Il paese dei maccheroni
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Il paese dei maccheroni

Storia sociale della pasta

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Storia sociale della pasta

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C'erano una volta i maccheroni, trascurati e negletti dai cuochi e dalla gente comune. A un certo punto, accadde qualcosa: una serie di convergenze inaspettate creò le magiche condizioni che permisero, a questo cibo poco valorizzato, di mostrare appieno le sue enormi e squisite potenzialità. Fu così che i poveri maccheroni assursero agli altari della gloria, per essere celebrati sulle tavole italiane e del mondo intero. Ma come è potuto accadere tutto ciò? Quali sono stati gli incastri della storia e del destino, quali gli orchi e quali invece le fate che hanno sancito il trionfo della pasta? Il volume – arricchito da un inserto a colori con immagini d'epoca – ci accompagna lungo questa storia affascinante. Tutto ebbe inizio quando quel semplice impasto di acqua e farina – uno dei composti più comuni dell'alimentazione fin dall'antichità – cominciò a svelare, nelle mani dei mastri pastai di Genova e Napoli, la ricchezza che racchiudeva, la straordinaria malleabilità, l'incredibile capacità di accompagnare i sughi e i condimenti più disparati, di zittire la fame e accendere il piacere; e tutto cambiò quando, fuori dall'ambito domestico e artigianale, i maccheroni si reinventarono come prodotto industriale urbano, imponendosi come «primo piatto» e come unico, autentico cibo nazionale, in grado di esportare l'italianità fuori dalla penisola. L'accurata ricerca di Alberto De Bernardi rivela curiosità e aneddoti di questa vicenda e mette in luce le profonde dinamiche storiche, economiche e culturali di una trasformazione del gusto che è stata anche e soprattutto una trasformazione sociale. La storia della pasta è la storia di un cibo identitario, però aperto al mondo, che invita a «mangiare italiano», ma al contempo attrae e accetta i condimenti e i sughi dei popoli e delle terre con cui entra in contatto; un cibo dunque che parla al mondo, ma che anche porta il mondo in Italia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855220569
Argomento
Histoire

