Ars intelligendi
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Un'indagine sull'intelligenza e sul pensiero dalla prospettiva di Hofstadter

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Un'indagine sull'intelligenza e sul pensiero dalla prospettiva di Hofstadter

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Che connotazione avrebbe l'intelligenza se la esaminassimo senza il pregiudizio dei limiti umani? L'intelletto dell'uomo potrebbe essere solo una delle sue potenziali espressioni? Una forma di intelligenza evoluta potrebbe spingersi così in là da riuscire a vedere con chiarezza imeccanismi alla base del pensiero? L'autore riflette sull'intelligenza nella sua espressione più pura, libera dalle caratteristiche umane che sembrano imprigionarla in una sola manifestazione.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788831352437
Capitolo 1

Tipi di intelligenza

Nel nostro sciovinismo, noi chiameremmo intelligente ogni essere con un cervello abbastanza simile al nostro, e rifiuteremmo di riconoscere come intelligenti altri tipi di oggetti.
Hofstadter, 1990
In questo capitolo cercheremo di fare delle riflessioni su quali siano gli ingredienti dell’unicità dell’essere umano. Una serie di aspetti che una volta messi in relazione nella mente del lettore, contribuiranno a diminuire il misticismo che da tempo contraddistingue l’umanità, per poter avere degli elementi cardine su cui ragionare riguardo l’intelligenza.
L’intelligenza artificiale è da sempre accomunata allo studio dell’essere umano. L’idea di riprodurre artificialmente le capacità cognitive umane ha certamente aiutato nell’intento di comprendere la mente umana, ma non è detto che ci si debba limitare a questo.
Negli ultimi anni rispetto alla stesura di questo scritto c’è stata una forte diffusione dello studio e dell’applicazione di tecniche di apprendimento automatico (più conosciute come machine learning). Esse attengono a un ramo dell’intelligenza artificiale dedicato a simulare comportamento intelligente in domini applicativi definiti. Qui, riferendoci all’intelligenza artificiale, ci staremo implicitamente riferendo a quella generale, ossia a una mente creata artificialmente che veda l’accendersi del barlume dell’intelligenza. Alcuni la chiamano “singolarità” (lo faremo anche noi), l’importante è chiarire che qui non ci riferiremo a simulazioni di sorta, e che ai giorni della stesura di questo scritto non esiste un modello completo di come dovrebbe essere organizzata una mente.
L’intelligenza artificiale, in quanto frutto di artificio, avrà delle differenze dai meccanismi biologici tali per cui può aiutare a riflettere sul concetto di intelligenza in sé, sulla sua ragione d’essere indipendentemente dall’essere umano. In questo capitolo ci chiederemo se l’umanità non sia solo una tipologia di essere intelligente, una tipologia che eleva l’intelligenza per alcuni aspetti, ma che di certo non esprime tale fenomeno al suo massimo potenziale.
È importante precisare che quando, nel seguito, si farà riferimento alla robotica, si farà riferimento alla parte corporea di un eventuale agente intelligente (l’insieme di sensori e attuatori per interagire con il mondo). Nell’ambito della robotica, non è scontato che un robot includa anche una qualunque implementazione di apprendimento automatico. A parte eccezioni chiarite esplicitamente, riferendoci all’intelligenza artificiale ci riferiremo a una architettura con capacità cognitive. Chiameremo invece il robot dotato di meccanismi di apprendimento e ragionamento “agente” o “agente intelligente”.

1.1. Uno spettacolo naturale

Attraverso la selezione naturale diverse specie si sono adattate all’ambiente per sopravvivere. Tuttavia l’uomo è risultato come un caso particolare per aver sviluppato una capacità intellettiva che gli permette di andare ben oltre la sopravvivenza. Rifletteremo su cosa possa rendere un essere umano ciò che è, cosa definisce la sua identità, e cosa lo ha portato ad avere proprio una tale identità.
Per quanto un inizio del genere possa far pensare a un prosieguo ricco di misticismi, sarò molto pratico, e nella visione che vorrei trasmettere pare inevitabile una piccola riflessione sui sensi, e sul corpo umano.
