Una città per tutti
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Una città per tutti

Diritti, spazi, cittadinanza

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Una città per tutti

Diritti, spazi, cittadinanza

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La questione del «diritto alla città», per richiamare il titolo di un famoso libro di Henri Lefebvre, pubblicato nel 1968 e tornato negli ultimi anni alla ribalta, è centrale in un'epoca come quella attuale in cui le megalopoli mettono sempre più sotto i nostri occhi la difficoltà, per i progettisti e la classe politica, di governare la natura complessa e mobile della dimensione urbana contemporanea. I temi sollevati da quella riflessione tornano con forza oggi: la dispersione della città sul territorio, i meccanismi di esplosione della dimensione urbana verso un «fuori» e di implosione al suo interno. Riflettere sul diritto alla città oggi vuol dire dunque affrontare nodi cruciali come quelli del rapporto centro-periferia, della gentrificazione dei quartieri storici, delle diseguaglianze spaziali e sociali, dei conflitti, della mobilità difficile, dell'aumento del controllo sociale, del consumo di suolo e degli squilibri ambientali. Attraverso una pluralità di interventi di architetti, urbanisti, sociologi, filosofi, il libro definisce i contorni della città contemporanea, quella che si è ormai lasciata alle spalle la città moderna del Novecento. Proporre una visione multidisciplinare sulle culture della megalopoli, sui nuovi territori urbanizzati, sul rapporto tra spazio, società e progetto, che individui nell'inclusione, nella libertà di movimento, nel superamento dei confini, anche interni, i tratti di una configurazione urbana aperta, significa assegnare all'espressione «diritto alla città» anche una valenza di slogan politico. Significa altresì non rinunciare alla progettualità, a un disegno di città che regoli le spinte individualistiche e le logiche da laissez faire. Partecipazione democratica, cittadinanza attiva e nuove forme dell'abitare sono alcuni dei nuclei strategici intorno ai quali avanzare ipotesi per future politiche, per tendere a un'idea di città che sia inclusiva, per tutti e ciascuno.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855220620

Parte quarta

Roma, capitale debole

I. Com’è bella la città

di Fabrizio Toppetti
Vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna?
Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città.
Com’è bella la città
Com’è grande la città
Com’è viva la città
Com’è allegra la città.
Giorgio Gaber

