Altreconomia 224 - Marzo 2020
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Ebola, un affare per pochi

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Altreconomia 224 - Marzo 2020

Ebola, un affare per pochi

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Indice dei contenuti
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Informazioni sul libro

In copertina
INCHIESTA
Così gli investitori privati hanno speculato su Ebola Primo tempo
ECONOMIA
Città in affitto breve: gli effetti delle piattaforme sul diritto all’abitare
AMBIENTE
Agro romano: tra i palazzoni e le discariche, i cittadini si mobilitano
MIGRAZIONI
I 30 anni del Regolamento di Dublino. Una ferita nel diritto d’asilo in Europa
REPORTAGE
Tra i redivivi nell’inferno di Obo, nella Repubblica Centrafricana
DIRITTI
La lunga attesa nei campi dei profughi siriani in Giordania Secondo tempo
ECONOMIE SOLIDALI
Le latterie turnarie fanno rete per resistere all’industrializzazione
DIRITTI
Prima le persone: le comunità che accolgono gli esclusi dal sistema
INTERNAZIONALE
L’arrampicata in Palestina è un gesto di libertà contro l’oppressione
SALUTE
La “scienza dei cittadini” per misurare la qualità dell’aria Terzo Tempo
NARRATIVA
María Josefina Cerutti. L’Argentina è la mia storia
AMBIENTE
Annamaria Gremmo e Marco Soggetto.A difesa delle Cime Bianche
Rubriche
Editoriale di Duccio Facchini
Obiettivo
Monitor
Il volo a pedali di Luigi Montagnini
Il clima è (già) cambiato di Stefano Caserini
Il diritto di migrare di Gianfranco Schiavone
Semi in viaggio di Riccardo Bocci
Distratti dalla libertà di Lorenzo Guadagnucci
Osservatorio sulla coesione di Paolo Graziano e Matteo Jessoula
Piano terra di Paolo Pileri
Avviso Pubblico di Pierpaolo Romani
Un volto che ci somiglia di Tomaso Montanari
La pagina dei librai a cura di Tuba Bazar
Idee eretiche di Roberto Mancini

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865163634
Argomento
Commerce

Così gli investitori privati hanno speculato su Ebola nella Repubblica Democratica del Congo. Inchiesta su un affare milionario

Cento milioni di dollari sono stati promessi dalla Banca Mondiale in aiuto alle popolazioni colpite. Ma sono finiti altrove. La maggior parte delle aziende che hanno investito sugli “Ebola bond”, circa l’83%, sono europee. Si tratta di fondi pensione e società di gestione risparmi. Inchiesta

di Francesco Sparano

La Repubblica Democratica del Congo sta affrontando la seconda più grave epidemia di Ebola dopo quella del 2014-2016, che ha causato più di 11mila morti in Africa occidentale. Una crisi sanitaria che si sarebbe potuta evitare grazie a un finanziamento anticipato della Banca Mondiale di 100 milioni di dollari. Oggi quei soldi -promessi dall’ex presidente della banca, Jim Yong Kim- sono stati effettivamente pagati, ma attraverso un meccanismo finanziario distorto non si sono trasformati in un contributo a favore delle popolazioni colpite, bensì in premi a investitori privati.
Il motivo va ricercato nel funzionamento del “Pandemic emergency financing facility” (Pef), uno strumento finanziario creato nel 2016 dalla Banca Mondiale per raccogliere fondi privati da poter utilizzare in casi di emergenza legati allo scoppio di pandemie. L’obiettivo dichiarato è fornire aiuti economici immediati alle popolazioni dei Paesi più poveri colpite dalle epidemie, per non farsi trovare impreparati come in passato. “Per la prima volta avremo un sistema che può spostare finanziamenti e squadre di esperti verso i siti di epidemie prima che vadano fuori controllo” aveva annunciato Kim durante la presentazione del Pef nel maggio di quattro anni fa.