Quando nasciamo i nostri genitori ci trasmettono un’eredità genetica. Sembra particolarmente adatta la parola “eredità”, dopo tutto l’evoluzione naturale è quel processo inesorabile per cui i più forti resistono e si riproducono, mentre i deboli soccombono. Quindi, rispetto al processo di evoluzione della specie, il solo fatto che un individuo sia arrivato a trasmettere il proprio corredo genetico potrebbe essere visto come il frutto dell’impegno a restare vivo, e come tutti i lasciti trasmessi dopo averli preservati dalla distruzione (magari con fatica), sembra naturale riferirsi al corredo genetico come a un’eredità.
Questa eredità, molto, molto ricca, non è fatta solo di indicazioni su come dovrà svilupparsi il nostro aspetto, dice tutto di noi, dice di come dovranno funzionare tutte le cellule del nostro corpo, e quindi ciò che formeranno, come organi, ghiandole, muscoli, tendini, e tanto altro. Per questo certamente troveremo nel nostro corredo genetico anche indicazioni su come dovrà essere gestita la produzione di sostanze che, oltre a essere funzionali alla sopravvivenza, a seconda della loro quantità andranno a influire sul nostro umore, sul nostro modo di affrontare le situazioni, sul nostro carattere.
Daniel Dennett (Dennett e Hofstadter, 1985) espone un esperimento mentale intitolato Dove sono?, in cui l’autore è il protagonista. La storia vede un progetto segreto del Pentagono in cui l’autore viene ingaggiato per una missione ad alto rischio per i tessuti celebrali, in cui, per ovviare al rischio, è pianificata un’operazione chirurgica di esportazione del cervello. Quest’ultimo verrebbe posizionato in una vasca ed equipaggiato di una serie di trasmittenti e riceventi atta a comunicare con il sistema nervoso del corpo. Il protagonista della storia accetta, parte per la missione, e a causa di un incidente perde definitivamente il suo corpo. Così dopo un anno di sonno non percepito, di sonno senza sogni, gli viene assegnato un nuovo corpo. Il protagonista ha la sensazione che il suo io sia rimasto invariato, convincendosi che uno scambio di corpo non sortisca effetto sulla personalità.
Proverò a introdurre gli ingredienti della ricetta dell’io, così come credo sia composta. A valle della sua introduzione sono convinto che sarà evidente la mia posizione riguardo la conclusione della storia appena sintetizzata (ma di cui suggerisco caldamente la lettura). Un primo ingrediente penso sia l’impatto del corredo genetico sui meccanismi interni del corpo umano. Per questo, a cervello esportato, delle due l’una: se il cervello non influisce sulla produzione delle sostanze (come ad esempio l’adrenalina), o se invece, a fronte della produzione del corpo, al cervello non vengono artificialmente fornite le sostanze, allora non ci sarà una percezione del mondo esterno come l’avrebbe l’individuo originale, la personalità verrebbe inevitabilmente compromessa; se invece la comunicazione prevede anche la condivisione delle sostanze, allora un cambio di corpo, cresciuto con un corredo genetico differente, prevederà una produzione di sostanze differente, anche in questo caso influenzando il sé, inevitabilmente1.
Tra tutte le modalità di funzionamento che il corredo genetico definisce, ce n’è una parte che risulta essere anch’essa centrale e determinante nella definizione dell’io, ossia tutta la parte riguardante i sensi. Essi sono a tutti gli effetti la nostra finestra sul mondo, senza di essi saremmo completamente isolati, e la nostra esistenza perderebbe ogni genere di scopo e di opportunità. Riprendiamo l’esperimento mentale Dove sono? in Dennett e Hofstadter (1985). Fatta l’operazione Dennett chiede di poter fare visita al suo cervello, e viene accontentato. Mentre lo guarda una serie di interrogativi filosofici lo aggrediscono, la cui essenza riguarda l’ubicazione della sua coscienza. Dennett ipotizza di essere dove è il corpo, poi dove è il cervello, poi in entrambi i posti, per poi concludere che lui è dove è la prospettiva. Non poteva esserci alcuna altra conclusione. La domanda su cui il protagonista della storia si stava interrogando non riguarda lo spazio-tempo occupato dalla sua materia, in tal caso la risposta sarebbe ovvia. La domanda riguarda la coscienza, quindi la consapevolezza del sé. La consapevolezza passa inevitabilmente dalle percezioni esterne, dai sensi, dall’interazione col contesto. Il genere umano ha per natura un corredo di sensi, la cui sensibilità agli stimoli esterni e la cui modalità di trasmissione dei flussi di dati sono regolati dai geni. Certo grossomodo esiste un intervallo di sensibilità dei nostri strumenti biologici di misurazione in cui va a posizionarsi la capacità di percezione, così come esiste una modalità di massima di trasmissione dei flussi di dati. Tuttavia microscopici dettagli possono variare da individuo a individuo, e tali differenze possono anche far variare la modalità di percezione degli stimoli da parte del cervello, che, dalla nascita, impara a gestire i sensi a disposizione.
