capitolo iv
Narcotraffico e paramilitarismo
1. Definire il narcotraffico
Che cosa intendiamo quando parliamo di narcotraffico? Questa domanda, che può apparire scontata a un primo sguardo, rappresenta invece un primo passo essenziale nella comprensione di questo fenomeno e della sua rilevanza nella storia colombiana. Nei media, nel linguaggio giornalistico e in buona parte della retorica ufficiale, il traffico internazionale di stupefacenti è descritto come un «cancro che corrode la stabilità, la governabilità e la sicurezza» dei paesi che ne sono affetti; il «peggior flagello che ha colpito la Colombia», oppure, per citare l’attuale presidente Ivan Duque, «un predatore dell’ambiente, un distruttore di istituzioni, un corruttore sociale», che il governo ha «il dovere morale» di combattere.
Le immagini del “cancro”, del “flagello” e, soprattutto, del “predatore da combattere” veicolano una rappresentazione del narcotraffico come qualcosa di patologico che danneggia la struttura statale o, ancora, come un nemico esterno che si scaglia contro lo stato. In questo schema logico, che è alla base di un approccio militarista al problema delle droghe, si delinea una divisione implicita fra i “buoni” e i “cattivi”: da una parte i narcos, potenti figure, allo stesso tempo temibili e affascinanti, capaci di mettere in ginocchio un’intera nazione; dall’altra i membri non corrotti delle istituzioni, le forze dell’ordine e le agenzie internazionali, che combattono strenuamente, benché con scarso successo, i trafficanti.
Per quanto diffuso, questo modo di concettualizzare il fenomeno del narcotraffico è fuorviante. Nella prospettiva che qui intendiamo adottare, esso non sarà inteso soltanto come un imponente business illegale, ma come un’industria transnazionale (Emmerich 2015), che ha un elevato livello di ingerenza sulla sfera economica, sulla politica e sulla struttura sociale del contesto in cui si radica (Medina Gallego 2012) e che può essere compreso solo tenendo conto dei processi di consolidamento del capitalismo neoliberista in America Latina (Cabañas 2017).
Per quanto si tratti di un’attività illecita, le organizzazioni che controllano il traffico internazionale di droga non si pongono in una relazione di totale antagonismo rispetto allo stato. Al contrario, come evidenzia il politologo argentino Norberto Emmerich (2015), nei paesi latinoamericani, in cui diritto e sovranità sono radicalmente disgiunti, il narcotraffico è stato funzionale al consolidamento delle élite detentrici del potere, sia grazie all’immissione degli ingenti profitti nell’economia legale, sia attraverso le innumerevoli alleanze fra figure istituzionali e narcos intorno a questioni di comune interesse. Quest’ultimo punto ha particolare rilevanza nel caso colombiano: come cercheremo di dimostrare nelle prossime pagine, le forze governative, in più occasioni, hanno stretto rapporti di collaborazione con narcotrafficanti e paramilitari per combattere il nemico comune (le forze guerrigliere) e per tenere sotto controllo il dissenso sociale.
In Colombia uno degli ambiti privilegiati di investimento dei “narcocapitali” è stato quello fondiario: il conflitto e i fenomeni di desplazamiento, uniti a una legislazione scarsamente tutelante per le popolazioni locali, hanno permesso a paramilitari e narcos di accumulare vasti terreni che in passato non erano accessibili al mercato (McSweeney et al. 2017), creando così una narcoborghesia (Richani 2013) di stampo latifondista che ha avuto un impatto devastante sulle comunità contadine, indigene e afrocolombiane. Sul piano economico, con poche eccezioni, il riciclaggio di denaro sporco e il successivo reinvestimento degli attivi non ha favorito uno sviluppo economico strutturale e a lungo termine, ma si è piuttosto configurato come un generatore di nuove disuguaglianze.
Uno dei nodi spesso trascurati quando si analizza il fenomeno del narcotraffico è quello dell’impatto sociale della guerra che contro di esso si è scagliata. In questa lunga lotta, gli Stati Uniti sono stati i principali protagonisti. Autori come Villar e Cottel (2011), Emmerich (2015) e Tokatlian (1988; 2000; 2004, 2014) hanno sostenuto che la “war on drugs”, polemicamente ribattezzata da Michael Taussig “war for drugs” (2004), non ha avuto lo scopo di sradicare alla fonte la produzione della cocaina, ma ha perseguito piuttosto l’obiettivo strategico di mantenere il dominio egemonico statunitense sui paesi latinoamericani che ancora gravitano nell’orbita d’influenza di questa superpotenza mondiale.
Durante l’amminis...