Michele T.
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“Michele T.” è il viaggio umano e professionale di Michele Tito, giornalista e corrispondente tra i più autorevoli della seconda metà del Novecento.
In un’atmosfera surreale, su di un mezzo di trasporto particolare, l’Autore trasferisce il lungo cammino del protagonista, dalla Napoli del dopoguerra, alla guerra d’Algeria, alla Cina di Mao e Ciu En-Lai, dagli anni del terrorismo e del sequestro Moro alla caduta del comunismo in Unione Sovietica, fino all’attentato alle Twin Towers, in uno scenario apocalittico che ha informato il mondo nel secolo appena trascorso.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865126707

Capitolo V

“Il ritorno in Italia da Parigi coincide con l’incarico di capo della redazione romana de La Stampa. L’inizio degli anni Sessanta per l’Italia, come del resto per la maggior parte delle democrazie occidentali, è un periodo di complessiva prosperità, anche se ricco di mutamenti politici. Negli Stati Uniti la presidenza Kennedy imbocca la strada delle riforme sociali, ma il dato interessante è segnato dal successo nella controversia legata alla presenza di missili sovietici a Cuba. Di lì a poco Stati Uniti ed Unione Sovietica avrebbero siglato l’accordo per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, mentre la Cina di Mao avrebbe rotto la sua alleanza con i sovietici, rivolgendo lentamente il proprio interesse verso gli Stati Uniti. Mao, tra il ‘65 e il ‘68, promuove un movimento di contestazione giovanile che, come nel resto del mondo, scuote la cultura dominante, prendendo il nome di rivoluzione culturale. Nel frattempo, anche negli Stati Uniti si sviluppa un movimento analogo che vede le giovani generazioni americane opporsi con forza all’intervento militare statunitense in Vietnam. In Unione Sovietica, la politica di Breznev si concentra sulla repressione dei dissidenti, accanendosi contro il tentativo riformatore di alcuni paesi comunisti legati al patto di Varsavia. La prima ad insorgere è l’Ungheria, ma i carri armati sovietici soffocano nel sangue la rivolta. Dopo l’Ungheria, Praga. Dubcek guida la contestazione che passerà alla storia con il nome di Primavera di Praga, repressa militarmente nell’estate del ’68. L’Europa vive l’ennesima pagina buia da affidare alla Storia, mentre in Italia l’economia attraversa una fase di intenso sviluppo che va sotto il nome di boom economico. Questo stato di crescita produttiva, dovuto anche alla crescita della popolazione mondiale, ha origine negli Stati Uniti. Gli americani fanno da traino alla ripresa dell’economia mondiale. Lo sviluppo tocca prima di tutto l’industria e poi l’agricoltura, potenziando e modernizzando entrambi i settori. È il 1969, l’anno dello sbarco sulla luna. Il decennio dal ’50 al ’60 vede lo sviluppo di un nuovo settore, il terziario e di un nuovo potentissimo mezzo di comunicazione, la televisione. Quest’ultima ha anche un ruolo fondamentale nel condizionare la vita ed i modelli comportamentali e nell’indurre nuovi bisogni, superflui, nella popolazione delle società industrializzate.”

“Ha adoperato il termine superfluo, facendo riferimento ai nuovi bisogni della società. Ho l’impressione che la comunicazione del piccolo schermo non la ispiri più di tanto. Mi sbaglio?”

“Beh, il mezzo televisivo brucia le tappe, offre immediatezza, ma ciò non significa che il giornale stampato sia superato, al contrario è vero che la riflessione attenta e meditata su importanti avvenimenti si realizza con maggiore acutezza sulla carta stampata. Circa la qualità poi, si può fare cattiva informazione sia attraverso la televisione che attraverso la carta stampata. Tutto dipende da chi s’accosta alla notizia e con quale spirito. Ho partecipato agli inizi della mia carriera a qualche trasmissione televisiva come moderatore di tribune politiche, ma poi sono tornato subito alle origini, consapevole di essere un giornalista più a suo agio con la macchina da scrivere, anche se tale opzione mi avrebbe dato meno notorietà rispetto ai colleghi più avvezzi alla telecamera.”

“Lei ha fatto riferimento al ’68, alla Rivoluzione culturale cinese. Ma c’è anche una contestazione studentesca che riguarda l’Europa, la Francia innanzitutto e poi l’Italia. Le differenze tra i due movimenti culturali sono enormi. Non le pare?”