L’importante riflessione da fare a questo punto è che nella fase di costruzione da parte della mente della struttura per accogliere la conoscenza appresa dal mondo esterno, la modalità con cui i flussi arrivano al cervello influenza con decisione la rappresentazione che ognuno ha del contesto. Basti immaginare, come esperimento mentale, come sarebbe stata diversa la conoscenza nella nostra mente se avessimo avuto a disposizione un senso in meno rispetto a ciò che abbiamo. È chiaro che qualunque scenario il lettore stia immaginando, esso sarà vaga approssimazione, poiché le nostre menti sono già state plasmate dalla presenza dei sensi con cui siamo nati (anche se uno di essi dovesse esser venuto meno successivamente), per cui risulterebbe impossibile a chiunque immaginare in modo verosimile i flussi mentali di chi ha rappresentato tutta la propria conoscenza sul mondo con un senso in meno dalla nascita. Ecco allora un altro ingrediente che ci rende ciò che siamo: l’insieme di canali che raccolgono dati dal mondo inviandoli direttamente al cervello per la loro elaborazione. Hofstadter e Sander (2015) illuminano magnificamente il lettore sulla questione, asserendo che la nostra fisiologia restringe la percezione alle modalità sensoriali standard (vista, udito, ecc.) e alle caratteristiche permesse da quelle modalità (per esempio colori, movimenti e forme); la nostra percezione è vincolata anche dal potere risolutivo dei nostri sensi (il mondo ci apparirebbe molto diverso se il nostro sistema visivo potesse percepire direttamente i microbi). Anche la nostra psicologia limita la nostra percezione, permettendoci di riconoscere e memorizzare gli eventi solo nei termini di certe modalità di codifica. Noi percepiamo attraverso i nostri organi sensoriali, certo, ma in misura non minore attraverso i nostri concetti; in altre parole, non percepiamo solo fisiologicamente ma anche intellettualmente. Le nostre percezioni dipendono dal nostro repertorio di concetti, perché questi ultimi sono i filtri attraverso cui qualunque stimolo nell’ambiente in cui ci muoviamo raggiunge la nostra coscienza. Sensi che determinano i concetti. Concetti che guidano l’interpretazione dei dati dei sensi. Un ciclo, o un anello, che in forma differente, ma direi analoga, ritroveremo più avanti.
Ma se ci sono tutte queste differenze nel modo di rappresentare il mondo esterno nella propria mente, differenze dettate dalle istruzioni di un corredo genetico, differenze solo parzialmente misurabili, che non consentono di far provare a un altro individuo una sensazione con i sensi di qualcun altro, come potrebbe essere replicabile una prospettiva? Essa ha il vincolo inviolabile dello spazio-tempo di un individuo, l’impossibilità di due individui di occupare lo stesso, identico spazio, esattamente nello stesso istante.
Potremmo dire che la combinazione tra l’unicità del corpo e l’inviolabilità dello spazio-tempo sia il fondamento della nostra unicità. Ed è aggiungendo a questa ricetta la serie di esperienze che la vita ci propone, una serie così ricca di variabilità che le due vite considerate più simili sarebbero incommensurabilmente diverse, che arriviamo a completare la ricetta di chi siamo. Una serie di eventi che, da un punto di vista introspettivo, hanno potuto condensarsi nella personalità di chi le ha vissute attraverso degli operatori di gestione della memoria e di ragionamento, che hanno rispettivamente fatto evolvere le esperienze memorizzate, le strutture che le hanno accolte quando esse non avevano più una potenza espressiva sufficiente, che le hanno elaborate per produrre nuovi pezzi di conoscenza, che hanno fatto evolvere gli operatori di ragionamento stessi, apprendendone di nuovi e rendendoli efficienti.