1. Vita di paese.

Sono nato in un paese1. Forse per questa ragione la città, per me, è sempre stata soprattutto un’aspirazione.
Alla fine degli anni settanta, quelli della mia adolescenza, i rumori della città arrivavano ovattati, così come i segnali delle lotte politiche, delle contestazioni, del terrorismo. Un amico conservava un sanpietrino regalato al padre da un rappresentante di profumi, si diceva che fosse macchiato di sangue e provenisse dagli scontri di Bologna del 1977; l’assassinio di Moro l’abbiamo vissuto boicottando il corteo funebre improvvisato dalla sezione locale della Democrazia cristiana; i dischi li compravamo per corrispondenza; le spedizioni a Roma si limitavano a qualche raro concerto al Tendastrisce e all’acquisto delle mitiche camicie usate di via Sannio.
C’era il Bar Centrale frequentato dalla sinistra e c’era il bar Duomo frequentato dalla destra. Qualcuno girava con «Lotta Continua» in tasca e sul fronte opposto si esibiva il «Secolo d’Italia». Questo non impediva che parentele e amicizie d’infanzia si sovrapponessero e si ponessero trasversalmente rispetto agli schieramenti, ostentatamente rispettati in pubblico e affettuosamente traditi o semplicemente superati nel privato.
C’erano la stagione teatrale e quella concertistica del teatro comunale alle quali ci si abbonava, sempre e comunque, in modo da avere un pretesto per uscire di casa la sera nei giorni infrasettimanali.
C’era stato alla fine degli anni sessanta, di passaggio, un leggendario professore di lettere che aveva insegnato qualche anno al liceo classico Jacopone da Todi, per poi approdare all’Università di Trieste. Si chiamava Franco Serpa, di lui si diceva che avesse conosciuto Igor Stravinsky e Greta Garbo oltre, naturalmente, alla «Divina» Maria Callas. Personalmente ho avuto il piacere di incontrarlo solo molti anni dopo a Roma, nella sua casa di viale Liegi, in un palazzo disegnato dal primo Piacentini. Serpa, poi divenuto latinista, musicologo e germanista di chiara fama, per noi che eravamo arrivati al liceo qualche anno più tardi (per la verità io avevo scelto à rebours di fare lo scientifico ma in fondo non cambiava molto) era una figura mitologica: in paese si parlava ancora dei suoi seguaci, alcuni dei quali hanno fatto fatica a trovare un’altra collocazione e sono rimasti tali. Naturalmente la componente perbenista – della quale per estrazione familiare in un modo o nell’altro facevo parte anche io – ne aveva stigmatizzato i comportamenti che noi difendevamo per principio facendo ricorso ai versi di Claudio Lolli2. Tra i suoi allievi illustri si annovera la poetessa Patrizia Cavalli oltre ad alcuni professori che insegnavano al liceo. Ce n’era uno in particolare che noi seguivamo nelle passeggiate notturne preferibilmente invernali e nebbiose, alla maniera dell’Attimo fuggente3, o nei pomeriggi durante i quali si ascoltava l’opera e persino nelle trasferte, tra le quali ricordo la spedizione del 1981 a Praga (ancora magica e martoriata) che affrontammo fieramente con il libro di Ripellino (1973) tra le mani.
Nelle campagne tuderti c’erano anche Piero Dorazio, che da Roma si era trasferito in un eremo camaldolese nei pressi di Canonica, e Beverly Pepper, che aveva scelto come residenza il castello di Torre Olivola. Artisti che ho cominciato a frequentare appena ho potuto, insieme a tutti coloro che mi sembrava facessero qualcosa di interessante e alternativo.
La vita del paese trovava la propria rappresentazione simbolica nella piazza principale – una delle più belle d’Italia, si ripeteva campanilisticamente, anche se a ragione –, gran teatro attivo dello scorrere degli eventi. In piazza ricordo, in ordine sparso, i comizi del Primo maggio affollati di contadini in sella ai trattori; uno scontro tra il parroco, che pretendeva di chiudere l’anello del percorso processionale con la Madonna del Campione in testa, e il pubblico inebriato e scomposto di un concerto di Umbria Jazz; le polemiche sull’esposizione en plein air di quattro imponenti colonne in acciaio corten della Pepper nell’estate del 1979, le stesse che rimontate oggi a distanza di quarant’anni fanno tutt’altro effetto. Ricordo anche il silenzio all’uscita dei funerali.
La piazza, a Todi, per conformazione morfologica è un fatto urbano capace di straordinaria sintesi, è realmente lo spazio pubblico per eccellenza, il luogo della partecipazione alla vita associativa e della sua messa in scena. Le strade principali convergono nell’invaso centrale, ma soprattutto il grande vuoto non appartiene a nessuno dei rioni che si attestano sul limite delle facciate degli edifici che la conformano. Come ci ricordano gli Statuti medievali, la piazza era circondata da porte le cui tracce sono ancora ben evidenti: ciò significa, e non è di poco conto, che per entrarvi era necessario uscire dal proprio rione e viceversa, e questa è probabilmente la ragione per la quale tutti i tuderti (anche coloro che abitano extra moenia) si sentono ancora oggi pienamente rappresentati da questo luogo maestoso e familiare, sebbene anche un po’ borghese4, che amano, frequentano o disertano scientemente e con cognizione.
Todi, lo si diceva già allora, è una cittadina nella quale si vive bene. Qualche anno dopo sono arrivati anche i risultati di una ricerca americana a confortare le valutazioni empiriche degli abitanti più affezionati. Per la verità gli studi ai quali ci si riferisce, condotti da Richard S. Levine – un docente dell’Università di Lexington nel Kentucky approdato nelle campagne tuderti alla fine degli anni ottanta – erano assai superficiali, avevano più capacità di penetrazione mediatica che consistenza scientifica, e giungevano alla conclusione, generica quanto scontata, che Todi poteva essere presa come modello di città sostenibile.
Nonostante tutto questo, e nonostante ciò che ho omesso per amore della sintesi, ad alcuni di noi questa realtà andava stretta già dai primi anni dell’adolescenza quando, ciascuno a suo modo, hanno cominciato a immaginare altrove, e dunque a costruire, il proprio progetto di futuro.
Personalmente ero fortemente determinato a trasferirmi a Roma, ed è ciò che ho fatto.