“Ha perfettamente ragione. Ma sarei venuto subito all’argomento, marcando le differenze tra i due movimenti di contestazione. La Rivoluzione culturale cinese risponde ad un preciso scopo, pilotato dallo stesso Mao, per rafforzare il regime e le logiche che ad esso erano sottese. In Europa i giovani nati alla fine della guerra si rivoltano proprio contro la realtà di una società consumistica che si stava formando, esprimendo il rifiuto delle convenzioni e della logica imperialista degli Stati Uniti. Non dimentichi, come le dicevo, che il movimento approda in Europa proprio dagli Stati Uniti, caratterizzandosi inizialmente nella creazione di una cultura alternativa a quella cosiddetta dominante. I principi che caratterizzano la protesta si possono riassumere nell’affermazione della non violenza, della religiosità orientale, legata al buddismo e all’induismo e della libertà di espressione in ogni campo. Un movimento culturale che poi si evolverà in forma più politicizzata, sviluppando un proprio pensiero politico specifico con i centri situati nelle università, divenute luogo d’incontro di un ceto studentesco più ampio e socialmente più articolato rispetto alle élite del passato. Il movimento esplode in una serie di rivolte, la cui espressione più forte è la guerriglia urbana scoppiata a Parigi nel maggio del ’68. Le forze di polizia si oppongono armate agli studenti francesi, ai quali si uniranno anche i sindacati e i partiti di sinistra. Lo stesso avviene in Italia. La generale ondata di contestazione lascia segni permanenti nella mentalità comune e nella società borghese, investendo anche la questione femminile con la rivendicazione dei diritti fondamentali ed una nuova posizione della donna nella famiglia, nella politica e nel lavoro.”

“Ha fatto riferimento prima al movimento giovanile promosso da Mao. Ma cosa si verifica in Cina, quando esplode la Rivoluzione culturale?”
“Una circolare di Mao esorta a sparare sul quartiere generale. Nell’università di Pechino un gruppo di studenti guidati da una ragazza affigge il primo tazebao contro i dirigenti del partito, il rettore, i professori, gli insegnamenti borghesi e la cultura corrente. I giovani sono invitati alla rivolta con la formazione a Shangai, roccaforte della sinistra, dei primi nuclei di guardie rosse che muovono verso la capitale. Un’avvisaglia delle gigantesche trasmigrazioni che dovevano sconvolgere la Cina, l’inizio del più grande sovvertimento politico, sociale e culturale che l’umanità abbia mai conosciuto, l’avvio di un’avventura fino ad allora inimmaginabile. I riflessi e le conseguenze saranno immensi, la Rivoluzione culturale proletaria si dimostrerà una vicenda terribile e mostruosa abilmente manovrata nella logica dell’esercizio del potere dal grande timoniere. Nulla si sapeva dei milioni di morti e della inutile distruzione degli stessi strumenti del progresso della Cina. Non si sospettava che il titanico sovvertimento che aveva affascinato il mondo era fatto di lacrime e sangue, esasperando oltreconfine il radicalismo ideologico che aveva messo la stessa Cina in ginocchio privandola di ogni ragione e annientandone l’economia. Per molte ragioni l’Italia fu tra i paesi europei quello che più di ogni altro subì le conseguenze indirette della Rivoluzione culturale nella sua apparenza epica. La Sinistra, la più forte del continente europeo, si trovò in preda a contraddizioni insuperabili, il potere più insicuro che altrove dovette seriamente temere rivolgimenti epocali di masse e di strutture. Complessivamente ne derivò per la nostra vita civile e politica una specie di rottura della continuità. Venne il tempo dell’arroganza degli slogan e delle idee della ripulsa e del sospetto. Di fronte a un evento così gigantesco era naturale, nell’ottica dell’epoca, convincersi che ci si trovava di fronte a un fenomeno che veniva dalle viscere di una società che apparteneva alle esigenze dei tempi nuovi. Se l’Inghilterra rimaneva distaccata, se la Germania non aveva mai smesso di cercare di capire ed era stata sempre scettica, se la Francia aveva seguito l’evento problematicamente, l’Italia ne fece quasi una questione di politica interna, un riferimento per i confronti e gli scontri nelle scelte da fare in vista del futuro. Né gli intellettuali s’accorsero che questo era eccessivo, né i giornali poterono valutare quel che stava accadendo. Per l’Italia insicura di sé e sottomessa culturalmente all’arroganza ideologica, lo straordinario esempio cinese era una cosa che superava le sue capacità critiche.”

“E la posizione della Chiesa in questa nuova visione della società?”