La memoria è anch’essa imprescindibile. L’aspetto che più ci interessa è la sua centralità nella definizione dell’individuo, e quali possano essere i suoi limiti, che costituiscono una peculiarità dell’essere umano. Come essa possa funzionare è di grande interesse per la comunità scientifica in questo momento storico2. Discettare a riguardo non è lo scopo del nostro viaggio, per cui non approfondiremo qui, tuttavia ne apprezzeremo l’importanza più avanti, quando parleremo della conoscenza e dei ricordi. Centralissimi nella definizione dell’io sono anche gli operatori di ragionamento umani, senza modellizzare questi meccanismi non potremmo ricrearne i principi di funzionamento. Come disse il fisico Feynman, quello che non riesco a creare non lo saprò mai capire.
La fusione di manipolazione e memorizzazione di simboli è quel meccanismo fondamentale senza il quale non ci sarebbe un io. Una manipolazione simbolica che in Hofstadter e Sander (2015) gli autori raccontano come un’applicazione perpetua di ragionamento per analogia, che rac­contano come un processo totalmente assimilabile alla categoriz­zazione.
Tutto è codificato, tutti i simboli sono legati tra loro, tra definizioni apprese e ricordi. Simboli che non saranno tutti corredati da un’etichetta linguistica, ma che staranno comunque lì a rappresentare un contesto, o una sua porzione, un’idea o un’emozione. Potremmo pensare all’emozione come quella sensazione che si scatena quando determinate aree del cervello si attivano senza che ve ne sia consapevolezza, un’energia si libera con forza, generando la necessità di inviare al corpo degli stimoli che, a seconda di destinazione ed effetto, potrebbero essere avvertiti come brividi, pelle d’oca, improvviso calore, e così via. Le sensazioni potenti che ci pervadono come un’esplosione, in fin dei conti, da un punto di vista fisico, sono stimoli improvvisi, quasi incontrollati. Dietro questo effetto, queste sensazioni richiamano ricordi a cui sono legate altre emozioni, che si amalgamano con il contesto attuale, e magari con ciò che potrebbe essere futuro.
Tutte queste reazioni cambiano da individuo a individuo. Riusciamo a riconoscerle negli altri grazie a una lunga educazione che ci ha permesso di classificare le nostre sensazioni, non confrontando cosa si scatena in ognuno di noi (poiché non possiamo) ma classificando il risultato di uno stimolo esterno di un certo genere. Alla fine della fiera siamo tutti capaci di immaginare cosa produrrà un certo stimolo, ne richiamiamo l’etichetta linguistica, diamo un nome all’emozione, e magari, grandi linee, riusciamo anche a confrontarci con gli altri raccontando che si prova, provando a ipotizzare quali emozioni possano, contemporaneamente, produrre ciò che abbiamo sperimentato e che vogliamo raccontare, emozioni primarie, quasi come fossero i colori primari da usare per formare tutte le tonalità delle emozioni.
Sembra inevitabile l’analogia tra comunicare le emozioni e tradurre un testo a favore di un popolo con una cultura radicalmente diversa da quella di partenza. Lo sforzo del traduttore sarà cercare di riportare nell’altra cultura il senso, l’essenza del messaggio attraverso modi di dire e aneddoti propri della cultu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. Indice commentato
  7. Prologo
  8. Capitolo 1. Tipi di intelligenza
  9. Capitolo 2. La rappresentazione della conoscenza
  10. Capitolo 3. Gli operatori di ragionamento e apprendimento
  11. Capitolo 4. La potenza della manipolazione e il calcolo che la rende possibile
  12. Capitolo 5. La singolarità
  13. Epilogo
  14. Appendice
  15. Ringraziamenti
  16. Bibliografia essenziale
  17. Credits