La comunicazione interpersonale e intergenerazionale nell'era 4.0
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La comunicazione interpersonale e intergenerazionale nell'era 4.0

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È ormai evidente che il sistema di comunicazione è in veloce e profonda trasformazione; come rendere le nuove modalità occasioni di autentico incontro interpersonale e intergenerazionale senza impoverire la relazione autenticamente umana, fondamento di ogni formazione?
La collana, nata da percorsi formativi congiunti tra Università scuola e società, è rivolta a genitori, educatori ed insegnanti, e si propone di trattare ciascuna tematica con semplicità e rigore, offrendo, a partire da differenti approcci disciplinari (psicologia, sociologia e pedagogia) spunti di riflessione per la comprensione dell’oggi e prospettive attuali per un’educazione integrale. a cura di Cristina Casaschi

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865127261
Argomento
Study Aids
Categoria
Study Guides

1. Un mondo poliedrico

Oltre che essere molto accelerato, il mondo attuale è anche molto vario e articolato. Le società post-moderne presentano un problema nuovo ma anche molto interessante: la pluralità. Categorie uniche, predefinite e per lo più polarizzate, come uomini vs. donne, cristiani vs. atei, giovani vs. anziani, “destra” vs. “sinistra” e così via, sono vieppiù venute a sfrangersi in molteplici specchi caleidoscopici.
La cultura occidentale fatica a pensare il molteplice, visto che la storia filosofica dell’Occidente s’è impegnata nel dare una visione sistematica e totalizzante della realtà. Di molte categorie della filosofia, della sociologia, della pedagogia del secolo scorso, l’unica che sembra essere ancora universalmente operativa è la techné, come Emanuele Severino [1] ha magistralmente indicato. Anche la pedagogia risente di una qual certa “didattica” intesa in termini tecnici, come traspare da espressioni quali “livelli minimi di apprendimento”, “bilancio delle competenze”, “oggettività della valutazione”, ecc., ecc., tutte forme di tecnicizzazione del rapporto educativo che già Don Lorenzo Milani aveva stigmatizzato. Forse che la sacca di ragazzi NEET, oltre a molti altri ragazzi non agganciati dalla scuola, costituisce una classe di “resistenti” alla pressione della techné scolastica, la quale, scavalcando le intrinseche difficoltà del confronto con il molteplice, impone un unico standard? Dopo tutto, il problema della scuola d’oggi ha molto a che fare con l’ampio ventaglio delle situazioni “a-normali”: dai DSA, alle disabilità comportamentali, psichiche, fisiche, ecc. L’appello all’inclusività rischia di rimanere lettera morta se non si consente a ciascun istituto di adattare la propria azione organizzativa secondo parametri locali. Come già ebbe a dire nel 1967 Don Milani l’istituzione scolastica è necessaria proprio per chi più ne è lontano socialmente, culturalmente e come forma mentis. Ma, come si legge in un Blog di Maurizio Parodi del marzo 2016, fondatore del movimento “Basta compiti”:

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha fatto sapere che gli studenti con disturbi specifici di apprendimento, certificati (Dsa), sono 186.803, di cui 108.844 dislessici, 38.028 disgrafici, 46.979 disortografici e 41.819 discalculici; ma secondo l’Associazione italiana della dislessia sarebbero più di 350 mila. Nel 2010/2011 erano lo 0,7% della popolazione scolastica; quattro anni dopo, 2014/2015, sono saliti al 2,1%: un aumento vertiginoso e inquietante delle diagnosi che dovrebbe allarmare e suggerire riflessioni non più differibili, a cominciare da un interrogativo di elementare buon senso: possibile che con il passare del tempo, storico, i bambini e i ragazzi siano sempre più “disturbati”, più “deficienti”, meno “adattabili”, meno “adatti”? Siamo sicuri che la certificazione dei problemi di apprendimento non sia il modo più comodo, per la scuola, di non mettersi in discussione, di perpetuare logiche e pratiche non “adatte” o “adattabili”? Davvero siamo convinti che la medicalizzazione del disagio non rappresenti una forma di “irresponsabilità” professionale e di autoreferenzialità istituzionale? Il sospetto, ampiamente suffragato (v. dati OCSE), è che l’apparato funzioni secondo principi più o meno inconsapevoli o inconfessabili che troppo spesso sono all’origine dei disturbi lamentati. Ipotizziamo, per esempio, che la didattica si fondi sul paradigma secondo cui “la scuola è giusta e semmai gli studenti (che non riescono) sono sbagliati”: cosa accadrebbe? Esattamente ciò che sta accadendo: chi meglio si adegua viene accolto, chi non vuole o non può adattarsi viene considerato “anormale”, etichettato, separato e magari “respinto”. Un autentico paradosso, considerato che la scuola non dovrebbe emarginare chi è diverso, chi non sa, chi non riesce, chi non ha voglia di sapere, riconoscendo, anzi, tutti questi come suoi problemi, come l’oggetto stesso del proprio operare, e non come ostacoli al suo ordinato svolgimento. Se così non fosse, sarebbe più onesto dichiarare, sul frontespizio del PTOF: “Gli studenti sono al servizio della scuola, e non viceversa.

Le antropologie sottostanti al priore di Barbiana, da una parte, e ai cultori della didattica oggettiva, dall’altra parte, declinano molto probabilmente quello che nella storia del pensiero occidentale si ricollega all’intreccio di due approcci complementari, come quello analitico scientifico e quello simbolico umanistico. Il primo sembra essere maggiormente interessato alle cose e al loro manifestarsi esteriore (all’ “oggettivo”), anche in termini di cause che producono certi effetti, che vanno valutati e, se del caso, rinforzati o dissuasi. Il secondo approccio sembra maggiormente interessato al mondo interiore dell’essere umano (al “soggettivo”), alla sua coscienza al di qua di come essa si manifesti in termini di effetti sul mondo. In generale, i due approcci possono essere ricondotti a due filosofie pedagogiche radicalmente opposte, come quella platonica, per un verso, e aristotelica, per un altro.