II. La rivoluzione della pasta secca

1. Un cibo urbano.

Le fonti a nostra disposizione mettono in luce quanto l’affermazione della pasta nell’alimentazione partenopea traesse origine da complessi processi di natura strutturale, prima che culturali e mentali, che aumentarono la presenza di questo cibo nella dieta delle classi popolari, costrette a cercare nuove soluzioni alimentari per resistere al costante impoverimento. La pasta assunse i caratteri di un alimento sostitutivo, dunque, in grado di garantire la sopravvivenza dei ceti poveri della città, di fronte alla rarefazione delle risorse alimentari tradizionali per l’aumento delle bocche da sfamare, per le strozzature e i vincoli della produzione agraria e per l’inefficacia delle politiche annonarie dell’amministrazione spagnola, farraginose e controproducenti1.
Il fenomeno di penetrazione della pasta nell’alimentazione urbana, però, non riguardò solo Napoli, ma si verificò anche nelle altre città che avevano avuto un ruolo attivo nella produzione pastaria fin dal medioevo, e in particolare Genova, Palermo e Cagliari, che erano state nel XVI secolo le vere «capitali» della pasta. Come sappiamo, infatti, i siciliani erano mangiamaccheroni, soprattutto di virmicelli di simula, ben prima dei napoletani; Genova dal XV secolo aveva conosciuto lo sviluppo di una produzione artigianale di fidei, diffusa ben oltre i confini della Repubblica Serenissima, e la pasta di Cagliari aveva raggiunto una posizione di tutto rispetto nella geografia delle città che si contendevano il primato di questo ricercato prodotto alimentare.
In questo contesto Napoli si staglia tra le altre città per il carattere paradigmatico ed emblematico assunto dalla diffusione dei maccaruni nell’alimentazione popolare fin dalla seconda metà del Seicento, che affondava le sue radici nei caratteri specifici della capitale, spagnola prima e poi austriaca e borbonica: una città «abnorme» e unica nello spazio italiano e mediterraneo, nella quale i fenomeni che spinsero la popolazione urbana a scegliere la pasta come efficace difesa contro la fame assunsero qui dimensioni e profondità del tutto inusitate, fino a farla apparire il teatro di una eccezione, invece che un laboratorio dal quale analizzare un processo storico.
Come abbiamo segnalato in precedenza, tra i fattori strutturali che spinsero la crescita della domanda di un cibo ambivalente come la pasta – scorta e riempimento – occupa un posto di assoluto rilievo l’incremento demografico della popolazione italiana, che seguiva, seppure a ritmi meno intensi, le dinamiche che si stavano verificando in tutta Europa. Sebbene fossero le campagne a guidare l’aumento della popolazione, anche le città conobbero una crescita significativa del numero degli abitanti per lo meno a partire dalla fine del XVII secolo e con una più marcata intensità in quello successivo2.
L’aumento della popolazione urbana, sebbene non si configurasse ancora come fase iniziale del processo di urbanizzazione della popolazione che in Italia avrebbe preso le mosse solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo, segnalava però la capacità attrattiva dello spazio urbano nei confronti delle campagne che si veniva combinando con il miglioramento del bilancio naturale della popolazione: una crescente capacità della natalità di riempire i vuoti lasciati dalla mortalità anche di fronte alle sue manifestazioni più traumatiche, quantunque in presenza di una riduzione della fecondità delle popolazioni urbane3.
Le città, soprattutto dopo le gravissime ondate di peste del Seicento, si ripopolano in virtù di questa nuova fisionomia delle dinamiche demografiche nelle quali l’immigrazione dal contado veniva assumendo un peso sempre più marcato e corposo, che preannunciava il crescente ruolo che le città avrebbero assunto nella società contemporanea come ambito primario dell’insediamento umano.
La nuova mobilità demografica affondava le sue radici innanzitutto nel fatto che le condizioni di vita nelle città erano in genere migliori di quelle delle campagne perché i governi controllavano i prezzi dei beni alimentari e provvedevano a garantirne la presenza nei mercati: ma dipendeva anche dal moltiplicarsi di quelle funzioni di organizzazione economica, sociale, culturale, politica e amministrativa attribuite alle città nello Stato moderno, che richiedevano nuove risorse umane. Come è noto, questi fenomeni furono resi possibili dai maggiori surplus agricoli in grado di sostenere una più ampia quota di popolazione non addetta al settore primario4.