Gli investitori privati, attraverso l’acquisto di obbligazioni, si impegnano a fornire aiuti ai Paesi colpiti da un’epidemia. In cambio, ricevono ogni anno un premio
Secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’ondata di Ebola che sta colpendo da agosto 2018 la Repubblica Democratica del Congo ha causato finora (18 febbraio 2020) 2.253 morti. Eppure al momento nessun finanziamento privato raccolto dal Pef è stato erogato in sostegno del Paese centrafricano. Per capire come questo sia stato possibile è necessario comprendere il meccanismo alla base del Pef, che segue una logica di tipo assicurativo: un soggetto paga ogni anno un premio a un’assicurazione in cambio di un rimborso per sostenere le spese causate da un determinato evento. Nel caso del Pef gli assicurati sono la Banca Mondiale e due nazioni donatrici, Giappone e Germania, gli assicuratori sono degli investitori privati e l’evento è lo scoppio di un’epidemia.
In altre parole gli investitori privati, attraverso l’acquisto di obbligazioni, si impegnano a fornire aiuti economici ai Paesi colpiti da un’epidemia. In cambio ricevono ogni anno un premio, finanziato da Giappone, Germania e Banca Mondiale, per compensare il rischio sostenuto. Questo meccanismo prevede fino a 425 milioni di dollari come copertura dal rischio di epidemie di influenza, Ebola, Coronavirus e altre malattie infettive. “Ma se a luglio 2020 non verranno soddisfatti i criteri minimi per far scattare l’aiuto economico alle popolazioni colpite da un’epidemia, gli investitori avranno indietro il denaro investito più i premi maturati” spiega Domenico Villano, collaboratore della Fondazione Finanza Etica.

Ed è su questo punto che si stanno concentrando molte delle critiche rivolte al Pef. Nel caso dell’Ebola i criteri per liberare il pagamento richiedono che siano trascorse almeno 12 settimane dall’inizio dell’epidemia e che questa abbia causato almeno 250 morti. Il problema è che i decessi devono essere distribuiti in più di un Paese e ciascuno deve registrarne almeno 20. E così, con un numero di vittime quasi dieci volte superiore al minimo necessario per far scattare l’emergenza, la Repubblica Democratica del Congo non ha paradossalmente ancora ricevuto aiuti economici. Secondo quanto stabilito dal Pef, sarebbero dovuti arrivare 45 milioni di dollari per 250 vittime, 90 milioni di dollari per 750 vittime e 150 milioni di dollari per 2.500 vittime. Al momento però sono stati pagati soltanto i premi agli investitori privati, pari a 114 milioni di dollari. Il problema è che, con una superficie di 2,3 milioni di chilometri quadrati, la Repubblica Democratica del Congo è l’undicesimo Paese più grande al mondo. Pari a otto volte l’Italia e a metà dell’Unione europea. Con queste dimensioni è molto difficile che un virus superi i confini del Paese e quando lo fa, come sta avvenendo ora con i primi decessi registrati in Uganda, potrebbe essere già troppo tardi.

Le cosiddette “obbligazioni pandemiche” si suddividono in due categorie: una copre malattie come l’influenza e frutta agli investitori una rendita del 6,5%, l’altra, che copre malattie come l’Ebola, ha una rendita dell’11,1%. Tassi molto alti che rendono questi titoli “un ottimo affare per gli investitori, ma non per la salute globale”, ha denunciato in un editoriale pubblicato sulla rivista Nature l’ex consulente economico per la Banca Mondiale, Olga Jones. “Creare dei titoli attraenti per gli investitori privati significa disegnarli in modo tale da rendere difficile il pagamento del finanziamento e quindi la perdita dei loro investimenti”, ha scritto. La Banca Mondiale ha raccolto 320 milioni dalla vendita di queste obbligazioni: 225 milioni per le obbligazioni con rendita al 6,5% e 95 per quelle destinate all’Ebola. La maggior parte delle aziende che hanno investito sugli “Ebola bond”, circa l’83%, sono europee. Si tratta di fondi pensione, società di gestione risparmi e investitori specializzati nell’acquisto di obbligazioni di questo tipo, più comunemente conosciute come “obbligazioni catastrofe”. Dalle informazioni fornite dalla società di analisi dati Refinitiv ad Altreconomia, la società d’investimento scozzese Baillie Gifford è uno dei principali detentori degli “Ebola bond”, grazie ai 6,5 milioni di euro investiti. Dietro, con 4 milioni investiti, troviamo la statunitense Pioneer Investment Management, acquisita nel 2018 dalla francese Amundi, la più grande società di gestione del risparmio europea, controllata da Crédit Agricole. La stessa Amundi, nello specifico la succursale italiana del gruppo, risulta tra i detentori di una piccola parte degli “Ebola bond”, lo 0,26% pari a 250mila euro. Contattata da Altreconomia, Amundi non ha fornito spiegazioni sui motivi per cui ha investito in questo fondo.

