di Francesco Sparano
La Repubblica Democratica del Congo sta affrontando la seconda
più grave epidemia di Ebola dopo quella del 2014-2016, che ha
causato più di 11mila morti in Africa occidentale. Una crisi
sanitaria che si sarebbe potuta evitare grazie a un finanziamento
anticipato della Banca Mondiale di 100 milioni di dollari. Oggi
quei soldi -promessi dall’ex presidente della banca, Jim Yong Kim-
sono stati effettivamente pagati, ma attraverso un meccanismo
finanziario distorto non si sono trasformati in un contributo a
favore delle popolazioni colpite, bensì in premi a investitori
privati.
Il motivo va ricercato nel funzionamento del “Pandemic emergency
financing facility” (Pef), uno strumento finanziario creato nel
2016 dalla Banca Mondiale per raccogliere fondi privati da poter
utilizzare in casi di emergenza legati allo scoppio di
pandemie. L’obiettivo dichiarato è fornire aiuti economici
immediati alle popolazioni dei Paesi più poveri colpite dalle
epidemie, per non farsi trovare impreparati come in passato. “Per
la prima volta avremo un sistema che può spostare finanziamenti e
squadre di esperti verso i siti di epidemie prima che vadano fuori
controllo” aveva annunciato Kim durante la presentazione del Pef
nel maggio di quattro anni fa.
Gli investitori privati, attraverso l’acquisto di obbligazioni,
si impegnano a fornire aiuti ai Paesi colpiti da un’epidemia. In
cambio, ricevono ogni anno un premio
Secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms), l’ondata di Ebola che sta colpendo da agosto 2018 la
Repubblica Democratica del Congo ha causato finora (18 febbraio
2020) 2.253 morti. Eppure al momento nessun finanziamento privato
raccolto dal Pef è stato erogato in sostegno del Paese
centrafricano. Per capire come questo sia stato possibile è
necessario comprendere il meccanismo alla base del Pef, che segue
una logica di tipo assicurativo: un soggetto paga ogni anno un
premio a un’assicurazione in cambio di un rimborso per sostenere le
spese causate da un determinato evento. Nel caso del Pef gli
assicurati sono la Banca Mondiale e due nazioni donatrici, Giappone
e Germania, gli assicuratori sono degli investitori privati e
l’evento è lo scoppio di un’epidemia.
In altre parole gli investitori privati, attraverso
l’acquisto di obbligazioni, si impegnano a fornire aiuti economici
ai Paesi colpiti da un’epidemia. In cambio ricevono ogni anno un
premio, finanziato da Giappone, Germania e Banca Mondiale, per
compensare il rischio sostenuto. Questo meccanismo prevede fino a
425 milioni di dollari come copertura dal rischio di epidemie di
influenza, Ebola, Coronavirus e altre malattie infettive. “Ma se a
luglio 2020 non verranno soddisfatti i criteri minimi per far
scattare l’aiuto economico alle popolazioni colpite da un’epidemia,
gli investitori avranno indietro il denaro investito più i premi
maturati” spiega Domenico Villano, collaboratore della
Fondazione Finanza Etica.
Ed è su questo punto che si stanno concentrando molte delle
critiche rivolte al Pef. Nel caso dell’Ebola i criteri per liberare
il pagamento richiedono che siano trascorse almeno 12 settimane
dall’inizio dell’epidemia e che questa abbia causato almeno 250
morti. Il problema è che i decessi devono essere distribuiti in più
di un Paese e ciascuno deve registrarne almeno 20. E così, con un
numero di vittime quasi dieci volte superiore al minimo necessario
per far scattare l’emergenza, la Repubblica Democratica del Congo
non ha paradossalmente ancora ricevuto aiuti economici. Secondo
quanto stabilito dal Pef, sarebbero dovuti arrivare 45 milioni di
dollari per 250 vittime, 90 milioni di dollari per 750 vittime e
150 milioni di dollari per 2.500 vittime. Al momento però sono
stati pagati soltanto i premi agli investitori privati, pari a 114
milioni di dollari. Il problema è che, con una superficie di 2,3
milioni di chilometri quadrati, la Repubblica Democratica del Congo
è l’undicesimo Paese più grande al mondo. Pari a otto volte
l’Italia e a metà dell’Unione europea. Con queste dimensioni è
molto difficile che un virus superi i confini del Paese e quando lo
fa, come sta avvenendo ora con i primi decessi registrati in
Uganda, potrebbe essere già troppo tardi.
