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Per una condivisione etica dei big data

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Per una condivisione etica dei big data

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Informazioni sul libro

In un mondo fatto di dati, che ognuno di noi cede inconsapevolmente, occorre costruire un nuovo rapporto tra gli utenti e le piattaforme digitali, aiutando gli individui a contrastare i giganti del web che le utilizzano nei campi più disparati solo per massimizzare i loro profitti. Per riuscire in questa sfida da cui dipende una parte significativa del nostro futuro dobbiamo prima di tutto riprenderci i nostri dati digitali e poi condividerli con quelli degli altri, in maniera trasparente, democratica e mutualistica. Chi può aiutarci meglio della cooperazione, con i suoi principi etici e la sua storia secolare di unione e organizzazione dei deboli per uscire dallo sfruttamento? Nel mondo stanno nascendo esempi di questa nuova cooperazione digitale. Ma è in Europa che si può avviare un progetto dove la tutela attiva e auto-organizzata dei dati digitali di 500 milioni di cittadini-consumatori, consenta di dare vita ad uno spazio economico e sociale digitale basato su libertà, pluralismo, democrazia e responsabilità piuttosto che sull'egoismo.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788849861884

1. I dati digitali: la nuova ricchezza e la nuova povertà

Oramai non ci facciamo più caso. Non ricordiamo quasi più cosa fosse la nostra vita quotidiana prima di internet e delle comunicazioni digitali. Per non parlare di chi non era ancora nato. Il loro uso esteso su (quasi) tutto il globo ha reso il mondo un luogo a portata di click: ogni desiderio può essere soddisfatto, ogni informazione trovata, ogni pensiero condiviso.
Il numero di operazioni e il tempo che servivano solo venti anni fa per poter avere un oggetto introvabile, un cibo esotico, per contattare un amico lontano o per prenotare un viaggio sono stati ridotti in maniera impressionante. Oggi basta qualche secondo per assicurarsi qualsiasi regalo si voglia donare a chicchessia, per potersi veder arrivare a casa una cena prelibata o organizzare una vacanza, con tutti i confort dettagliati, dall’altra parte dell’oceano.
Secondo i calcoli di Martin Hilbert, professore dell’Università della California del Sud, nel 2000 il 25% delle informazioni registrate nel mondo era in formato digitale1. Nel 2013 il dato era già schizzato al 98% del totale. Per la società di ricerche di mercato Idc, nel 2025 i dati creati e copiati ogni anno raggiungeranno i 180 zettabyte (180 seguito da 21 zeri): per inviarli attraverso una connessione a banda larga ci vorrebbero più di 450 anni.
Facendo queste operazioni però ogni giorno ognuno di noi lascia traccia di sé. Ogni acquisto, ogni interazione con i social network, ogni scelta che facciamo, ogni pensiero che esprimiamo diventa un dato. Nel mondo digitalizzato ogni operazione che facciamo è tracciata, immagazzinata e utilizzata dai giganti del web. Il sogno di qualsiasi azienda è proporsi al suo potenziale cliente nel modo migliore per poterlo solleticare ad acquistare. Per farlo però deve conoscere le preferenze, le disponibilità, i gusti di ogni singola persona, di ogni consumatore. Come intuì fra i primi nel 2009 l’ex commissaria europea alla Tutela dei consumatori Meglena Kuneva «i dati personali rappresentano il nuovo petrolio di internet e la nuova valuta del mondo digitale»2. La cosiddetta economia dei big data negli ultimi anni ha avuto un’incredibile esplosione: si è creata una vera e propria guerra per il “nuovo petrolio” mentre “la valuta digitale” viene scambiata in ogni modo sulla rete.
Come in ogni guerra la ragione prima che la scatena è la sete di potere e di ricchezza. Le aziende vogliono entrare in possesso dei dati dei loro potenziali clienti; sono disposte a tutto per ottenerli usando anche strumenti non leciti.
Dall’altra parte della barricata a perderci finora sono stati i consumatori. In gran parte ignari di questa guerra, continuano a seminare tracce di sé senza alcuna cura per la difesa della propria privacy.
Il capitalismo ha come sua origine l’estrazione di valore. Se per la larga parte della storia è stato il lavoro di chi produceva le merci a essere estratto, ora nell’epoca di internet si è passati a estrarre anche i dati degli utenti. Quindi si è sfruttati non solo quando si lavora ma anche quando si consuma: così il cerchio capitalista si è finalmente chiuso.
Si tratta dunque, come sempre, di un’estrazione di valore asimmetrica: tutta a favore delle tech company che vendono poi i dati alle imprese. I consumatori sono oggetto di questo “sfruttamento”: le loro scelte, le loro tracce di cui parlavamo, diventano la materia prima, il “petrolio” da estrarre.
