Città fai-da-te
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Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana

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Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana

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«Il movimento di riappropriazione di luoghi e spazi della città non è solo una presa di "possesso", ma un re-immettere nel ciclo di vita della città spazi e luoghi abbandonati, inutilizzati, sottoutilizzati, degradati, potenzialmente interessanti, per rispondere a esigenze sociali diffuse, sviluppando un'idea di città e un modello di convivenza che si pongono come alternativi alla città del consumo, soggetta alle pressioni prevalenti del mercato e degli interessi economici».Le città sono attraversate da processi di riappropriazione, da forme diffuse di autorganizzazione, da attività e iniziative autogestite, da nuove pratiche di convivenza, da movimenti che cercano di costruire una diversa e nuova idea di città. Si tratta di un vasto fermento che interessa, anche se in modi molto diversificati, tutte le città del mondo. Dagli orti condivisi alle aree verdi autogestite, dalle occupazioni a scopo abitativo alle fabbriche recuperate, dai luoghi di produzione culturale riattivati ai tanti servizi autoprodotti sui territori, alle mille iniziative del protagonismo sociale e della progettualità diffusa, tutte queste esperienze e tutte queste pratiche non sono solo forme di riconquista degli spazi ma anche processi che conferiscono nuovo significato ai luoghi. Sono espressione della vitalità dei territori e degli abitanti, organizzati o meno; sono laboratori sociali, culturali e politici. Da semplici forme di resistenza sono diventate azioni diffuse che producono concretamente la città, mettendo in discussione il modello neoliberista che sembra strangolarle. Lungi da un romanticismo dell'autogestione, sono anche esperienze cariche di ambiguità, oltre che di difficoltà, frutto come sono dell'arretramento del welfare state e dell'abbandono dei territori da parte della politica e delle istituzioni. Sono qui in discussione «culture di pubblico» differenti. Roma, da questo punto di vista, ha forse qualcosa da dire al mondo, nonostante sia diffusamente considerata una città in difficoltà. «Città fai-da-te» per eccellenza, la capitale rivela energie importanti, che non sempre vengono riconosciute e valorizzate, in risposta a una necessità concreta e a esigenze sociali che non trovano soddisfazione, ma che sono anche espressione di creatività, capacità di azione, desiderio di costruire un futuro, possibilmente diverso. A partire da un viaggio attraverso una molteplicità di pratiche e di esperienze urbane, attraverso le loro difficoltà, il loro impegno, le loro passioni, ma anche in alcuni casi le loro ambiguità, il libro vuole restituire una riflessione di più ampio respiro che dialoga con i processi globali. Qui si ridiscute l'idea di pubblico, si ripensano le istituzioni, si costruisce concretamente un'idea diversa di città e di convivenza. Questi sono i luoghi dove avviene oggi la produzione di cultura politica.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855220521
Categoria
Sociology