2. Intermezzo.

In fondo sapevo che tutto – i libri che leggevo, le avanguardie storiche, la modernità in genere – era nato nelle città, a partire dalla Parigi di fine Ottocento. Invece la provincia – l’Umbria francescana del radicamento e delle tradizioni popolar-medievali in particolare –, per motivi facilmente intuibili, aveva attraversato la prima metà del Novecento senza accorgersi affatto di quella meravigliosa profezia etica ed estetica che aveva preso corpo all’inizio del secolo, rimanendo sostanzialmente inalterata. Mentre le grandi città, straordinarie concentrazioni di pensiero e di azione, sperimentavano una stagione di fermento culturale nella quale si andavano affermando con pienezza le linee del grande progetto moderno, le aree rurali erano rimaste, come era naturale, completamente tagliate fuori. I ritmi temporali si erano rapidamente divaricati: al cambiamento e alla velocità si opponeva l’inerzia e la lentezza, e solo dopo il boom economico si iniziavano ad avvertire le prime avvisaglie di quella modernizzazione che raggiungeva con fatica le realtà marginali.
D’altra parte il fenomeno della modernità per natura intrinseca è eminentemente urbano, esso afferma con forza il primato della città sulla campagna e quello che allora arrivava a noi era, o semplicemente così ci appariva, un riverbero sfocato. Dunque era necessario raggiungere fisicamente la città, abitarla, tuffarsi nel suo corpo vivo.
Le aspettative erano alte e il primo impatto non è stato facile. Non era chiaro cosa avrei trovato ma sapevo cosa mi mancava: prima di tutto l’offerta culturale rispetto alla quale le attese erano altissime, poi naturalmente mi mancava l’aria e dunque quella dimensione della «città moderna», ben raccontata da Baudelaire e poi da Benjamin, capace di garantire diritti fondamentali, in primo luogo autonomia e anonimato.

3. Vita di città.

Avevo una Renault 4 ma durante tutto il primo anno ho sempre preso il treno. La domenica sera raggiungevo Terni con il trenino della ferrovia centrale umbra e poi Roma con il rapido che veniva da Ancona delle 18:40. Era pieno di militari di leva e si stentava a viaggiare anche in piedi. In città mi spostavo con difficoltà e ho capito subito che il diritto alla mobilità era una chimera.
Roma all’inizio del 1980 era bella e piena di speranze, usciva dalla stagione durissima degli anni di piombo e Renato Nicolini aveva già da qualche anno lanciato l’«Estate romana»: una straordinaria invenzione capace di tenere insieme cultura alta e cultura popolare, avanguardie e tradizione, in una logica che metteva al centro per la prima volta il desiderio collettivo e il consumo di massa. Ho fatto appena in tempo a cogliere questo momento di grazia, del quale ricordo personalmente la festa di fine anno il 31 dicembre del 1982 dentro il traforo Umberto I. «Paese Sera» il 2 gennaio successivo titolava: Tunnel l’appuntamento più riuscito e ancora Brutto e sporco? Sì, ma dopo la festa la gente comincia a volergli bene5. Il «meraviglioso urbano» aveva trovato un momento di sintesi sublime e perturbante con lo spazio ordinario dell’attraversamento quotidiano, altrettanto efficace rispetto alla meritoria riscoperta dei luoghi della storia e dell’archeologia classica riaperti al pubblico, Massenzio in primis.
Da studente fuorisede comprendere questa fenomenologia postmoderna, complessa e sfuggente, non era immediato. Così come non era semplice penetrare nuovi mondi rispetto ai quali mi sentivo inizialmente uno spettatore. L’anonimato rischiava di essere l’unico diritto conquistato con la trasferta. Una magra consolazione perché se è vero che mi sentivo finalmente fuori «dallo sguardo invadente, intrusivo, benthamiano» (Bianchetti 2016, p. 57), ovvero dalla sorveglianza della cerchia ristretta di una comunità di provincia, questo essere soli nella dimensione metropolitana implicava necessariamente il rimanere nascosti. Era a quel punto un mantenere il silenzio che – prendendo a prestito le categorie utilizzate da Cristina Bianchetti (ibid.) – aveva il significato ambivalente di sottrarsi al potere totalitario del giudizio collettivo rifugiandosi nello spazio dell’intimité e al contempo perdere il diritto alla extimité ovvero a mettere in luce una parte della propria vita privata, cosa alla quale ero di necessità abituato.
In tutto questo all’estraneo che nel caso di specie ero io, in quella città bella e impossibile, esclusiva ed escludente, sembrava negato di fatto il diritto principale, quello che apre la strada a tutti gli altri: il diritto all’accessibilità.
D’altra parte Roma, che cominciavo a studiare leggendo Italo Insolera e Ludovico Quaroni, allora era una metropoli piccola e a suo modo provinciale, una città che per motivi storici ben noti – dalla presenza dello Stato del Vaticano all’investitura tardiva (come tardiva è stata l’Unità d’Italia) del rango di città capitale – aveva attraversato la prima stagione della modernità con la sola preoccupazione di crescere, in un modo o nell’altro, e mancava totalmente di un’infrastrutturazione adeguata e soprattutto di una coscienza civile sedimentata come lo era quella delle grandi città europee.
Per queste e altre ragioni, strutturali e personali, nei primi anni ho goduto di una condizione di sospensione, comune a coloro che si spostano, ovvero del non sentirmi a casa né da una parte né dall’altra e simmetricamente riconoscermi un po’ in tutte e due le realtà.
A Roma approfittando della mia condizione di studente del primo anno, libero dagli impegni pressanti che oggi il semestre impone ai nostri allievi, ho sperimentato la dimensione fertile e generativa dell’erranza, imponendomi derive psico-geografiche nelle terrae incognitae della città sulla quale disegnavo traiettorie personali talvolta a tema, più spesso senza programma e senza meta. Osservavo, e ascoltavo i ritmi e il cuore della città (Savinio 1984). Allora non sapevo che oltre Baudelaire ove il flâneur è ancora una figura letteraria, avrei incontrato Benjamin, Simmel e Kracauer con i quali la flânerie si avvia a diventare un vero e proprio metodo sociologico, e ancora Debord e infine Lefebvre, figura con la quale il camminare in città si afferma come metodo di analisi, «si carica anche di una valenza più politica, e diviene un fondamento del diritto alla città» (Carrera 2018, p. 3).
Col tempo, man mano che si aprivano varchi, il corpo duro apparentemente monolitico dell’urbs si disgregava e contemporaneamente prendevo atto della conformazione molecolare della civitas capitolina, dell’abitare in piccole cerchie sovrapposte, giustapposte, imbricate le une con le altre; di una struttura apparentemente orizzontale eppure stratificata per layers indipendenti e ben gerarchizzati. L’impressione che ho avuto, almeno dalla seconda metà degli anni ottanta, era quella di una realtà ove il legame tra polis e democrazia era saltato del tutto, nella quale i gruppi sociali si muovevano perseguendo linee di indirizzo condivise esclusivamente al loro interno. Da Visconti a Pasolini a Fellini a Scola, attraversando Moretti, è facile arrivare al ritratto contemporaneo di Sorrentino.
Nel 1985, con il tramonto delle giunte di sinistra, la città era entrata di nuovo in un tunnel. La stagione delle speranze si era già chiusa simbolicamente il 13 giugno dell’anno precedente, quando due milioni di persone parteciparono al funerale di Enrico Berlinguer in via dei Fori Imperiali: io c’ero, è stata la prima volta nella quale mi sono sentito, seppure ancora in una zona d’ombra, parte del tutto. Mi è parso finalmente chiaro che «accedere alla visibilità è una rivendicazione» necessaria «perché il diritto a essere visibili equivale alla possibilità di prendere parola e di essere ascoltati, dunque di diventare soggetti politici» (Catucci 2018, p. 7). Ragione per la quale mi piace pensare che quella data abbia coinciso anche con l’avvio di un processo di acquisizione e consapevolezza di un mio personale diritto alla città.
Oggi Roma – se è vero che «le città sono di chi le ama»6 – è anche un po’ mia. Ho abitato vari quartieri, ho vissuto e attraversato buona parte dei territori metropolitani. All’Esquilino ho visto nascere l’Orchestra di Piazza Vittorio capace di ricostruire un’identità, necessariamente instabile e mutevole, e direi anche la dignità, di un quartiere che è la bandiera della multiculturalità romana; a Centocelle nei pressi del capolinea del 19 ho visto crescere realtà importanti come il Forte Prenestino; a Torpignattara, e siamo oltre la gentrificazione del Pigneto, ho toccato con mano il calvario di coloro che affrontano quotidianamente un’altra vita7 e – privi di diritti – vivono nell’incertezza, nella paura e nella precarietà.