Questo fenomeno, però, non fu omogeneo in tutte le città italiane; in alcune fu più lento e quantitativamente modesto, in altre fu più intenso e potente; in particolare furono i porti e i centri amministrativi a conoscere la crescita demografica più brusca e tra essi si distinsero le capitali della pasta. Infatti la popolazione di Palermo e Messina crebbe a ritmi sostenuti per tutto il Cinquecento, passando complessivamente da 46000 abitanti a circa 220000 nel 1606, per poi conoscere a partire dal 1630, dopo la grande peste «manzoniana», una crescita molto più lenta che si intensificò solo agli inizi dell’Ottocento5. Una dinamica analoga si verificò a Genova, dove al grande balzo cinquecentesco seguì una lunga stagnazione demografica durata tutto il secolo successivo, e definitivamente superata solo nella prima metà dell’Ottocento6. Cagliari fu caratterizzata da processi demografici ancor più rilevanti perché non conobbe l’arretramento seicentesco proprio di quasi tutti i centri urbani italiani (figura 1).
In questo quadro la città di Napoli – già «mostruosamente» popolata durante il Cinquecento, come notò Woolf – emerge come un unicum. In essa, infatti, dopo la peste del 1656, che aprì una voragine demografica probabilmente senza precedenti, con perdite che si aggirarono tra la metà e i 2/3 della popolazione secondo le diverse stime7, si verificò una crescita degli abitanti vertiginosa, dovuta soprattutto ai flussi migratori provenienti dal contado e da tutto il regno: «intorno a 220 mila nel 1707 – è Lucio Gambi che scrive – al giungere dell’amministrazione austriaca; almeno 315 mila nel 1742, dopo lo stabilirvisi di quella borbonica; oltre i 400 già prima della chiusa del secolo»8. Infatti i calendari di corte, che costituiscono la principale fonte demografica d’epoca prestatistica, riportano la cifra di 435939 abitanti9.
Napoli, dunque, raddoppia la sua popolazione in un secolo, diventando la più grande città italiana e dell’intero Mediterraneo, ma soprattutto assumendo i connotati di uno spazio emblematico per cogliere appieno le dimensioni e i caratteri di quello snodo che a metà Seicento cambiò la storia della popolazione europea: nel giro di pochi decenni infatti si interruppe la lunga epoca di stabilità demografica iniziata a metà Trecento, nella quale, tra cadute e riprese, la popolazione del continente crebbe solo dello 0,8 per mille all’anno, e prese forma una fase nuova, nella quale la crescita demografica raggiunse soglie inusitate, toccando dalla seconda metà del secolo e per i due secoli successivi incrementi annui pari al 5,6 per mille10.
Figura 1. Incremento della popolazione italiana XIII-XIX secolo (milioni di abitanti).
Figura 1. Incremento della popolazione italiana XIII-XIX secolo (milioni di abitanti).
Fonte: A. Bellettini, La popolazione italiana dall’inizio dell’era volgare ai nostri giorni. Valutazioni e tendenze, in Storia d’Italia, V, I documenti, t. 1, Einaudi, Torino 1973, p. 499.
Napoli diventa dunque uno dei luoghi della rivoluzione demografica continentale, nella quale la crescita dei saldi naturali si combina con l’immigrazione dalle campagne e dalle periferie dello Stato, all’interno però di un contesto funzionale di una città che resta sostanzialmente parassitaria, a differenza di Londra e Parigi, le altre due grandi capitali europee con oltre mezzo milione di abitanti, che mentre crescono dal punto di vista del numero degli abitanti diventano centri propulsivi dello sviluppo economico.
Il parallelismo tra i ritmi della crescita demografica e quelli dell’affermazione della pasta secca nell’alimentazione delle popolazioni urbane, che nel caso emblematico di Napoli assunse la forma di una vera e propria rivoluzione della dieta attraverso la sostituzione della foglia con i maccaroni, rende plausibile collocare questo cambiamento alimentare tra i fattori materiali che hanno causato l’incremento della popolazione delle città italiane. Ma la plausibilità di questa affermazione chiama in causa la necessità di definire l’insieme dei processi che favorirono l’inserimento di questo cibo nei circuiti dei cambiamenti alimentari, fino a diventare un fattore propulsivo della crescita demografica.