È lo stesso modello di business di internet a essere “sbagliato”, sostiene Jaron Lanier, uno dei più interessanti informatici e saggisti americani. Quello attuale, che poco ha a che vedere con le spinte sociali e libertarie dei pionieri della Silicon Valley, è fondato sulla pubblicità: «per cui ogni volta che ci si collega a un sito web o a un’App, c’è una terza parte che paga per manipolarvi»3.
Il capitalismo si è adeguato per primo al nuovo contesto sociale dominato dalle tecnologie digitali e ora lo cavalca in maniera sfrenata. Al capitalismo basato sulla proprietà dei mezzi di produzione si è sostituito un moderno sistema in cui è la conoscenza stessa a essere usata come base per nuovi mezzi di produzione – le reti internet e i social network – alimentati dai dati degli utenti che non si rendono conto, o non si curano, di cedere fette consistenti della loro esistenza.
Come ha osservato Cosimo Accoto4 «il valore è prodotto nella piattaforma, non dall’azienda» che invece poi lo veicola o lo vende. È la conoscenza stessa a essere usata come “domanda” di mercato e gli algoritmi ne estraggono valore creando l’“offerta” su misura per gli stessi utenti, che in questo modo vengono sfruttati a loro insaputa.
Secondo il professore e saggista israeliano Yuval Noah Harari5 si sta creando addirittura una nuova visione del mondo, quasi una nuova religione: il datismo. Si tratta di un approccio strettamente formale all’umanità, che stima il valore delle esperienze umane in relazione al loro ruolo nei meccanismi di elaborazione. Secondo Harari, quando si svilupperanno algoritmi che svolgeranno il medesimo compito in modo migliore − e più economico −, le esperienze umane perderanno il loro valore. Secondo l’etnologo francese Marc Augè “siamo al centro di un utopia che comincia a sgretolarsi nel momento stesso in cui prova a realizzarsi: quelle dell’alleanza feconda e definitiva tra democrazia rappresentativa e mercato liberista su scala planetaria ... nell’ambito delle conoscenze come in quello delle risorse economiche non smette di ampliarsi il divario tra i fortunati e i più poveri ... ci stiamo dirigendo verso un pianeta a tre classi sociali: i potenti, i consumatori e gli esclusi ... I potenti di questo mondo e di quello che verrà non formano un corpo omogeneo: fanno parte della sfera economica, di quella politica o di quella scientifica, ma insieme costituiscono, obiettivamente, l’ambito all’interno del quale si delinea il futuro del sistema in atto. I consumatori sono il motore di questo sistema: il consumo è fondamentale per il suo funzionamento. Gli esclusi, infine, sono tali in termini sia di prosperità economica sia di accesso alla conoscenza”6.
A questo strapotere e a questo sfruttamento serve opporsi. Partendo da un concetto semplice ma decisivo: senza utenti e i loro dati, le piattaforme non hanno senso e, quindi, non hanno valore. Anche la frontiera dell’intelligenza artificiale per funzionare necessita di una mole di dati che solo le piattaforme possono estrarre. Possiamo paragonare le intelligenze artificiali, che domani ci guideranno in un’innumerevole quantità di ambiti della vita sociale ed economica, a dei bambini che per crescere e fornirci un servizio sempre più accurato hanno bisogno di alimentarsi: appunto di dati digitali.
La tecnologia oggi è tutt’altro che democratica e ci fa viaggiare decisi verso una distopia illiberale in cui praterie di persone vengono guidate da algoritmi, come accade ai rider di Foodora e Glovo o agli addetti dei magazzini di Amazon finché non saranno sostituiti, assieme a tutto il settore della logistica, da robot.
Da questo punto di vista, l’algoritmo che regola la vita dei lavoratori di queste app, come dei tassisti di Uber, può essere considerato come un efficiente kapò digitale perché ha informazioni che le persone non hanno: un totale dispotismo, senza alcuna interazione e possibilità di contrattare, rivolto contro lavoratori completamente soli e parcellizzati, in un ritorno a una sorta di nuovo feudalesimo.
Secondo Michele Ainis7, la nostra condizione ormai non è troppo dissimile da quella dei neri d’America ridotti in schiavitù che, secondo Toqueville, non si accorgevano della loro disgrazia in quanto avevano assimilato i pensieri di uno schiavo e ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. Noi guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico, ma non è affatto un regalo − conclude Ainis – casomai uno scippo.
Il punto però non è solo come fare a evitare di essere defraudati, o essere pagati per i nostri dati, come propone, tra gli altri, Jaron Lanier8: ma soprattutto come fare a usare i dati digitali per il bene comune e di conseguenza anche per il nostro benessere.
Perché è ancora possibile fare qualcosa: come questo libro vuole dimostrare raccontando le esperienze delle decine di migliaia di persone che lo stanno già facendo.

