perché i tecnici non dicono necessariamente ciò che il popolo vuole sentirsi dire.
E così via, in un crescendo di squadrismo verbale e di progressiva legittimazione anche di qualche forma di squadrismo non verbale, ma corporale.
A fronte delle falsità sistemiche e sistematiche dei governanti, dobbiamo riconoscere che, per fortuna, se la menzogna può talvolta generare fiori effimeri non produce mai frutti. E questo ottimismo militante deve accompagnarci negli anni di opposizione che verranno, anni durante i quali dovremo riappropriarci dell’esercizio del conflitto per costituire un fronte di opposizione intransigente. Ma dinnanzi alla loro brutalità culturale e politica non possiamo tuttavia illuderci che invocare mobilitazioni per una «diversa visione morale» della società sia sufficiente. Abbiamo anche bisogno di generare mobilitazioni conflittive e di scontro su tematiche che interessino lo stato di povertà e abbandono delle classi, dei gruppi e delle comunità privati del sostegno pubblico: significa ri-pensare le forme tradizionali del conflitto e interrogarci sul possibile ruolo del nostro corpo fisico e concreto nella dinamica della militanza civile e sociale; chiederci se la messa in gioco di noi stessi nell’azione politica non debba, talvolta, per essere credibile, obbligarci a lasciarci «abitare» in modo totale (e quindi anche corporeo) dall’impegno che assumiamo.
Troppo spesso constatiamo una separazione netta fra le azioni politiche che intraprendiamo attraverso la conoscenza, l’intelligenza, la parola e il nostro corpo che invece resta uno spazio inerte e privato.
Anche il corpo può diventare un luogo pubblico, come soggetto animato, sociale e socializzato, capace di rappresentare e trasmettere il senso delle nostre conoscenze e scelte morali: la parola e il corpo non sono necessariamente separati ma in alcune circostanze individuali e collettive l’una si incarna nell’altro e viceversa.
Devo alla cara amica Silvia Landra la scoperta, attraverso un piccolo libretto biografico del beato Teresio Olivelli, giovane cattolico antifascista e resistente. Olivelli morì nel lager di Hersbruck nel 1945 a seguito delle continue violenze subite dai nazisti quando, con il suo corpo, faceva scudo ai più deboli e vulnerabili per difenderli dalla sovrastante forza dei carcerieri. Il martirio di Olivelli sembrerebbe in qualche modo irragionevole, un suicidio volontario: consapevole che il suo corpo soccomberà sotto la furia di una forza che non può sostenere, sceglie volontariamente di farne lo strumento della sfida e del conflitto contro i carcerieri.
Il corpo può dunque diventare il veicolo attraverso cui la rivolta, l’opposizione e la sfida all’ingiustizia si incarnano (letteralmente) alterando l’ordine del «discorso del conflitto».
Parlare di corpo, di corpo pubblico, di corpo come veicolo di significati nella lotta politica ingenera, com’è giusto e comprensibile, smarrimento, diffidenza, inquietudine e talvolta anche rifiuto. Il suo uso è problematico e tende a restare come un non detto, un’interdizione.
Così è il corpo di Jan Palach, patriota cecoslovacco che, nel 1969, a soli ventun anni si dà fuoco in piazza San Venceslao, al centro di Praga, ai piedi della scalinata del Museo nazionale, diventando simbolo della resistenza antisovietica. «Abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana» scrive Palach, e almeno altri sette studenti seguirono il suo esempio.
Sei anni prima, nel 1963, Thích Quång Đúc passerà alla storia come il burning monk, dandosi fuoco a Saigon per rivendicare il diritto alla pratica buddhista duramente repressa dalla politica ultracattolica dell’estremista Ngô Đình Diêm, presidente del Vietnam del Sud. Dal 1963 al 1966 alla «protesta definitiva» si immolarono nel fuoco altri trentatré monaci vietnamiti.
Bobby Sands esponente dell’Ira, il braccio armato della lotta irlandese per l’indipendenza dal Regno Unito, morì a ventisette anni nel carcere di Maze, a Long Kesh, dopo uno sciopero della fame che durò sessantasei giorni per protestare contro il regime carcerario del governo Thatcher. Con lui altri nove militanti morirono di fame.
Questo uso del corpo come luogo e strumento di conflitto e opposizione è in realtà non violento in quanto se afferma il martirio di chi protesta, non fa violenza ad altri (diversamente dai kamikaze giapponesi o dai terroristi dello Stato islamico jihadista il cui scopo invece è quello di immolare alla causa, oltre al terrorista, quanti più civili possibile).