“La Chiesa cattolica percepisce la generale ondata riformista di quegli anni e, trovando piena rispondenza nella critica dei valori espressi dal consumismo avvia un processo di rinnovamento interno, concedendo una maggiore attenzione ai problemi del mondo contemporaneo. Questo processo avviato da Giovanni XXIII, trova la sua sintesi nel Concilio Vaticano II.”

“Un periodo storico di grande interesse.”

“E di crescita sociale, ma del resto ogni periodo storico ha il suo interesse. Di ritorno da Parigi, come le dicevo, dopo sei anni mi ritrovo a Roma, capo della redazione romana de “La Stampa”. Un’altra esperienza interessante, legata alla riapertura da parte della Cina all’Europa. Sono il primo corrispondente occidentale, al seguito della delegazione guidata dal ministro Zagari, ad essere ricevuto da Ciu En-Lai.”

“Un viaggio lunghissimo!”

“Eh, sì! Un viaggio lungo, un’esperienza che mi ha consentito a distanza di anni di intendere appieno il fenomeno Cina. Per stabilire il contatto coi cinesi l’Italia si rivolge alla Francia. Il direttore degli affari politici del Quai d’Orsay fa i suoi passi e porta ai diplomatici italiani la risposta dell’ambasciatore cinese, il quale aveva avuto istruzioni dal suo governo che era lietissimo di accettare il contatto, ma faceva sapere che la Cina era eterna. Al primo incontro privato, tra sorrisi e cortesie, Wang Chek spiega che la Cina è eterna, possiede la calma, la prudenza e la saggezza. Alcune settimane dopo l’incaricato cinese per le trattative comunica che il suo governo riconosce che l’Italia è eterna e possiede la calma, la prudenza e la saggezza, ma che è diffidente e questa è una contraddizione. La verità è che i cinesi erano molto diffidenti e per meglio capire il nostro pensiero si tenevano in contatto coi francesi, i quali informavano discretamente gli italiani e gli italiani che, a loro volta, cercavano, attraverso i francesi di capire i cinesi. Tutti i dati, tutte le informazioni, da qualsiasi parte venissero, erano vagliati dagli italiani ai fini dei negoziati, ma ciò che i delegati cinesi non potevano dire lo si ricavava dai resoconti delle missioni francesi a Pechino e dalle indiscrezioni che i cinesi affidavano ai francesi. Il ministro Bettencourt, che aveva guidato una delegazione francese in Cina, fece intendere che molti ritardi, molte sfasature non erano intenzionali, dal momento che nella Cina eterna non c’è chiarezza cristallina d’idee. Ricevuto da Mao, Bettencourt constatò con stupore che il vecchio presidente non rispondeva a nessuna domanda senza prima aver consultato Ciu En-lai e quando c’era da dire qualcosa di importante interveniva direttamente, mentre constatavamo che si parlava sempre meno di Mao, notando che erano cessate le parabole e i proverbi a lui cari. Apprendemmo della contrarietà di Ciu En-lai nei confronti di Kruscev, del quale era ancora vivo il ricordo del revisionismo, ed imparammo che per i cinesi Stalin andava considerato anch’egli con qualche riserva, perché per il settanta per cento era comunista, per il trenta certamente un assassino. Al ministro Bettencourt i dirigenti di Pechino dissero che anche Stalin era in contraddizione, perché non si poteva essere comunisti e assassini allo stesso tempo, e che la Cina disprezzava i cosiddetti maoisti occidentali, e che essi non erano gli scalcinati disperati che i maoisti europei pretendevano che fossero e che al contrario dell’Unione Sovietica non facevano una politica di penetrazione in occidente perché non erano in condizione di farla. Quando a quel tempo molti maoisti volevano raggiungere la Cina, essi ne ridevano, affermando che non uno di loro sarebbe mai entrato nel Paese. Ai gruppi di giovani che in Europa manifestavano innalzando foto di Mao, fecero sapere che il fatto li copriva di vergogna, ma dissero pure che la cosa faceva loro un po’ comodo, perché metteva in difficoltà i partiti comunisti, soprattutto quello italiano, il più subdolo, il più pericoloso e il più traditore. Essi non volevano avere niente in comune con i maoisti occidentali, certamente pagati, secondo loro, dai capitalisti e attendevano il momento opportuno per sconfessarli solennemente. Egualmente revisionisti erano i sovietici e gli jugoslavi. Interi pomeriggi, durante le fasi stagnanti dei negoziati, erano consumati a parlare del Vaticano e della sua politica. I cinesi sapevano tutto, nomi situazioni precedenti, ma volevano sapere sempre di più, sapevano tutto delle sinistre e dei movimenti di contestazione cattolica in tutti i paesi, li condannavano come alleati potenziali dei comunisti revisionisti. Francesi e italiani per settimane si consultarono su alcune confidenze cinesi, mentre gli ambasciatori di Pechino dicevano che il Vietnam era una spina nel fianco della Cina e che i russi alimentavano la guerra perché volevano mantenere l’America in Asia contro di loro. Gli occidentali all’inverso affermavano che fossero gli stessi cinesi a volere la presenza americana per non trovarsi soli coi russi. Quando gli americani entrarono in Cambogia, le autorità chiarirono subito che il primo ad ingannarle era stato Stalin e che sotto la sua guida l’Unione Sovietica aveva cominciato a vendere a peso d’oro macchine vecchie ed inservibili. Una vera truffa. Ma di tutti gli occidentali gli americani erano i meno malvisti dai cinesi, perché mentre gli altri diffondevano l’oppio in Cina, gli americani mandavano medici e missioni filantropiche. Fino a quando gli Stati Uniti sostennero che Formosa era un’altra Cina, con gli americani non fu possibile dialogare. Questi i preliminari che portarono all’apertura di normali relazioni diplomatiche tra l’Italia e la Cina, un importante successo di Pechino per il quotidiano francese “LeMonde” che vedeva nella disponibilità cinese la volontà di affrettare i tempi nel campo delle relazioni internazionali. Così iniziava l’avventura in terra cinese. Dopo dodici ore di volo atterriamo all’aeroporto di Shangai. Il primo contatto con la Cina è una sconfitta.”