Le cosiddette
“obbligazioni pandemiche” si suddividono in due categorie: una
copre malattie come l’influenza e frutta agli investitori una
rendita del 6,5%, l’altra, che copre malattie come l’Ebola, ha una
rendita dell’11,1%. Tassi molto alti che rendono questi titoli “un
ottimo affare per gli investitori, ma non per la salute globale”,
ha denunciato in un editoriale pubblicato sulla rivista Nature l’ex
consulente economico per la Banca Mondiale, Olga Jones. “Creare dei
titoli attraenti per gli investitori privati significa disegnarli
in modo tale da rendere difficile il pagamento del finanziamento e
quindi la perdita dei loro investimenti”, ha scritto. La Banca
Mondiale ha raccolto 320 milioni dalla vendita di queste
obbligazioni: 225 milioni per le obbligazioni con rendita al 6,5% e
95 per quelle destinate all’Ebola. La maggior parte delle aziende
che hanno investito sugli “Ebola bond”, circa l’83%, sono europee.
Si tratta di fondi pensione, società di gestione risparmi e
investitori specializzati nell’acquisto di obbligazioni di questo
tipo, più comunemente conosciute come “obbligazioni catastrofe”.
Dalle informazioni fornite dalla società di analisi dati
Refinitiv
ad Altreconomia, la
società d’investimento scozzese Baillie Gifford è uno dei
principali detentori degli “Ebola bond”, grazie ai 6,5 milioni di
euro investiti. Dietro, con 4 milioni investiti, troviamo la
statunitense Pioneer Investment Management, acquisita nel 2018
dalla francese Amundi, la più grande società di gestione del
risparmio europea, controllata da Crédit Agricole. La stessa
Amundi, nello specifico la succursale italiana del gruppo, risulta
tra i detentori di una piccola parte degli “Ebola bond”, lo 0,26%
pari a 250mila euro. Contattata da Altreconomia, Amundi non ha
fornito spiegazioni sui motivi per cui ha investito in questo
fondo.
La maggior parte delle aziende che hanno investito sugli “Ebola
bond”, circa l’83%, sono europee. Si tratta di fondi pensione,
società di gestione risparmi
Finora, gli unici aiuti forniti dal Pef provengono da un secondo
fondo finanziato esclusivamente attraverso contributi di Germania e
Australia, senza alcun coinvolgimento dei privati. Questo fondo,
che al momento ha fornito 64 milioni di dollari per combattere
Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, è stato istituito nel
2016 con l’obiettivo di assegnare un finanziamento quando i criteri
del meccanismo assicurativo non vengono soddisfatti. E così gli
unici soldi stanziati dal Pef non sono quelli ottenuti dagli
investitori privati ma quelli provenienti da finanziamenti
pubblici, utilizzati per pagare i premi assicurativi o come
contributi volontari.
Secondo MSF, le dosi necessarie a garantire una copertura
vaccinale tale da contenere l’epidemia sono ancora insufficienti ©
Vincent Tremeau[/caption]
“L’opinione più diffusa è che i finanziamenti pubblici non siano
sufficienti a raggiungere gli obiettivi di sviluppo e che il
settore privato possa fornire magicamente il denaro necessario. Ma
i privati non forniscono denaro gratuitamente” commenta ad
Altreconomia Tim Jones, responsabile delle politiche di
Jubilee Debt Campaign,
una coalizione britannica di organizzazioni che si battono per la
cancellazione del debito dei Paesi più poveri. “Sarebbe stato molto
più efficiente per il settore pubblico finanziare un proprio fondo
piuttosto che perdere denaro per finanziare il profitto dei
privati”. Soldi che potrebbero sostenere progetti per l’accesso ai
farmaci essenziali. A novembre l’Agenzia europea per i medicinali
ha approvato la commercializzazione di un vaccino che si è
dimostrato efficace nel prevenire l’Ebola e che è già stato
somministrato a migliaia di persone in Repubblica Democratica del
Congo. Ma, come denunciato da Medici Senza Frontiere, le dosi
necessarie a garantire una copertura vaccinale tale da contenere
l’epidemia sono ancora insufficienti.
Nel campo della salute globale esistono altri fondi creati per
raccogliere risorse da impiegare in casi di emergenze sanitarie e
umanitarie, come il Central Emergency Relief Fund (Cerf) delle
Nazioni Unite e il Contingency Fund for Emergencies (Cfe) dell’Oms.