II. Esperienze di autorganizzazione

Roma è una città dove certo non mancano esperienze di autorganizzazione. La città ne è costellata. Se storicamente ne è stata sempre interessata, oggi se ne registra una proliferazione. Cosa è successo? Nel passato erano forse i centri sociali1 a rappresentare le esperienze più significative, con un chiaro intento antagonista e controculturale, mentre ora le forme di autorganizzazione e di autogestione attraversano la città in tutti i sensi, e si radicano in «culture di pubblico» spesso diverse tra loro. In realtà, anche in passato la città è stata caratterizzata da pratiche e processi di autogestione, legati soprattutto al problema della casa. La vicenda dei borghetti e dei baraccati, la questione dell’abusivismo, le lotte per la casa e le prime esperienze di occupazione, anche da parte dei migranti2, hanno costituito processi fondamentali di costruzione della città e uno, forse il principale, dei principali fattori identitari di Roma. Ancora oggi, con la moltiplicazione delle occupazioni a scopo abitativo e il disastroso corollario di sgomberi, il problema della casa e l’emergenza abitativa – cui si connette la riflessione sul «diritto alla città» e, più ampiamente, sul «diritto all’abitare» – rappresentano un elemento profondamente caratterizzante la città di Roma, nonché l’emblema delle difficoltà e delle precarietà che la attraversano. Le occupazioni a scopo abitativo sono state forse la madre di molte altre esperienze, di occupazione, di autocostruzione, di autoproduzione di servizi, di autogestione di spazi verdi e spazi pubblici ecc., che si sono moltiplicate e si sono diversificate nella città: dalle aree verdi autogestite agli orti urbani3, dalle fabbriche recuperate ai luoghi di produzione culturale occupati e autogestiti, dai centri sociali che si trasformano in «università» alle «libere repubbliche», dalle biblioteche autogestite alle palestre e ai servizi sportivi autorganizzati, dalle ludoteche attivate da gruppi di madri che occupano spazi abbandonati ai mercati rionali sottoutilizzati trasformati in centri polifunzionali. La casistica si potrebbe notevolmente allungare4.
Chiaramente, la maggior parte di queste esperienze è rigorosamente illegale, ma qui bisognerebbe discutere cosa è illegale. Per esempio, ci si potrebbe interrogare se è più «illegale» l’amministrazione che non porta i servizi, non svolge i propri compiti e abbandona i territori a sé stessi o le occupazioni a scopo abitativo che cercano di dare una risposta concreta al problema della casa o ancora le forme autogestite di servizi che offrono opportunità a livello locale (anche, ad esempio, le biblioteche pubbliche) lì dove non ci sono quelle pubbliche.
Sta di fatto che Roma è appunto una «città autoprodotta» (S.M.U.R. 2014). In questa dinamica rende esplicito ciò che normalmente viene tenuto nascosto, rende tangibili le pratiche e la capacità di autoproduzione che la modernizzazione e l’istituzionalizzazione della produzione dello spazio hanno teso ad addomesticare e a soffocare nel corso degli ultimi due secoli di modernità. A Roma questo emerge perché tradizionalmente le istituzioni sono sempre state deboli, si è vissuto di compromessi al ribasso tra le forze politiche e sociali e gli interessi economici, e il malgoverno della città ha accumulato problemi che gli abitanti devono ora gestire da soli5. Tale situazione, come si è detto, si è esponenzialmente e progressivamente aggravata a fronte del venir meno del welfare state che, sui territori, si traduce in una distanza e in un’assenza della politica e delle istituzioni. Lasciata a sé stessa, la città si autorganizza. Questa situazione genera una varietà di posizioni ed esperienze e quindi anche certe ambiguità. Alcune esperienze sono fortemente caratterizzate dal punto di vista politico e della visione della città, in altre prevale la dimensione della necessità, altre ancora aprono all’emergere di logiche privatistiche6.
L’esperienza del Teatro Valle Occupato, che ha segnato così fortemente il recente passato di Roma e ha avuto un grande riverbero nazionale e internazionale, rappresenta un passaggio fondamentale nel percorso di strutturazione ed emersione della forza politica e culturale delle forme di autorganizzazione. Non è stata la prima esperienza che ha occupato e reso fruibile uno spazio destinato ad attività culturali rendendolo non solo un luogo di fruizione culturale ma anche di produzione culturale, spesso sottraendolo a obiettivi di speculazione immobiliare. Già il Nuovo Cinema Palazzo a San Lorenzo aveva aperto questa strada e tuttora è un luogo di riferimento per la città7. Nato per richiamare l’attenzione sulla situazione dei lavoratori della cultura e dello spettacolo e per sollevare il problema del più antico teatro di Roma ancora attivo che stava per essere destinato all’ennesima operazione speculativa, il Teatro Valle Occupato ha saputo agganciare e sviluppare una riflessione profonda sui temi dei beni comuni a partire dai lavori della Commissione Rodotà, ha saputo coinvolgere intellettuali, ricercatori, studiosi, personalità autorevoli italiane e straniere, ha posto radicalmente la questione della trasformazione della cultura in merce, ha saputo parlare a tutta la città e fuori della città8, è stato in grado di sollevare una riflessione culturale e politica a livello internazionale di ripensamento delle istituzioni e del ruolo della proprietà, con importantissimi riconoscimenti. Si è trattato di una stagione estremamente vitale e importante9. Da qui si è sviluppato il ben noto dibattito sui beni comuni. Le battaglie sul ripensamento delle istituzioni, il percorso difficile (anche internamente) per costruirne di innovative e le resistenze e le dure opposizioni esterne che ne sono derivate hanno determinato l’interruzione prematura dell’esperienza.
Le pratiche di autorganizzazione sono comunque proliferate negli anni e attualmente Roma è, da questo punto di vista, un laboratorio politico, sociale e culturale. Sebbene oggi si cerchi per lo più di riportare la questione a un problema di ordine pubblico e di ridurla nell’immaginario collettivo a un comportamento abusivo e illegale a soli fini di interessi privati10, la questione «scappa» da tutte le parti e non si riesce a tenere. Le esperienze di autorganizzazione si moltiplicano. Impossibile raccontarle tutte11.

