Dieci anni dopo
Rosarno, Calabria, pomeriggio del 7 gennaio 2010. Due lavoratori agricoli di origine africana vengono feriti con colpi di arma da fuoco. È soltanto uno dei molti atti di violenza subiti dai migranti che da una ventina d’anni giungono, a migliaia, nella Piana di Gioia Tauro per cercare qualche giornata di impiego nella raccolta degli agrumi. Le loro condizioni di lavoro e di vita sono difficili: salari molto bassi o a cottimo, il reclutamento operato spesso da caporali, alloggi precari e insalubri, in fabbriche abbandonate ai margini del paese o in casolari abbandonati lontani e non serviti da mezzi pubblici.
Non è la prima aggressione che questi lavoratori subiscono. Nel dicembre 2008, poco più di un anno prima, altri due braccianti erano stati feriti. In quell’occasione, dopo una manifestazione pacifica, i lavoratori africani di Rosarno erano riusciti a far identificare e arrestare i responsabili dell’aggressione.
Il 7 gennaio 2010, però, la reazione è diversa: centinaia di migranti escono dalle fabbriche abbandonate e scendono nelle strade, protestano, esprimono la propria rabbia danneggiando automobili e cassonetti. È quella che passerà alla storia come la “rivolta di Rosarno”, il cui slogan più famoso è forse “avoid shooting blacks”, evitate di sparare ai neri. A questa reazione segue una contro-reazione di parte della popolazione locale, che si esprime in due giorni di pestaggi e caccia ai lavoratori migranti anche nelle campagne. Intervengono le forze dell’ordine e l’esercito. Il bilancio è di decine di feriti, mentre tra mille e duemila lavoratori vengono trasferiti o fuggono autonomamente in altre città italiane. Il ministro dell’interno, Roberto Maroni, sostiene che la tolleranza dell’immigrazione irregolare ha alimentato criminalità e degrado. Nei mesi seguenti, anche grazie all’impegno di centri sociali, associazioni e avvocati solidali, molti dei braccianti che avevano subito le violenze di Rosarno riceveranno un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.
Da quegli eventi sono trascorsi dieci anni, nei quali molto è cambiato, nella Piana di Gioia Tauro e in tutto il Mezzogiorno. La rivolta dei lavoratori africani di Rosarno ha rappresentato un punto di svolta sotto molti punti di vista, facendo crescere in maniera decisiva la consapevolezza dell’opinione pubblica italiana ed europea in merito alle condizioni di lavoro nelle quali è prodotto il cibo che finisce nei supermercati e sulle tavole di tutto il continente. Condizioni di lavoro comuni a molti territori europei, dall’Andalusia al Peloponneso, dalla Provenza a molte aree italiane. Per restare nel Mezzogiorno, è stato da subito chiaro che la questione non riguarda solo Rosarno, ma anche il Tavoliere foggiano, la viticoltura barese e il Salento in Puglia, la zona del Vulture-Alto Bradano e la Piana di Metaponto in Basilicata, la Piana di Sibari e quella di Lamezia in Calabria, la Piana del Sele e l’agro casertano in Campania, la fascia costiera trasformata tra Pachino e Ragusa e la zona ulivicola di Campobello in Sicilia, l’agro pontino nel Lazio, la pastorizia ovina in Sardegna.
Tuttavia, da dieci anni a oggi, molte cose sono rimaste immutate. Nel settembre 2019 è stato diffuso un report delle Nazioni Unite – frutto della visita in Italia dello Special Rapporteur sulle forme contemporanee di schiavitù, avvenuta un anno prima – che rileva che “i diritti dei lavoratori sono spesso violati ed essi possono essere esposti a severo sfruttamento o schiavitù” e chiede allo Stato italiano di fare attenzione alla “continue sfide nell’assicurare condizioni di vita e di lavoro decenti ai lavoratori migranti nel settore”.
Ritengo che questa ricorrenza possa e debba essere utilizzata per analizzare criticamente cosa è successo nel decennio che è seguito alla rivolta di Rosarno. La pubblicazione di questo libro, che raccoglie articoli scritti dal 2010 al 2019, ha l’obiettivo di contribuire a rilanciare un dibattito su cosa è stato fatto, come è stato fatto, con quali risultati, e su cosa è importante fare nel prossimo futuro.
Gli eventi di Rosarno del 2010 e, successivamente, lo sciopero che i braccianti africani realizzarono a Nardò, nel Salento, nell’estate 2011, hanno stimolato l’impegno di individui e organizzazioni – collettivi, organizzazioni contadine, sindacati, associazioni, ong, gruppi di acquisto solidale, gruppi religiosi… – che hanno speso in questi anni energie, intelligenza, tempo, denaro, per intervenire sulla questione delle condizioni dei lavoratori agricoli nel Mezzogiorno. Inoltre, la “rivolta” e l’impegno di moltissimi che a essa è seguito hanno costretto anche le istituzioni pubbliche nazionali e locali a intervenire sul tema. Varie leggi sono state emanate, tra cui le due norme contro il caporalato e lo sfruttamento del lavoro, nel 2011 e nel 2016. La situazione non può quindi dirsi immutata rispetto a dieci anni fa.