La maggior parte delle aziende che hanno investito sugli “Ebola bond”, circa l’83%, sono europee. Si tratta di fondi pensione, società di gestione risparmi
Finora, gli unici aiuti forniti dal Pef provengono da un secondo fondo finanziato esclusivamente attraverso contributi di Germania e Australia, senza alcun coinvolgimento dei privati. Questo fondo, che al momento ha fornito 64 milioni di dollari per combattere Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, è stato istituito nel 2016 con l’obiettivo di assegnare un finanziamento quando i criteri del meccanismo assicurativo non vengono soddisfatti. E così gli unici soldi stanziati dal Pef non sono quelli ottenuti dagli investitori privati ma quelli provenienti da finanziamenti pubblici, utilizzati per pagare i premi assicurativi o come contributi volontari.

Secondo MSF, le dosi necessarie a garantire una copertura vaccinale tale da contenere l’epidemia sono ancora insufficienti © Vincent Tremeau[/caption]
“L’opinione più diffusa è che i finanziamenti pubblici non siano sufficienti a raggiungere gli obiettivi di sviluppo e che il settore privato possa fornire magicamente il denaro necessario. Ma i privati non forniscono denaro gratuitamente” commenta ad Altreconomia Tim Jones, responsabile delle politiche di Jubilee Debt Campaign, una coalizione britannica di organizzazioni che si battono per la cancellazione del debito dei Paesi più poveri. “Sarebbe stato molto più efficiente per il settore pubblico finanziare un proprio fondo piuttosto che perdere denaro per finanziare il profitto dei privati”. Soldi che potrebbero sostenere progetti per l’accesso ai farmaci essenziali. A novembre l’Agenzia europea per i medicinali ha approvato la commercializzazione di un vaccino che si è dimostrato efficace nel prevenire l’Ebola e che è già stato somministrato a migliaia di persone in Repubblica Democratica del Congo. Ma, come denunciato da Medici Senza Frontiere, le dosi necessarie a garantire una copertura vaccinale tale da contenere l’epidemia sono ancora insufficienti.
Nel campo della salute globale esistono altri fondi creati per raccogliere risorse da impiegare in casi di emergenze sanitarie e umanitarie, come il Central Emergency Relief Fund (Cerf) delle Nazioni Unite e il Contingency Fund for Emergencies (Cfe) dell’Oms. Entrambi sono finanziati attraverso donazioni volontarie e per questo hanno dovuto lottare spesso contro la mancanza di risorse. Il Pef, sfruttando gli investimenti privati come fonte di finanziamento alternativa, sulla carta rappresenterebbe un modello innovativo di supporto alle popolazioni colpite da crisi sanitarie. Ma i criteri estremamente rigidi e poco flessibili di questo strumento hanno invece favorito gli interessi degli speculatori. Un’analisi effettuata da due ricercatori della London School of Economics and Political Science (Lse) ha confrontato i criteri di pagamento dei due fondi istituiti dalle Nazioni Unite e dall’Oms con quelli del Pef. Sono stati considerati 28 casi di epidemie scoppiate a causa di malattie come Ebola o influenza AH1N1. Da quando il Cfe è stato creato alla fine del 2015, ha fornito 25 aiuti economici per questi eventi. Il Cerf, attivo dal 2006, è intervenuto 41 volte. Secondo la stima degli autori se questi due strumenti avessero avuto gli stessi criteri del Pef, avrebbero fornito aiuti soltanto in due dei 28 casi di epidemia considerati.

2.250 i morti causati a metà febbraio 2020 da Ebola nella Repubblica Democratica del Congo. La prima epidemia (2014-2016) ne aveva causati 11mila nell’Africa occidentale
La mancanza di aiuti non ha conseguenze solo in termini di costi umanitari. I Paesi colpiti da disastri, come quelli ambientali o in questo caso sanitari, rischiano di aumentare il loro debito pubblico per farvi fronte, rendendo più difficile proteggersi da futuri disastri. Attualmente la Repubblica Democratica del Congo spende in media il 7% delle sue entrate per il pagamento del debito estero. “Nonostante sia inferiore alla media dei Paesi africani, il pericolo è che questo aumenti a causa dell’epidemia di Ebola, come è successo in Sierra Leone durante l’epidemia del 2014-2016” spiega Tim Jones. Il debito estero della Sierra Leone è aumentato dal 6% del 2016, al 13% nel 2019 e si stima che arriverà al 19% entro il 2022. Il 40% di questi pagamenti è destinato al Fondo Monetario Internazionale che, nonostante la cancellazione di 29 milioni di dollari di debito contratto dal Paese africano, ha continuato a prestargli soldi durante l’emergenza (254 milioni tra il 2015 e il 2017). Oggi il governo della Sierra Leone è costretto a tagliare la spesa pubblica pro capite. “La Repubblica Democratica del Congo è un Paese molto più grande della Sierra Leone. Per questo i segni di una crisi economica causata dall’epidemia di Ebola non sono ancora evidenti. Credo quindi che ci siano poche possibilità che il debito del Congo venga cancellato in questo momento in risposta alla crisi sanitaria”, aggiunge Tim Jones.