Per Platone, infatti, l’educando “già sa” e compito dell’educatore è guidarlo nel “trar fuori”, alla luce della coscienza, il proprio bagaglio di conoscenze sul mondo. Per Aristotele (ma forse sarebbe meglio dire per l’aristotelismo), l’insieme delle conoscenze è da raccogliersi e trasmettere alle nuove generazioni, secondo il vaglio della razionalità affinata dalla logica. L’approccio aristotelico sembra molto più unidirezionale, sotto la legge del logós che non ammette contraddizioni, mentre l’approccio platonico si basa tutto sul metodo dialettico, in cui il maestro è il levatore che porta a manifestarsi la verità-conoscenza dell’educando. Nel Menone, Platone racconta un esperimento di geometria con uno schiavo ignorante per mostrare come il sapere sia già nella mente dell’uomo. L’Etica a Nicomaco di Aristotele è un magnifico manuale d’istruzione circa la conoscenza pratica che serve a un uomo per essere cittadino attivo della propria comunità politica.
Entrambi gli approcci hanno ovviamente una loro dignità da coltivare e da agire alternativamente l’una con l’altra, ma in tempi di dominio della tecnica, la visione platonica della maturazione conoscitiva va sempre più a finire nella pedagogia dei margini, quella per i disabili, gli stranieri, gli emarginati sociali (che, da questo punto di vista, sembrerebbero quasi paradossalmente “più fortunati”, perché la loro esclusione dalle forze dominanti ne fa una categoria che solo un approccio relazionale à la Platone può sperare di conquistare).
Un’educazione maieutica parte dai moventi del complesso corpo-mente [2]. Nella didattica programmata sembra non possa esserci spazio per un’esperienza il cui obiettivo non può essere già previsto. Per la pedagogia platonica, invece, ogni gruppo e ogni individuo sono realtà a sé. L’impossibilità di “ripetersi” rende tale proposta pedagogica sospetta a tutti coloro che invece puntano sulla progettazione dell’esperienza didattica per garantire dei supposti principi generali dell’istruzione. La cosa è comprensibile perché trasmettere il sapere è diverso che formare le persone. Partendo dal corpo in azione e dalle sue reminiscenze, come le chiama Platone, l’approccio “centrato sul soggetto” può entrare anche nella didattica delle discipline scolastiche, come la matematica, la geometria, il disegno, la lingua e la storia, ecc. Sentire, ricordare, fare e disfare sono tutte operazioni che nelle attività del corpo includono operazioni come misurare, operare secondo la logica naturale, proiettarsi in uno spazio attraverso l’azione: si conta su base dieci come le dita della mano, lo spazio euclideo è l’ambito dell’azione-enazione [3], la storia è la sequenza degli eventi che hanno generato il presente, ecc. ecc. Perché non chiedersi, per esempio, se non sia possibile insegnare la storia a ritroso, partendo dalla condizione dei bambini qui e ora, così da rendere tangibile quanto il passato determini il presente; oppure sperimentare la matematica partendo dalle dita o dalle braccia, assumendo una base binaria del calcolo? Perché, ancora, non sviluppare la memoria con l’antico metodo dei loci, che richiede un camminare in uno spazio famigliare dove depositare i ricordi, uno spazio che prima è esperienziale e, poi, mentale?
Prendendo atto di tutte le variazioni generazionali delle condizioni del vivere storico-sociale dell’essere umano, dobbiamo altresì ricordare che egli è, nella sua struttura fisico-antropologica, lo stesso da 40.000 anni. Questo ci fa quindi “sperare” che alcune “leggi” della comunicazione siano ancora valide, nonostante i cambiamenti della mente tecnologizzata.