3. Spazi di vita.

A pensarci dopo oltre sette lustri di vita romana, con Todi sempre là, perché un paese ci vuole8, e a cinquant’anni suonati dalla prima edizione del libro di Lefebvre, è difficile conferire sostanza (non solo di cose sperate) a un diritto che da un lato ci appare scontato, dall’altro continua a sfuggirci perché domanda contenuti sempre nuovi, al passo con i tempi. D’altra parte quella distanza che si avvertiva allora si è sensibilmente ridotta: la dimensione urbana, che è pervasiva e totalizzante, ci raggiunge ovunque relativizzando le differenze, in primo luogo il plusvalore della città come fenomeno fisicamente definito e attrattore primario. Oggi sentirsi al centro è uno status indipendente dalla prossimità spaziale, è piuttosto funzione dell’appartenenza alle reti che contano.
Contemporaneamente, l’attenzione si è spostata sul tema della riconquista di una dignità dell’abitare e su un welfare che non è in grado di rispondere creativamente ai bisogni delle persone, questioni che, unite all’emergenza ecol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione. Progetto della città e democrazia urbana di Alessandra Criconia
  6. Parte prima. Attualità di uno slogan
  7. Parte seconda. La città accessibile
  8. Parte terza. Abitare domani
  9. Parte quarta. Roma, capitale debole
  10. Bibliografia
  11. Gli autori