I Paesi colpiti da disastri, come quelli ambientali o in questo caso sanitari, rischiano di aumentare il loro debito pubblico. Il caso della Sierra Leone
La Banca Mondiale ha dichiarato che sono in corso le discussioni sulla realizzazione del Pef 2.0. Per i ricercatori della Lse, date le difficoltà affrontate da molti fondi per raccogliere soldi dai donatori, le capacità finanziarie del Pef potrebbero colmare questa lacuna solo se si introducessero modifiche ai criteri di pagamento. In particolare è necessario eliminare i criteri numerici che prevedono un numero minimo di morti in almeno due Paesi e che sono alla base di questo strumento finanziario. In questo modo si eviterà di erogare gli aiuti quando l’epidemia si sarà trasformata in pandemia, favorendo la risposta immediata che avrebbe dovuto caratterizzare il Pef. Secondo Jubilee Debt Campaign, invece, le soluzioni non possono arrivare dai privati. Per disporre di fondi rapidi per fronteggiare un’emergenza sanitaria sono necessarie moratorie immediate sui pagamenti del debito. Inoltre, gli aiuti dovrebbero essere forniti attraverso sussidi piuttosto che attraverso i prestiti. Soltanto così, per gli attivisti della campagna per la cancellazione del debito, sarebbe possibile dare priorità alla sicurezza sanitaria globale rispetto agli interessi degli investitori.

© riproduzione riservata

Città in affitto breve: gli effetti delle piattaforme sul diritto all’abitare

Il mercato delle locazioni non superiori a 30 giorni in Italia continua a crescere, supportato dalle piattaforme come Airbnb e da società che gestiscono le pratiche per conto del proprietario. L’offerta ne risente come dimostra il caso di Milano

di Marta Facchini

Sul tavolo della cucina c’è un foglio con una lista di nomi. L’elenco indica le persone venute a visitare una stanza in affitto in un appartamento in viale Monza, a Milano. “Ho pubblicato l’annuncio della camera sui social. In due giorni, ho ricevuto quasi duecento messaggi di persone interessate. Alcune mi hanno detto che stanno cercando una sistemazione da mesi”, racconta Silvia, la proprietaria, che ha deciso di affittare una stanza di casa sua per integrare le entrate a fine mese. “Oggi sono venuti in dieci. Andrà avanti così per un paio di giorni. Poi sceglierò il coinquilino”. Il prezzo da pagare per una singola di 12 metri quadrati è di 650 euro mensili più le spese condominiali e le utenze. Nello stesso quartiere a Nord di piazzale Loreto, Marco ha preso un’altra decisione. Invece di pensare al lungo periodo, usando i contratti di locazione “classici”, ha messo una camera del suo trilocale su una piattaforma online affittandola a turisti per poco tempo. “Il prezzo della stanza è 70 euro a notte. In un mese riesco ad arrivare a 1.200 euro lordi. Rispetto a un affitto tradizionale, guadagno di più”, afferma. Per affitti brevi si intende una tipologia di accordo temporaneo che implica una locazione non superiore ai 30 giorni, compresi quelli che prevedono la fornitura di biancheria e pulizia dei locali, stipulati da persone fisiche al di fuori dell’esercizio dell’attività d’impresa direttamente o indirettamente tramite soggetti che esercitano un’attività di intermediazione. Il contratto non deve essere registrato, motivo per cui è difficile dare una misura precisa del fenomeno degli affitti a breve termine che secondo Mario Breglia, presidente dell’istituto indipendente di studi e ricerche Scenari Immobiliari, è cresciuto dall’11% al 18% nel 2019 coinvolgendo oltre 200 località turistiche.