“Perché una sconfitta?”

“Presto capirà. Una volta atterrati, non ci fu tempo di volgersi intorno che uomini in blu e in grigio mi avvolgono in una cortina di sorrisi, mi sorreggono come se fossi un invalido e tra mille complimenti mi guidano fino all’interno dell’aerostazione. Nel grande atrio c’è un attimo di sosta con la fitta schiera degli accompagnatori sorridenti che si dirada e mi ritrovo solo ai piedi di una grande statua di Mao in marmo bianco, un braccio teso come per salutare, e gli altoparlanti che diffondono le note lente dell ’Oriente è rosso. Dominava il colore rosso dei pannelli con i Pensieri in cinese, inglese e francese. Era tutto lindo, funzionale, modesto, i divani, le poltrone, i tavolini e le ragazze in tunica bianca che si aggiravano silenziose versando thè nei bicchieri ovunque disposti. Bisognava sempre sedersi, riposarsi, assicurare di sentirsi bene a funzionari ed inservienti, soldati e curiosi. Quando gli altoparlanti cominciano a diffondere pensieri di Mao si capisce che non rimane altro da fare che abbandonarsi alle cure della Cina che pensa agisce e provvede per il meglio. Il passaporto, il biglietto di viaggio, i bagagli, tutto era nelle mani dei cinesi. I bagagli li ritrovo in albergo a Pechino, in una camera preparata per il conforto dello straniero stanco, con frutta, latte, dolciumi, sigarette, fiammiferi, pantofole, fiori e biglietti di benvenuto redatti nella lingua dell’ospite. Era tutto previsto. C’era gente pronta ad accompagnarti se volevi uscire subito, gente che attendeva di soddisfare ogni richiesta. Nessuno sapeva dire cosa era accaduto del passaporto o del biglietto di viaggio, ma tutti sorridevano ed esortavano a non preoccuparsi. Erano stati prenotati posti a teatro, se si voleva andare a teatro, era pronta la cena alla cinese se si voleva cenare alla cinese, era pronto il pranzo all’europea se si voleva mangiare all’europea, e c’era la guida impaziente di accompagnarti nei negozi a fare acquisti, se si voleva. La Cina pensava a tutto, provvedeva a tutto, materna, avvolgente, protettrice, accompagnava l’ospite con uomini che raccomandavano di coprirsi bene se faceva freddo, che si stringevano al fianco con l’ombrello se pioveva, che rintracciavano l’ospite ovunque egli si trovasse se per caso aveva dimenticato una monetina all’aeroporto o una biro in un ufficio postale. Discrete le domande. Come vi sentite? Il cambiamento d’aria non vi dà fastidio? Avete fatto buon viaggio? È sicuro che non vi siete stancato? È sicuro che non avete attraversato tempeste? Avete sete? L’aria è forse troppo secca per voi? Ingenue in apparenza le indagini sulle intenzioni dello straniero. Siete venuto già altre volte in Cina? Venite spesso? Bisogna tornare, la vostra visita è troppo breve, come farete a vedere tutto, a parlare con tutti, a capire la Cina? Ci si sentiva quasi in colpa, i cinesi rimproveravano garbatamente allo straniero ciò che lo straniero si illudeva di rimproverare ai cinesi. C’era a Pechino, non so se esiste ancora, nei pressi della città proibita, un ristorante famoso per la sua anatra laccata, si chiamava L’estrema essenza della virtù. Se quella era la meta per la cena, i complimenti erano senza fine e volti