Entrambi sono finanziati attraverso donazioni volontarie e per
questo hanno dovuto lottare spesso contro la mancanza di risorse.
Il Pef, sfruttando gli investimenti privati come fonte di
finanziamento alternativa, sulla carta rappresenterebbe un modello
innovativo di supporto alle popolazioni colpite da crisi sanitarie.
Ma i criteri estremamente rigidi e poco flessibili di questo
strumento hanno invece favorito gli interessi degli speculatori.
Un’analisi effettuata da due ricercatori della London School of
Economics and Political Science (Lse) ha confrontato i criteri di
pagamento dei due fondi istituiti dalle Nazioni Unite e dall’Oms
con quelli del Pef. Sono stati considerati 28 casi di epidemie
scoppiate a causa di malattie come Ebola o influenza AH1N1. Da
quando il Cfe è stato creato alla fine del 2015, ha fornito 25
aiuti economici per questi eventi. Il Cerf, attivo dal 2006, è
intervenuto 41 volte. Secondo la stima degli autori se questi due
strumenti avessero avuto gli stessi criteri del Pef, avrebbero
fornito aiuti soltanto in due dei 28 casi di epidemia
considerati.
2.250 i morti causati a metà febbraio 2020 da Ebola nella
Repubblica Democratica del Congo. La prima epidemia (2014-2016) ne
aveva causati 11mila nell’Africa occidentale
La mancanza di aiuti non ha conseguenze solo in termini di costi
umanitari. I Paesi colpiti da disastri, come quelli ambientali o in
questo caso sanitari, rischiano di aumentare il loro debito
pubblico per farvi fronte, rendendo più difficile proteggersi da
futuri disastri. Attualmente la Repubblica Democratica del Congo
spende in media il 7% delle sue entrate per il pagamento del debito
estero. “Nonostante sia inferiore alla media dei Paesi africani, il
pericolo è che questo aumenti a causa dell’epidemia di Ebola, come
è successo in Sierra Leone durante l’epidemia del 2014-2016” spiega
Tim Jones. Il debito estero della Sierra Leone è aumentato dal 6%
del 2016, al 13% nel 2019 e si stima che arriverà al 19% entro il
2022. Il 40% di questi pagamenti è destinato al Fondo Monetario
Internazionale che, nonostante la cancellazione di 29 milioni di
dollari di debito contratto dal Paese africano, ha continuato a
prestargli soldi durante l’emergenza (254 milioni tra il 2015 e il
2017). Oggi il governo della Sierra Leone è costretto a tagliare la
spesa pubblica pro capite. “La Repubblica Democratica del Congo è
un Paese molto più grande della Sierra Leone. Per questo i segni di
una crisi economica causata dall’epidemia di Ebola non sono ancora
evidenti. Credo quindi che ci siano poche possibilità che il debito
del Congo venga cancellato in questo momento in risposta alla crisi
sanitaria”, aggiunge Tim Jones.
I Paesi colpiti da disastri, come quelli ambientali o in questo
caso sanitari, rischiano di aumentare il loro debito pubblico. Il
caso della Sierra Leone
La Banca Mondiale ha dichiarato che sono in corso le discussioni
sulla realizzazione del Pef 2.0. Per i ricercatori della Lse, date
le difficoltà affrontate da molti fondi per raccogliere soldi dai
donatori, le capacità finanziarie del Pef potrebbero colmare questa
lacuna solo se si introducessero modifiche ai criteri di pagamento.
In particolare è necessario eliminare i criteri numerici che
prevedono un numero minimo di morti in almeno due Paesi e che sono
alla base di questo strumento finanziario. In questo modo si
eviterà di erogare gli aiuti quando l’epidemia si sarà trasformata
in pandemia, favorendo la risposta immediata che avrebbe dovuto
caratterizzare il Pef. Secondo Jubilee Debt Campaign, invece, le
soluzioni non possono arrivare dai privati. Per disporre di fondi
rapidi per fronteggiare un’emergenza sanitaria sono necessarie
moratorie immediate sui pagamenti del debito. Inoltre, gli aiuti
dovrebbero essere forniti attraverso sussidi piuttosto che
attraverso i prestiti. Soltanto così, per gli attivisti della
campagna per la cancellazione del debito, sarebbe possibile dare
priorità alla sicurezza sanitaria globale rispetto agli interessi
degli investitori.
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