Più la proprietà è usata per gli affitti brevi, più l’offerta diminuisce. Il fenomeno esiste a Milano ma sta creando difficoltà soprattutto a Firenze, Venezia e Bologna
La questione degli affitti brevi si inserisce nella più ampia discussione sull’andamento del mercato immobiliare italiano, inclusi i canoni di locazione. Nel caso di Milano, secondo Scenari Immobiliari, nel 2019 i canoni medi di locazione sono aumentati del 2,6%, un dato rilevante se paragonato al resto d’Italia dove si è registrato un -0,8%. “L’incremento può essere dovuto a una domanda elevata cui non corrisponde un’offerta altrettanto adeguata”, spiega Francesca Zirnstein, direttore generale di Scenari Immobiliari. Che aggiunge: “Il mercato delle locazioni storicamente è per chi non riesce ad accedere all'acquisto della casa. A Milano, dove chi arriva da fuori si ferma almeno sei mesi, la locazione sta diventando un’alternativa alla proprietà e sarà una tendenza di lungo periodo. Quanto agli affitti brevi, in modo sensibile a Milano il fenomeno è iniziato con Expo nel 2015. Come media è cresciuto del 15% negli ultimi cinque anni”. Sulle conseguenze in Italia degli affitti a breve termine, Scenari Immobiliari ha espresso alcune criticità sottolineando che questa tendenza si traduce in meno immobili da mettere sul mercato e scoraggia eventuali compratori. “Più la proprietà è usata per gli affitti brevi, più l’offerta diminuisce. Il fenomeno esiste a Milano ma sta creando difficoltà soprattutto a Firenze, Venezia e Bologna. Abbiamo espresso preoccupazione sugli effetti che gli eccessivi flussi di turisti hanno sui centri delle città, sulle attività commerciali e sulla possibilità di trovare una casa in cui vivere”, conclude Zirnstein.
A muoversi sul panorama degli affitti a breve termine è Airbnb, piattaforma fondata nel 2008 con l’obiettivo di mettere in contatto chi cerca una sistemazione per poco tempo con chi offre una stanza del suo appartamento. “Airbnb faceva suoi i principi della sharing economy, l’economia collaborativa: condividere un bene tra pari e favorire la disintermediazione”, spiega Letizia Chiappini, dottoranda in sociologia presso l’università Bicocca di Milano, che ha portato avanti progetti di ricerca sulle politiche di sharing economy. “Ora Airbnb è una piattaforma in cui i rapporti sono mediati, come indica la presenza consistente di multiproprietari e di realtà d’impresa”, aggiunge.
In più di dieci anni il mercato degli affitti brevi non ha smesso di crescere. Secondo uno studio del 2018 di Morningstar e Pitchbook, nel 2014 il mercato globale degli alloggi privati valeva 100 miliardi di dollari ed è salito a 140 miliardi di dollari nel 2017 con un aumento previsto delle prenotazioni online fino al 65% nel 2022. Accanto alla crescita, il settore dell’accoglienza si è professio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. ALTRECONOMIA 224 - MARZO 2020
  3. Indice dei contenuti
  4. Le scelte di Intesa Sanpaolo, i dividendi agli azionisti e il futuro del Pianeta
  5. Monitor, osservatorio sul mondo (marzo 2020)
  6. Così gli investitori privati hanno speculato su Ebola nella Repubblica Democratica del Congo. Inchiesta su un affare milionario
  7. Città in affitto breve: gli effetti delle piattaforme sul diritto all’abitare
  8. In Afghanistan la salute delle donne è a rischio
  9. Agro romano: tra i palazzoni e le discariche, i cittadini si mobilitano
  10. Emissioni: dopo l'azzeramento è tempo di ingranare la retromarcia
  11. I 30 anni del Regolamento di Dublino. Una ferita nel diritto d’asilo in Europa
  12. Vent’anni di detenzione amministrativa dei migranti: c’è poco da festeggiare
  13. Tra i redivivi nell’inferno di Obo, nella Repubblica Centrafricana
  14. Gli oligopolisti del settore sementiero e il potere dei consumatori
  15. La lunga attesa nei campi dei profughi siriani in Giordania
  16. Perché i genitori di Giulio Regeni rifiutano l’etichetta di “genitori della vittima”
  17. Le latterie turnarie fanno rete per resistere all’industrializzazione
  18. La riforma delle pensioni in Francia: égalité, universalité, solidaritè?
  19. Prima le persone: le comunità che accolgono gli esclusi dal sistema
  20. La lezione del Coronavirus e l’importanza della sanità pubblica
  21. L’arrampicata in Palestina è un gesto di libertà contro l’oppressione
  22. La “scienza dei cittadini” per misurare la qualità dell’aria
  23. Contro il pensiero unico dell’indifferenza
  24. María Josefina Cerutti. L’Argentina è la mia storia
  25. Il mondo marcio di Tiepolo e quella pittura che resta per sempre
  26. Annamaria Gremmo e Marco Soggetto. A difesa delle Cime Bianche
  27. La pagina dei librai (da Altreconomia 224)
  28. Le sfide di una nuova azione politica collettiva