Il corpo sofferente, martirizzato, che rivendica la giustizia e che contrasta l’ingiustizia attraversa tutta la tradizione cristiana, a partire dal corpo di Cristo sulla croce: la mise-en-scène del proprio corpo e della sua sofferenza fisica diventa performance comprensibile a tutti, rendendo vera e credibile la testimonianza.
Franco Basaglia, in un breve saggio magistrale, riflette sul cadavere di Ernesto Che Guevara, corpo morto e steso su un tavolo che, pochi mesi prima dello scoppio del Sessantotto, urtò con forza le coscienze dei giovani di ogni parte del mondo perché dichiara, nella carnalità manifesta, un conflitto dove la messa in gioco di sé è totale.
Ma anche il corpo che non porta su di sé i segni di una militanza attiva e, al contrario, rivendica la propria innocenza di vittima vulnerabile reclama giustizia, scandalizza per la propria assenza di difesa, veicola conflitto. Quando nel 1955 negli Stati Uniti, Rosa Parks oppone un semplice rifiuto all’ingiunzione di lasciare il proprio posto in autobus perché, in quanto nera, non le è consentito di occuparlo, testimonia, senza violenza ma con forza, la propria militanza politica, fa del suo corpo uno strumento di conflitto manifesto.
Pur senza una intenzionalità di protesta, anche altri corpi chiamano giustizia.
Il corpo scarno di bambini che soffrono la fame, o quello avvizzito dei poveri, quello segnato delle vittime delle istituzioni totali. Il corpo del lungodegente racconta la violenza ospedaliera del manicomio, così come il corpo di stracci dell’uomo crocifisso nella Ricotta di Pier Paolo Pasolini racconta la solitudine, la miseria, la disperazione.
Tanto il corpo militante che si getta consapevole nello scontro, quanto il corpo umiliato degli ultimi diventa manifesto di una verità che, proprio per la sua natura fisica di epifania, è comprensibile a tutti, credibile e creduta: corpi in conflitto o corpi sconfitti, ma entrambi corpi presenti, visibili e visti.
La «ristoricizzazione del lungodegente» (secondo una felice espressione di Agostino Pirella), ossia la sua rinascita dalla morte manicomiale, comincia proprio dalla ricostruzione della dignità dei corpi (vestiti e non pigiami, farmaci che non inducano quelle andature e quei movimenti tanto invalidanti e stigmatizzanti, la cura ritrovata dei corpi femminili, le bocche sdentate che tornano in possesso di denti e sorrisi).
Dunque che il corpo sia il luogo simbolico e concreto della messa in gioco militante o, al contrario, del proprio annientamento, rimane a ogni modo veicolo di segni, di significati che rendono credibilità alla protesta e all’aspirazione alla giustizia.
Non c’è dubbio che oggi il corpo è sempre più assente dalle dinamiche della politica e delle sue lotte, in un progressivo allontanamento dalla parola, anzi, silenziato dall’uso ridondante e invasivo della parola e dell’icona. Oggi soltanto il corpo delle donne, esposto alla violenza, allo stupro, allo sfruttamento, permane a costituirsi, attraverso la lotta concreta dei movimenti femminili e femministi, come esempio di corpo militante.
Altrimenti il corpo resta come spazio privato, guscio residuale della propria salute, della bellezza, della desiderabilità, della seduttività o della cura di sé. Oppure diventa oggetto virtuale mediatizzato come il corpo della pornografia, o come il corpo devastato dalla violenza della guerra e dalla violenza urbana, o anche feticcio estetico, come il corpo iperdistante e iperperformante degli sportivi o della moda.
Ma il corpo, il corpo di ognuno di noi, permane assente dalla nostra dimensione pubblica e civile, dal conflitto, dall’impegno, dalla militanza: esso non è mai messo in gioco. Corpo assente che lascia la radicalità solo alla parola.
Potremmo tuttavia dire che questa assenza del corpo dal conflitto rende il conflitto solo verbale e dunque meno violento e di questo rallegrarci.
Questa ovvia constatazione non ci esime dal chiederci attraverso quali strategie sia ancora possibile mettere in gioco del corpo come elemento costitutivo dell’impegno politico e civile, della battaglia per i diritti, la giustizia, la tolleranza, la solidarietà, la liberazione delle soggettività e delle energie politiche e morali. Immaginiamo per un momento che ai provvedimenti in crescendo di autoritarietà (per esempio contro i migranti, contro le libertà conquistate dai disabili, o quelle decisionali delle donne, contro il rispetto dell’incolumità fisica di coloro che violano la proprietà privata e sono esposti agli eccessi di difesa da parte di cittadini armati, ma la lista sarebbe ancora lunga), immaginiamo che un gruppo di cittadini risponda a queste crescenti illibertà con uno sciopero del...