2. Un prodotto alimentare nel mercato.

Le circostanze attraverso le quali la pasta, da cibo elitario presente nelle diete signorili, è diventata un cibo urbano sempre più diffuso, fino ad assumere un peso centrale nella dieta popolare, non sono semplici, perché l’assunzione di un alimento nei consumi primari di ceti poveri non risponde in prima istanza a questioni relative alle trasformazioni del gusto, né dipende da libere scelte soggettive, ma risponde a complesse valutazioni legate a un’economia domestica di mera sussistenza, chiamata a una lotta incessante con la fame e la miseria.
Mangiare vermicelli e maccheroni costituisce l’esito di un processo per molti aspetti simile a quello che riguardò l’affermazione della patata e del mais nell’alimentazione contadina dell’Europa continentale, laddove la scelta di affidarsi a questi nuovi cibi non dipese dall’esigenza di raggiungere una migliore e più equilibrata alimentazione, quanto piuttosto dalle necessità delle famiglie povere sia urbane che rurali di fare fronte ai pericoli di penuria in un’epoca di ricorrente instabilità alimentare11, attraverso un cambiamento alimentare radicale.
Ma le somiglianze si fermano qui perché nutrirsi in città dipendeva da una gamma di fattori molto più ampia di quella che presiede all’alimentazione rurale, dove al centro vi è, fin dentro il XX secolo, l’autoconsumo e l’autoproduzione della famiglia contadina nel suo rapporto diretto con la terra. Affinché queste due piante – la patata e il mais – entrassero nell’alimentazione fu sufficiente inserirle nelle ruote agrarie o nelle coltivazioni domestiche, superando le resistenze derivanti da consolidate abitudini alimentari per avviare il processo che le avrebbe trasformate in alimenti dominanti della dieta contadina in molte aree dell’Europa. Inoltre richiedevano elaborazioni culinarie elementari e tutte esclusivamente familiari: le patate venivano bollite e consumate direttamente, oppure trasformate in farina per sostituire – o miscelarsi con – l’orzo e l’avena nella panificazione; il mais veniva ridotto in farina per farne soprattutto polenta, perché i tentativi di usarlo per la panificazione dettero scarsissimi risultati. Si trattava dunque di operazioni semplici e dai costi esigui, molto simili a quelli richiesti per la produzione del pane, che costituiva, insieme alle zuppe di cereali e alle minestre di ortaggi, l’alimento base della dieta quotidiana di braccianti e contadini in tutta Europa.
L’inserimento della pasta secca nella dieta popolare urbana risulta invece un processo molto più articolato, in prima istanza per due ragioni. Innanzitutto vermicelli e maccaroni non erano un prodotto naturale, che si poteva rendere facilmente commestibile con semplici operazioni casalinghe, quanto piuttosto dei manufatti complessi, non solo perché nati nello spazio alimentare del «mangiar ricco», ma anche perché realizzati con un tipo di farina – la semola – assai diversa dal «fior di farina». A metà Seicento tutte le «arti» dei produttori di pasta erano consapevoli che la semola fosse la materia prima ideale per produrre vermicelli e maccheroni, anche se nessuno conosceva le ragioni scientifiche del primato del grano duro, perché solo nel 1728 lo scienziato bolognese Jacopo Bartolomeo Beccari nei suoi studi sui grani avrebbe individuato in alcune tipologie di frumento la presenza di una sostanza, ritenuta tradizionalmente una impurità dell’amido, che venne successivamente chiamata glutine12.
In realtà Beccari aveva individuato diverse specie di frumento, una delle quali conteneva quantità eccezionali di glutine, cioè di un complesso proteico di proprietà nutrizionali molto elevate, che poteva essere comparato a quelli presenti nella carne.
Ma questo insieme di proteine rendeva la cariosside – il chicco – più «dura» (da qui il nome comune di grano duro) e traslucida nel colore, mentre nei tipi di frumento nei quali questa sostanza era molto inferiore il chicco era più tenero e più friabile. Ne derivava nel primo caso una farina giallo-ambrata e composta di granuli ben distinti, a spigolo vivo, con una consistenza simile a sabbia, nel secondo una farina bianca, polverulenta, simile al talco.
Questa diversa consistenza richiedeva una più complessa manipolazione per produrre l’impasto da trasformare in formati di pasta commestibili. Infatti all’impastamento tra l’acqua e la farina, già di per sé difficile e faticoso, doveva seguire la gramolatura, cioè un’ulteriore fase di amalgama dell’impasto per saldare più fortemente i granelli di semola, eliminando i vacuoli che separavano la periferia dal nucleo centrale della cariosside, dove era concentrato il glutine13: senza questa ulteriore operazione ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione
  6. I. Alle origini della pasta
  7. II. La rivoluzione della pasta secca
  8. III. Cucinare la pasta: origine e apogeo della pastasciutta
  9. IV. Pasta di regime
  10. V. La pasta nell’Italia del benessere
  11. Elenco delle illustrazioni