felici approvavano il buon gusto dello straniero, esaltavano la sua cura nell’informarsi prima di giungere in Cina delle cose belle del paese. All’ora di cena ci si trovava al ristorante dell’albergo dinanzi ad una tavola imbandita, circondati da camerieri mai distratti, assistiti da amici che sembravano nati per curare l’alimentazione dell’ospite. Era l’ora in cui tacevano gli altoparlanti e già Pechino si preparava alla notte. I cinema erano chiusi, stava per terminare lo spettacolo all’Opera, ove si applaudiva ogni sera La ragazza dai capelli bianchi, salvata dai soldati dell’esercito di liberazione sotto il regime dei Signori della guerra. A questo punto per i cinesi lo straniero era stanco. Cominciavano i primi accenni. Un viaggio lungo, una giornata faticosa sono duri, non è vero? Poi sempre più espliciti. Un proverbio dice che non c’è niente di meglio, quando si passa da un luogo all’altro, di un letto per dormire. Alla fine, dopo esserci scusati di non aver visitato prima la Cina, dopo aver assicurato che d’allora in poi le visite sarebbero state più frequenti, dopo aver promesso che di ogni aspetto, di ogni problema, di ogni particolare lo studio sarebbe stato accurato e minuzioso, dopo avere convenuto che occorreva guardare non ai pregi ma ai difetti per fare critiche e proporre rimedi, dopo aver ammesso che la Cina non attendeva altro che i suggerimenti di uno straniero curioso e smaliziato per correggere i propri errori, ricevuto elogi e ringraziamenti per tutto questo, la buona notte, dolcissimo invito a chiudere la giornata e andarsene a letto, era poetica e irresistibile. Siete venuto da molto lontano per vederci e conoscerci, avete percorso tanti mari e visto tante terre. Vorremmo ascoltare i vostri racconti. Ma non possiamo profittare ancora, vi lasciamo riposare. E non c’è altro da fare. Quando lo straniero, ormai solo, decideva di non dormire e di lasciare la propria camera, sentiva, uscendo dall’albergo, d’aver tradito una lunga amicizia e percorreva, dominato da un senso di colpa, i larghi viali di una città silenziosa, incontrava pochi uomini in bicicletta, incrociava soldati solitari e invano cercava un segno di vita. Tutti dormivano, chiusi nelle case a un piano raccolte a gruppi negli ampi cortili circondati da mura rosse e grigie. Non si udiva una voce dall’interno. Davanti ai negozi di ortaggi c’erano mucchi di frutta e verdura, dinanzi ai grandi magazzini casse e scatole che contenevano ogni genere di merce e che nessuno avrebbe toccato. C’erano biciclette appoggiate ai muri, costavano due mesi di salario di un operaio, nessuno temeva che potessero scomparire. Verso l’una di notte anche i nottambuli erano scomparsi, le arterie del centro e le straducce della città vecchia erano totalmente deserte. Passavano solo, di tanto in tanto, le autobotti gialle e rosse che innaffiavano le strade che luccicavano lindissime e riflettevano il rosso dei caratteri al neon dei pensieri di Mao, che sembravano vegliare sulle notti austere dei soldati, dei contadini e degli operai. Era in questo modo, non vinto dal mistero ma smarrito in un mondo diverso, che lo straniero entrava in contatto con la Cina.”

“Un approccio suggestivo, anche se condizionato.”