[1] E. Severino, Techne: le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979.
[2] A. Zatti, Il sentimento motorio, FrancoAngeli, Milano 2013.
[3] A. Berthoz, Il senso del movimento, tr. it. McGraw Hill, Milano 1998.

2. In primis l’educazione

Restando all’interno dell’ambito scolastico, è possibile affermare un principio che proviene da quanto detto sopra: nel rapporto fra istruzione ed educazione, è quest’ultima che va messa come sfondo senza il quale il processo di apprendimento rischia di restare sospeso in un non senso. Senza necessariamente costruire un sistema contrappositivo fra i due termini (istruzione ed educazione) è possibile sostenere che il vasto patrimonio della conoscenza della nostra cultura può incidersi nelle menti dei ragazzi (in-segno), se esso riceve senso dal valore contestuale del rapporto umano con i compagni e gli insegnanti, e dalla rilevanza che quanto gli viene proposto dimostra di avere con la sua, dell’educando, vita concreta. Educazione e istruzione stanno in un rapporto di figura-sfondo (l’istruzione emerge da un rapporto educativo), perché una – l’istruzione – abbia significato è necessario che essa sia collegata a un tutto contestuale – l’educazione – che ne raccolga i termini secondo una rilevanza centrata sullo scolaro. È nella comunicazione fra le generazioni (insegnanti-genitori et alunni-figli) che si costruisce la cornice educativa.
Quando si parla di comunicazione, si può utilizzare una visione cibernetica, come passaggio di informazioni, sull’esempio di tutti gli apparati che trasferiscono bit da un terminale all’altro, utilizzando i noti fenomeni di auto ed etero controllo (del canale, del codice, dei feedback). Ma della “comunicazione” si può farne una rappresentazione molto più “umana” e, proprio per questo, aliena alle macchine e a una società altamente tecnologizzata come la nostra. Un noto psicoanalista come Franco Fornari amava dire: “la comunicazione è uno scambiarsi di doni fra mura comuni” [1] . L’immagine è chiaramente classica (le mura di una città-stato a cui si appartiene), e l’uso della metafora stimola il pensiero a interpretazioni non certo assolute, ma che traggono spunto proprio dalle concrete situazioni in cui ciascuno si trova. Immagini e metafore hanno la grande qualità di sottostare a interpretazioni soggettive, così da contestualizzarsi molto meglio di quelle che possono essere le denotazioni oggettive del linguaggio scientifico.
Le parole centrali “dono” e “mura comuni” ispirano sentimenti quali gratuità, ma anche reciprocità, protezione, accomunamento, come condizioni di partenza-appartenenza (sentirsi radicati in qualche luogo).
Intendere la comunicazione come uno scambio di qualcosa che denominiamo “dono” attiva dei significati ben diversi da quello che può suscitare una parola come informazione. Il dono esalta la componente relazionale del rapporto, mentre l’informazione enfatizza l’aspetto contenutistico della comunicazione [2]. Attenzione però a considerare il dono solo ed esclusivamente come gesto gratuito, giacché l’antropologia, ma anche la cultura popolare, considerano “dono” anche lo scambio di favori: “in una comunità, ci si dà tutti una mano, scambiandosi i favori quando se ne ha bisogno” era il “detto” di molte comunità agricole. Anche il dono di questo secondo tipo, molto più antico, invero, di quello codificato come gesto gratuito, contribuisce a scrivere una relazione, semplicemente perché esso prescinde dalla contabilità di un dare e avere in cui lo scambio alla fine arriva a un pareggio. L’abbraccio che un figlio dà al genitore in segno di ringraziamento per un piatto particolarmente appetitoso cucinato quel giorno proprio per lui è un esempio di scambio di gesti che rientrano nell’economia affettiva del dono (non certo in quello monetario!).
Scambiarsi dei “doni” come comunicazione che scende ben più in profondità del farsi regali (come “oggetti che soddisfano un desiderio”), pone le due entità di cui si vuole discutere, la famiglia e la scuola, su due prospettive temporali diverse. In generale, i tempi dell’educazione (e anche in questo si evidenziano differenze enormi fra istruzione ed educazione) si distendono in una prospettiva medio-lunga (lustri o “settenni”, come indicava Rudolph Steiner). Ma i tempi della reciprocità fra le generazioni all’interno della famiglia sono addirittura di tempo lungo-lunghissimo: i bambini e i ragazzi potranno comprendere pienamente i propri genitori quando a loro volta saranno divenuti adulti e magari genitori. Quello che hanno ricevuto per decenni in qualità di figli, lo potranno in qualche modo “restituire” quando i propri genitori dipenderanno da loro, e certamente in modo molto diverso.
I tempi dell’educazione sono tempi medio lunghi. A scuola, si assiste a temporalità dell’apprendimento dei contenuti curricolari dettata da un orologio esterno alle menti dei singoli individui, ma anche della classe e della scuola (i “programmi ministeriali”) che s’appoggia su una scansione supposta “scientifica” delle fasi di sviluppo cerebrale. Esiste, però, una temporalità riconducibile alla maturazione della coscienza di un ragazzo, che chiameremo “educato” sia per la sua capacità di temperanza, sia...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La comunicazione interpersonale e intergenerazionale nell’era 4.0
  3. Indice dei contenuti
  4. Introduzione
  5. LO SGUARDO PSICOLOGICO
  6. 1. Un mondo poliedrico
  7. 2. In primis l’educazione
  8. 3. I due (e più) “mondi” dell’educazione
  9. 4. La forza del dialogo
  10. LO SGUARDO SOCIOLOGICO
  11. 1. Quanto ti devo?
  12. 2. Diseguaglianze
  13. 3. La scatola degli attrezzi
  14. 4. Il modello e dopo
  15. LO SGUARDO EDUCATIVO
  16. 1. Il primo vertice
  17. 2. Il secondo vertice
  18. 3. Il terzo vertice
  19. 4. Il contenuto della triangolazione
  20. 5. La comunicazione come dialogo in famiglia
  21. 6. La comunicazione come linguaggio a scuola
  22. Piste di lavoro
  23. Per chi voglia approfondire