Tuttavia, come sosterrò in questa introduzione, non si è agito sulle cause strutturali delle drammatiche condizioni lavorative e abitative dei migranti che popolano le campagne del Sud (e non solo). Per certi versi, vi è stato addirittura un peggioramento, come ci hanno ricordato periodicamente le tragiche morti di molte e molti braccianti, mentre erano al lavoro, in incidenti stradali andando o tornando dai campi, in incendi nelle baraccopoli o nelle fabbriche abbandonate o addirittura uccisi, da personale delle forze dell’ordine o da cittadini italiani. Queste cause, riconosciute dallo stesso rapporto delle Nazioni Unite sopra citato, sono le seguenti: le leggi sull’immigrazione e sull’asilo che rendono vulnerabili i migranti, soprattutto quelli che sono appena arrivati in Italia; le relazioni diseguali di potere nei sistemi agroalimentari, che spingono le imprese agricole a comprimere i salari dei lavoratori; la mancanza di politiche strutturali relative alla casa, ai trasporti e al collocamento per i braccianti, soprattutto per gli stagionali che si spostano da un’area agricola all’altra seguendo la richiesta di manodopera.
A questi fenomeni ne va aggiunto un altro, a cui dieci anni fa si pensava poco: la forte ripresa dell’emigrazione dal Sud Italia, che è segno di un malessere nelle regioni del Mezzogiorno e, inoltre, rende ancor più difficile la crescita di movimenti sociali che mirino all’emancipazione dei lavoratori – migranti e non – delle campagne.
Rosarno 2010, prima e dopo: l’impegno di molte e molti
Non è possibile sostenere che prima del gennaio 2010 le condizioni di lavoro dei braccianti agricoli migranti fossero sconosciute all’opinione pubblica, alle istituzioni locali, alla politica. È sufficiente ricordare alcuni eventi importanti, come l’uccisione del richiedente asilo e bracciante agricolo sudafricano Jerry Essan Masslo, nell’agosto 1989 a Villa Literno, Caserta, da cui sono passati ormai più di trent’anni, e il rogo, nel settembre 1994, del “ghetto di Villa Literno”, probabilmente la prima grande baraccopoli dei raccoglitori di origine africana nel Sud Italia, cantata anche dagli Almamegretta nel disco Sanacore del 1995. Poi, è vero, dieci anni nei quali vi è stata una disattenzione pressoché totale, mentre la presenza dei lavoratori migranti nell’agricoltura italiana diventava strutturale. Ma, dalla metà degli anni Duemila, molte inchieste si sono succedute: nel 2005 e nel 2008 quelle di Medici senza frontiere, ong che dal 2004 ha prestato assistenza sanitaria ai braccianti migranti in molte aree del Mezzogiorno; nel 2008 il libro Uomini e caporali, di Alessandro Leogrande, che, partendo dalla vicenda dei lavoratori polacchi e slovacchi tenuti di fatto prigionieri nelle campagne di Ortanova (Foggia) e dalle decine di denunce di scomparsa di cittadini polacchi, soprattutto in Puglia, ha proposto la prima analisi del “nuovo caporalato”. E poi le inchieste di Antonello Mangano, dopo la manifestazione dei lavoratori migranti di Rosarno del dicembre 2008, e di Anselmo Botte, sindacalista della Cgil che aveva operato in un altro grande ghetto, quello di San Nicola Varco nella Piana del Sele in provincia di Salerno, abitato da centinaia di lavoratori di origine marocchina impiegati nella ricca agricoltura in serra di quel territorio e sgomberato l’11 novembre 2009, due mesi prima dei fatti di Rosarno.
Non va dimenticato, inoltre, che già nel 2006 la Regione Puglia guidata dalla prima giunta Vendola aveva varato una legge regionale (la 28/2006) che tentava di contrastare il lavoro nero attraverso gli “indici di congruità”.
Nel decennio che si apre con gli eventi di Rosarno, però, la questione diventa ineludibile, e questo ancor più in seguito allo sciopero di Nardò. Nell’agosto 2011, infatti, a partire dalla Masseria Boncuri – un importante esperimento di accoglienza dei braccianti messo in pratica nel 2010 e nel 2011 da due associazioni con una forte impronta militante e solidali con i lavoratori, Finis terrae e Brigate di solidarietà attiva, – alcune centinaia di braccianti originari di molti paesi dell’Africa occidentale, orientale e settentrionale scioperarono per circa due settimane. Tra le loro rivendicazioni c’erano contratti regolari, l’intermediazione lavorativa del Centro per l’impiego invece che dei caporali e condizioni abitative migliori.
Nell’arco di un anno e mezzo, quindi, lavoratori che erano considerati fino ad allora – e spesso lo sarebbero stati anche in seguito – “schiavi” smentirono questa rappresentazione e divennero protagonisti dapprima di una “rivolta” (a Rosarno) e poi di uno sciopero auto-organizzato (a Nardò). Questi due eventi accesero speranze ed entusiasmi e spinsero a un grande impegno in molti campi anche se, come detto, non sempre con risultati positivi.
Gli articoli dei maggiori media nazionali e internazionali in questi dieci anni non si contano. In molti casi si è trattato di interventi superficiali, talvolta dannosi per la causa degli stessi lavoratori, talaltra caratterizzati da un’attenzione per ghetti, sfruttamento, caporali al limite del pornografico; tuttavia, non sono mancate inchieste serie e approfondite.
Ricercatori e ricercatrici universitari/e (per lo più precari/e) hanno dedicato con continuità energie, impegno e passione allo studio del lavoro agricolo e delle trasformazioni dei sistemi agroalimentari, molto spesso in collaborazione con movimenti sociali, associazioni, sindacati.
Molte ong hanno realizzato interventi di monitoraggio e assistenza e hanno elaborato report e raccomandazioni di policy, da Medici senza frontiere a Emergency, da Medici per i diritti umani a Intersos, da Amnesty international a Terra! Onlus a Oxfam Italia.
Le organizzazioni sindacali hanno denunciato con costanza lo sfruttament...