1. Spazi verdi autogestiti.

Gli spazi verdi sono i luoghi dove probabilmente sono più diffusi i fenomeni di riappropriazione e di autogestione. Vi si praticano le forme più disparate di autorganizzazione, che si estendono spesso a interi quartieri. È un terreno dove si registra fortemente una dimensione della città «fai-da-te». In questi contesti emergono allo stesso tempo aspetti molto diversi: 1) l’incompletezza della città e un abitare che rimane sempre inadeguato, mai pienamente di qualità; 2) l’assenza e l’inadeguatezza delle istituzioni, che si sono stabilizzate spesso (almeno a Roma) sull’accettazione di una città a livelli inaccettabili, sempre parziale, sempre inadatta; 3) una funzione, che spesso si rivela totalmente supplente delle carenze dell’amministrazione pubblica, da parte delle mobilitazioni civiche locali; 4) situazioni di creatività e di cura dei luoghi, con una capacità di autorganizzazione e un investimento di energie umane e sociali impressionante, se non spropositato. Tale è l’investimento di energie, che diventano spesso i luoghi di maggiore «attaccamento», più tutelati, per i quali gli abitanti sarebbero disposti alle battaglie più accese. Essi assumono quindi un grandissimo valore simbolico. Si tratta il più delle volte dei luoghi di maggiore qualità dei quartieri e della città; dove viene da pensare che, se la gestione pubblica fosse affidata a queste realtà autorganizzate, la qualità urbana complessiva sarebbe sicuramente superiore.
Numerosissimi potrebbero essere gli esempi. Nella periferia nord di Roma, a Serpentara, che tutto sembra meno che un quartiere di edilizia economica e popolare, la parziale proprietà pubblica dei territori, la compresenza di edilizia agevolata e convenzionata, e altri aspetti urbanistici hanno determinato le condizioni per realizzare un quartiere «qualificato». La geometria astratta dell’edificato e la prevalente presenza di torri ed edifici alti, in omaggio a una cultura della modernizzazione (combinata con la necessità comunque di forme di economicità nell’edificazione), hanno determinato uno spazio un po’ straniante, all’interno del quale non è chiaro quali siano i luoghi di incontro, salvo che in una via laterale dove si concentrano i negozi. Dentro questo tipo di spazio le aree verdi per converso sono più che abbondanti, per lo più gestite dal locale comitato. Si tratta sia di aree pubbliche, ma date in gestione localmente, sia di proprietà privata, ma «occupate» e autogestite dal comitato; occupazione che non induce una particolare reazione della proprietà, essendo un’area non edificabile e che altrimenti sarebbe semplicemente un terreno incolto e abbandonato. In entrambi i casi si tratta di aree ben attrezzate e servite, con una manutenzione molto organizzata. Sono luoghi indubbiamente di alta qualità e sono motivo d’orgoglio per il comitato locale. Si rafforza così la sensazione di straniamento, soprattutto nel rapporto tra cosa considerare pubblico e cosa considerare di qualità: un quartiere di edilizia economica e popolare «aspirante borghese», dove «pubblico» è ciò di cui ci si è «appropriati» ed è ben gestito in autonomia.
Una conseguenza di queste dinamiche è che i comitati cominciano a occuparsi di tutto quello di cui ha bisogno un quartiere, confinando o sconfinando in ciò che è un centro di servizi o un’amministrazione pubblica sostitutiva. Ci sono così territori che hanno un governo locale che non è (o non sembra essere) l’amministrazione pubblica. Serpentara è uno di questi; ma tutto ciò è ancora più evidente in contesti come il Mandrione-Casilina Vecchia o Tor Fiscale, su cui torneremo a breve.

Il «giardino di Castruccio»