2. Il valore sociale dei dati

Per raccontare la storia delle persone che stanno cercando di cambiare le cose nel mondo digitale, bisogna però partire dalla considerazione che i dati personali acquistano maggior valore quando vengono condivisi in forma aperta, trasparente e possibilmente democratica.
Su questo tema ha dato un contributo importante Alex Pentland, professore del Mit (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, che ha lanciato a Davos nel 2007 un vero e proprio “New Deal dei Dati”, basato sul fatto che «i dati vanno riconosciuti come beni dell’individuo». Per lui, la soluzione migliore per rendere la condivisione di dati alla base del miglioramento del sistema pubblico è quella di creare “reti fiduciarie”: «la combinazione di un sistema informatico che registra il permesso dell’utente per tutti i dati personali raccolti e un contratto che specifica quel che si può fare e non fare con quei dati, oltre alle conseguenze per eventuali violazioni»1.
Questo meccanismo è stato tra l’altro alla base dello sviluppo principale di una delle funzioni di successo del capitalismo di questi decenni: la finanziarizzazione globalizzata. Il trasferimento di denaro tra banche in tutto il mondo funziona proprio in questa maniera ed è assolutamente affidabile e riservato.
La grande sfida del futuro è però di far sì invece che la condivisione dei dati degli utenti – in modo trasparente e certificato – possa contribuire al benessere della collettività. In altre parole, ogni utente che affida i propri dati a una piattaforma o a un’app tramite un contratto assume come punto di vista la cosiddetta «sovranità del consumatore» che deve caratterizzare una società a mercato concorrenziale: da utente passivo e sfruttato dalle grandi compagnie digitali si trasforma in attore attivo e consapevole del processo di cui è parte integrante e fondamentale attraverso la cessione dei propri dati personali.
Solo con questo quadro di riferimento si può parlare di tecnologia che cambia realmente «il senso dell’innovazione sociale». Perché i dati che gli utenti cedono alla piattaforma «non servono più solo per orientare il prodotto in coerenza con i gusti e i valori dei consumatori» a fini commerciali – e di profitto per l’azienda che la gestisce –, ma anche per concepire il prodotto stesso uscendo da una logica di stretto marketing per arrivare «all’orizzonte della creatività imprenditoriale, sociale e − addirittura – artistica».
Il «processo di contrattualizzazione sistematica dell’utente» infatti porta «a creare nuove competenze diffuse» allargando a un pubblico vasto «il processo creativo»: siccome l’interazione umana è continua e produce cambiamenti continui – analizzando i comportamenti – ora possiamo interpretarla e indirizzarla nella maniera migliore per uno sviluppo positivo per la collettività.
Oggi il cambio di passo che ci permette di compiere la tecnologia è quello di anticipare le conseguenze di ciò che accade. L’orientamento al futuro è possibile proprio grazie all’analisi sociale dei dati: «le ricerche computazionali produrranno milioni di scenari potenziali per azioni e prospettive possibili, proprio come oggi già accade per le previsioni del tempo, per le proiezioni della pianificazione finanziaria». Una sorta di «nuovi poteri oracolari», «quasi magici», resi possibili da una moltitudine di «sensori che producono dati per una sempre più accurata proiezione del futuro»2. Tutto ciò accade però in maniera per noi spesso inconsapevole, in modo impercepibile, automatico e anticipato, senza che ce ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Prefazione
  6. 1. I dati digitali: la nuova ricchezza e la nuova povertà
  7. 2. Il valore sociale dei dati
  8. 3. Cooperative Commons: il dato sei tu, chi può darti di più?
  9. 4. Prosumer della rete, cooperate!
  10. 5. La mutazione genetica del modello cooperativo
  11. 6. Il Platform Cooperativism
  12. 7. Dalla Coop alle Co-app
  13. 8. Il GDPR e il nuovo mercato europeo dei dati
  14. 9. Che fare? Il principio cooperativo della condivisione dei dati
  15. 10. Il futuro digitale della cooperazione
  16. Il Manifesto “Cooperative Commons”*
  17. Postfazione
  18. Note
  19. Correlati