“Un condizionamento che al primo impatto, come le dicevo, somiglia ad una sconfitta che col passare dei giorni non si dimostrerà tale. In primavera Pechino passa di colpo dalla notte fonda al giorno chiaro. Il cielo rimane qualche istante avana, poi un bianco di latte avanza a ondate, via via più abbagliante. Si spengono rapide le luci, prima quelle fastose della piazza Celeste, poi quelle rade e fioche delle stradine più popolose, e d’improvviso i tetti della città, tutti i tetti, quelli grigi delle abitazioni nella cinta urbana, quelli marroni e giallo delle periferie lontane e quelli di maiolica verde, rosa e blu della Città proibita brillano intensamente, come di luce propria. È come se il fulgore del sole venisse dai tetti. In quel momento la città è tutta sveglia, tutte le strade fitte di gente, i mercati già affollati, ed esplodono i rumori con camion che trasportano uomini e donne al lavoro, autobus color crema che percorrono la via della Lunghissima Pace con i ciclisti che s’affollano, a migliaia, in lunghe code agli incroci. Dal centro e dai quartieri operai che si stendono dietro l’antica città tartara, giungono sulla piazza della Pace celeste colonne di giovani in tuta blu. Marciavano a volte a passo di corsa dietro la bandiera rossa, la prima fila reggendo un ritratto di Mao canta, ripetendo il pensiero con cui comincia la giornata, quello di fare la rivoluzione e promuovere la produzione. Incrociano altre colonne, incontrano gruppi di scolari che, seduti in circolo sui marciapiedi, si ripetono, il libretto rosso in mano, i pensieri di Mao in attesa che giungesse a prelevarli il pullman della scuola. Gli uni e gli altri si salutano, si festeggiano, si mostrano il libretto rosso e si scambiano applausi. Nessuno era solo, si udivano canti ed esortazioni da tutti gli angoli della città, mentre un vento lieve veniva dal nord e agitava piano le foglie dei grandi alberi. Il paesaggio per un poco è quello delle pitture poetiche e irreali delle antiche sete cinesi. Uno spettacolo! Gli alberi piantati a migliaia avevano mutato il clima di Pechino. Il vento, che prima portava la sabbia soffocante del deserto, ora porta, illanguidita, un po’ di frescura. I negozi sono aperti con i commessi che dispongono le merci in ordine sapiente, giocando coi colori, con le forme, con i volumi, con le colonne in marcia che applaudono, ciascuno mostrando all’altro i segni visibili dell’abbondanza. Nei mercatini e un po’ dovunque vecchi che non vanno al lavoro, donne anziane che non hanno da badare alla famiglia sono seduti intorno a tavolini verdi e mangiano riso, o i grossi spaghetti conditi con una salsa marrone. Passano i giovani e salutano, i vecchi mostrano le scodelle ricolme, mentre, solleciti e sorridenti come se anche il mangiare fosse un miracolo che avviene per la prima volta, con i commessi che servono cibo e bevande. Mezz’ora prima era buio e la città dormiva inerte, ora la vita è piena, fatta di slogan, di marce, ma soprattutto di ricordi e di confronti col passato. Si vede come lo stare insieme, il trovarsi all’inizio della giornata raccolti in gruppo, dà a ciascuno più sicurezza e anche quel giorno tutti avrebbero fatto un passo avanti. In questo modo a Pechino comincia la giornata delle vaste masse. Entrano in fabbrica ed è pronta la prima colazione, altra conquista della Rivoluzione culturale da cui è nata la triplice unione degli operai, dei tecnici e dei soldati rappresentanti nel comitato rivoluzionario permanente che dirige la vita dell’azienda sotto il controllo del comitato del partito. Quando squillano le note di L’Oriente è rosso sono tutti al proprio posto, e quando l’inno è finito a tutti è ricordato che la produzione è al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio della produzione. Anche nelle scuole comincia la giornata con l’avvertimento ai bimbi delle elementari e ai ragazzi delle medie che la cosa che più conta è la coscienza di classe, che la politica viene al primo posto e che la rivoluzione non sarebbe finita mai. Ci sarebbero sempre stati nemici da combattere, e spetta ai giovani prepararsi a impedire che le debolezze, le tentazioni del lusso, le ambizioni personali, lo spirito di rivalità avrebbero reso forte la linea che ha sconfitto il rinnegato Liu Shao che pensava di inseguire l’Occidente nella corsa alle macchine e ai consumi, favorendo l’imperialismo e tr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Michele T.
  3. Indice dei contenuti
  4. Capitolo I
  5. Capitolo II
  6. Capitolo III
  7. Capitolo IV
  8. Capitolo V
  9. Capitolo VI
  10. Capitolo VII
  11. Capitolo VIII
  12. Capitolo IX
  13. Postfazione
  14. IL CROGIOLO – ROMANZI