Altri contesti sono più problematici. Al «giardino di Castruccio», in via Castruccio Castracani al Pigneto, la situazione è completamente diversa. Scovarlo non è una cosa banale. Si trova all’interno dell’edificato, dietro una palazzina moderna che ha veramente ben poco a che fare con il tessuto trasandato e un po’ popolano dell’edilizia originariamente abusiva del quartiere Pigneto, in un contesto notoriamente e ormai falsamente pasoliniano, preda oggi (anche per questo) della movida notturna e di un profondo processo di gentrification.
Nonostante questa dinamica in atto, risulta difficile vivere in un quartiere così se si è una famiglia con bambini, poiché non vi sono aree attrezzate o spazi verdi12. Mancano gli spazi per giocare, e anche giocare per strada è un problema non indifferente.
Il fazzoletto verde del «giardino di Castruccio» è l’emblema di un’amministrazione che non governa. Si tratta di un’«urbanizzazione primaria» realizzata dal costruttore della palazzina come compensazione degli oneri di concessione. Potenzialmente è una buona idea, salvo che per accedere a quest’area di verde pubblico bisogna attraversare la palazzina. Il Servizio Giardini non ne vuole sapere di gestirla e così, nel tempo, viene abbandonata a sé stessa, fino a che un gruppo di genitori, con il supporto di alcune giovani architette, a fronte di questa così grave carenza per le esigenze dei propri figli, si prende in carico il giardino e lo rende fruibile.
Per poterci entrare bisogna così aspettare l’uscita dalle scuole, nel pomeriggio. Sono i genitori dei bambini, infatti, che hanno le chiavi di questo spazio (che quindi, alla fine, non è pienamente fruibile da tutti): situazione veramente paradossale, tipica di questa città. Nonostante le difficoltà, il gruppo è anche impegnato in progetti interessanti – coltivare la terra, insegnare ai bambini i cicli delle stagioni (i cicli naturali) e i ritmi delle piante (i ritmi della vita), oltre a garantire ai piccoli la possibilità di giocare in qualcosa che sembra verde. Il tutto in uno spazio infinitesimale, forse – a dir tanto – 14-15 metri di larghezza per 6-8 metri di profondità, incastrato tra edifici.
Superata la barriera della palazzina, si apre uno scenario surreale: un microcosmo del verde, con i giochi per bambini, un’altalena di corda autocostruita, un angoletto dove sono state collocate alcune piantine per vederle crescere, uno spazio con i rampicanti che si spera vada a coprire un orribile muro di chiusura, una siepe e una panchina per cercare di rendere questo posto comodo e piacevole. I bambini, che non sono tanti, con alcuni genitori presenti determinano una curiosa condizione di pseudo-affollamento.
La situazione risulta ancora più paradossale se si tiene conto delle difficoltà e dei conflitti in cui si dibatte il gruppo e che riflette il microcosmo in cui vive quotidianamente: il Comune ha concesso l’area in cambio della sua manutenzione gratuita (in poche parole, l’ha scaricato facendolo anche un po’ pesare); il lungo e orribile muro che lo chiude sul fondo è di un ristorante (forse abusivo) che ha qui lo sfogo dei suoi impianti; su un altro fianco, a un metro da terra, si affaccia un finestrino che è di una microcasa ricavata nell’incastro degli edifici; il condominio è per lo più contro il giardino, perché i bambini (che non sono neanche della palazzina) disturbano. Il gruppo di genitori cerca di difendere la possibilità che i propri figli possano giocare in un’area (pseudo-)verde13.
Questo tipo di situazioni si crea anche perché ci troviamo in una condizione in cui le realtà locali devono contrattare con l’amministrazione pubblica la propria autonomia di gestione.
Ci possono essere aree verdi totalmente autocostruite e autogestite dove i comitati locali godono di grande autonomia, ma che possono essere continuamente soggette al rischio di sgombero e di abbattimento, a seconda delle pressioni della proprietà e di come l’amministrazione pubblica si dispone. Nel caso, ad esempio, di Saxa Rubra (Cellamare 2009), borgata alla periferia nord di Roma investita dalla realizzazione del Centro Rai, il locale comitato ha realizzato a spese proprie (e ha per lungo tempo manutenuto) una bella area verde con giochi per bambini all’interno di una zona in realtà di proprietà della Rai, anche se inutilizzata e inutilizzabile, fino a che l’amministrazione comunale, su pressione della proprietà, non ha proceduto allo sgombero (con tanto di ruspe) e addirittura alla confisca dei giochi per i bambini14.

Le difficoltà dell’interesse pubblico.

Il giardino di via dei Galli

Ci sono poi aree date in concessione dal Comune, che sono più sicure ma che sono soggette a un rapporto convenzionale con l’amministrazione. Quest’ultima si scarica di responsabilità e oneri, di cui si fanno carico invece comitati e associazioni locali.
In via dei Galli, nel quartiere San Lorenzo, prima periferia storica di Roma, anch’esso soggetto a processi di gentrification e luogo di movida notturna, ci troviamo in una situazione di questo tipo, ma con esiti più favorevoli – sebbene sempre difficili – di quanto non sia successo al «giardino di Castruccio». Anche in questo caso, in un contesto urbano dove gli spazi verdi e gli spazi liberi sono pressoché inesistenti, lo spazio è di fatto gestito dai genitori dei bambini che cercano di rispondere alle esigenze dei propri figli, svolgendo ancora una volta una funzione «supplente» delle carenze dell’amministrazione. Lo spazio – peraltro molto ben attrezzato e manutenuto, a dimostrazione delle importanti capacità organizzative e di gestione delle realtà locali – è quind...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Autorganizzazione e città contemporanea
  7. II. Esperienze di autorganizzazione
  8. III. Motivazioni
  9. IV. Fare città attraverso l’autorganizzazione
  10. V. Quale futuro?
  11. Bibliografia